Finalmente in scena la “Serata a Colono” di Elsa Morante
Alberto Pellegrino
11 Apr 2013 - Commenti teatro
Teatro: Recensioni
Ancona 5 aprile 2013. Per merito del regista Mario Martone arriva finalmente in teatro La serata a Colono, il testo teatrale scritto da Elsa Morante nel 1966/67 che qualche voce critica, fuori del coro, ha definito noioso e irrappresentabile, al contrario di altri che ne hanno sottolineato la validità , in accordo con Carmelo Bene che nel 1970 lo aveva definito il capolavoro della Morante, vertice della poesia italiana del Novecento e che aveva tentato senza successo di farne un film con la sua regia e con l’interpretazione di Eduardo De Filippo. A sua volta Vittorio Gassman, sempre negli anni Settanta, aveva progettato di allestire uno spettacolo senza raggiungere alcun risultato, per cui da quel momento la Morante si era mostrata sempre restia a concedere i diritti di rappresentazione.
Grazie alla coproduzione tra il Teatro Stabile di Torino, il Teatro Stabile delle Marche e il Teatro di Roma, Martone, che aveva a lungo frequentato il mito edipico con la messa in scena di Edipo Re, I Sette contro Tebe ed Edipo a Colono, ha deciso ora di rappresentare questo testo definito misterioso e inafferrabile , proprio perchè raccoglie in sè le componenti del monologo, del poema, della commedia, della tragedia e del melodramma, costituendo l’esempio di una drammaturgia da grande avanguardia del 900 molto vicina al Teatro della Crudeltà di Artaud, ai poeti della Beat Generation, ma anche al lirismo di Holderlin con i versi di O Sacro Essere declamati dal Coro a chiusura della rappresentazione.
Verso sera, in un dolce tiepido novembre, intorno all’anno 1960; nell’interno del Policlinico di una città sudeuropea, in un corridoio attiguo al reparto neurodeliri : con questa didascalia ha inizio La serata a Colono che ruota intorno a un personaggio estremamente complesso, al simbolo di un uomo dolorosamente divorato dalla senso della colpa e della responsabilità , un uomo che non è Edipo ma che nel suo delirio finisce per essere realmente Edipo. Infatti, come per un miracolo, il delirio di un paranoide alcolizzato e tossicodipendente diventa il poema drammatico sulla dolorosa condizione di un individuo che attraversa gli inferi della colpa e della persecuzione del Fato per approdare ad una specie di catarsi finale, quando il canto d’amore di Holderlin assume una dimensione metafisica e si trasforma in una preghiera alla divinità persecutoria (in questo caso Apollo), invocando un perdono che cancelli il peso di una colpa vergognosa piombata contro la sua volontà sulle fragili spalle di un uomo.
Al suo fianco si trova Antigone che non indossa le vesti di un’eroina tragica, ma che rappresenta la pietà filiale, una creatura semplice che si esprime con una lingua piena di termini e di inflessioni popolari, decisamente lontana dal linguaggio alto e colto del padre, impegnata a mostrare la propria dedizione al padre attraverso una lunga e appassionata difesa di Edipo in una forma venata da una commovente comicità . Antigone non è nè ascoltata nè presa in alcuna considerazione da infermieri e medici del manicomio proprio perchè è una diversa (lo stesso Edipo la definisce una povera guaglioncella mal cresciuta per colpa della sua nascita di mente un poco tardiva ), una emarginata che ignora la cultura diffusa e i suoi valori condivisi per vivere in una sua dimensione assoluta dell’amore .
Martone, per collocare questo testo molto particolare, ha ideato una scena di grande efficacia nella sua assoluta essenzialità , magistralmente sottolineata dalle luci di Pasquale Mari e animata in sottofondo dalle musiche di Nicola Piovani. Egli innova rispetto al testo, perchè sfonda la quarta parete, portando nella prima parte il Coro dei pazzi (fatto nel testo da voci fuori campo) in platea ad agire in mezzo al pubblico, mentre nella seconda parte assegna allo stesso Coro la funzione propria del teatro classico. Molto brava Antonia Truppo nelle vesti di Antigone e di grande rilievo il cammeo di Angelica Ippolito, una suora ospedaliera che, nel delirio del protagonista, assume il volto e la voce di una Giocasta materna consolatrice del figlio-marito che vuole alfine trovare il riposo e un oblio consolatorio.
Una considerazione a parte merita l’Edipo di Carlo Cecchi che una certa critica ha voluto vedere nelle vesti di un mattatore, come un fiume in piena avulso dalla spettacolo perchè lui stesso è lo spettacolo . Non concordiamo con questo giudizio, perchè Cecchi ha fornito a nostro avviso una magistrale prova d’attore, interpretando un testo difficilissimo rimanendo bendato e legato per tutta la rappresentazione sotto la luce fredda del grande sole che domina la scena o chiuso nella dolorosa penombra che circonda il suo letto di contenzione. Cecchi mostra una straordinaria intensità e una eccezionale concentrazione non solo nell’interpretare i due lunghi soliloqui di Edipo, ma nel corso di tutta la rappresentazione che richiede l’uso di forme e registri diversi, perchè l’interprete deve passare dalla recitazione tragica al recitativo arioso , dal melologo al canto lirico con una performance che solo una grande attore è in grado di fornire, perchè vive il suo ruolo con appassionata partecipazione.