Festival Pergolesi Spontini e Stagione lirica a Jesi


Alberto Pellegrino

23 Set 2013 - Musica classica, News classica

Jesi – Il Festival Pergolesi Spontini 2013 presenta un cartellone particolarmente vario e interessante, poiché affronta il tema “musica e potere politico” sintetizzato nel titolo Lo scettro e la bacchetta. Si inizia il 4 ottobre con un concerto di brani per baritono e basso tratti da opere di Verdi e Wagner; vi sarà poi l’11 ottobre a Montecarotto un “Salotto musicale” con musiche di autori dell’Ottocento eseguite al pianoforte dal Maestro Roberto Cominati, seguito il 27 ottobre a Maiolati Spontini da un concerto per organo che rientra nel progetto “Voci d’organo per le Marche” con musiche dell’Ottocento interpretate dall’organista Elena Gentiletti Drago e dal tenore David Mazzoni. L’evento musicale più importante avrà luogo nel Teatro Pergolesi il 25 ottobre con la prima esecuzione in epoca moderna della Cantata Gott segne den Konig! (Dio benedica il Re) composta da Gaspare Spontini per soli coro e orchestra nel 1826 in occasione della visita a Berlino dello zar Nicola I di Russi. Nel 1828 Spontini fece di questa composizione l’inno dell’ultimo movimento di una cantata in onore di Federico Guglielmo III di Prussia, la cantata, che era giunta fino a noi incompleta, è stata ricostruita grazie alla collazione di tre fonti manoscritte, due delle parti sono conservate nel Fondo spontiniano presso la Biblioteca Comunale Planettiana di Jesi. La composizione sarà eseguita dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta dal Maestro Corrado Rovanis.

"ARLESIANA": Dimitry Golovnin e Annunziata VestriIl cartellone della 46^ Stagione Lirica jesina si apre con un’autentica rarità musicale, infatti L’Arlesiana di Francesco Cilea (1866-1950) appare pochissimo nei repertori teatrali e viene messa in scena per la prima volta nel Teatro Pergolesi in coproduzione con il Wexford Festival Opera con la direzione del Maestro Francesco Cilluffo e con la regia di rosetta Cucchi. L’opera, composta su libretto di Leopoldo Marenco tratta dall’omonimo dramma di Alfonso Daudet, fu rappresentata per la prima volta nel 1897 al Teatro Lirico di Milano senza molto successo, fatta eccezione per l’interpretazione del giovane Enrico Caruso che segnò la fama del Lamento di Federico (la romanza “E’ la solita storia del pastore”). Dopo una drastica riduzione da quattro a tre atti, sostanziali modifiche (1912), l’aggiunta del Preludio (1936) e dell’Intermezzo che apre il terzo atto (1938), la partitura che ascoltiamo oggi è quella del 1940. Nel secondo Novecento divennero più rare le messe in scena dell’opera, anche perché la sua fama fu offuscata dal successo dell’Adriana Lecouvreur dello stesso Cilea.  L’edizione jesina dell’opera è stata arricchita dalla romanza per tenore Una mattina  che faceva parte della prima partitura, il cui manoscritto è stato ritrovato nel 2011dal tenore Giuseppe Filianoti presso il Museo Francesco Cilea di Palmi; il brano sarà eseguito con la riorchestrazione del compositore Mario Guido Scappucci. La trama è abbastanza semplice: Federico è innamorato di una  misteriosa donna di Arles (che non compare mai) e vorrebbe sposarla nonostante la volontà contraria della"L'arlesiana": foto di scena madre. Un giorno compare però Metifio che esibisce le lettere d’amore della fanciulla e rivendica il diritto di avere la sua mano. Le nozze sfumano e Federico cade in una cupa depressione, dalla quale tenta di strapparlo Vivetta che da tempo è innamorata di lui. Alla fine Federico si piega alla profferente della giovane e alle pressioni della madre, accettando di sposarla. Il giorno delle nozze, quando Federico pensa di essersi definitivamente liberato della sua insana passione, ecco ritornare Metifio che è ritornato a cercare le lettere dell’Arlesiana. Le sue parole riaccendono la gelosia di Federico che, disperato si uccide gettandosi dalla finestra del granaio della sua casa.

Per onorare il centenario verdiano la Fondazione Pergolesi Spontini ha deciso di mettere in scena il Falstaff, il capolavoro composto da Giuseppe Verdi nel 1893 a chiusura della sua straordinaria carriera, cimentandosi per la prima e ultima volta con l’opera comica, quando tutti pensavano che questo genere operistico non sarebbe mai stato nelle corde del Maestro.  Per la seconda volta in quest’ultima fase della sua vita, ricorre al suo amato Shakespeare come aveva fatto qualche anno prima con l’Otello; anche in questo caso Verdi affida il compito di scrivere il libretto ad Arrigo Boito che non tradirà le aspettative del Maestro. Falstaff è uno straordinario personaggio scespiriano che compare per la prima volta in Enrico IV e come protagonista nelle Allegre comari di Windsor. Il personaggio compendia in sé i cattivi istinti dell’uomo, un insieme di debolezze grandi come la sua grossa pancia: bevitore, libertino, truffatore, millantatore, traditore, vigliacco, Falstaff non presenta tuttavia l’empietà metafisica di uno Jago, non rappresenta le forze negative del demonio che si annida dentro di noi. Falstaff rappresenta piuttosto la pigrizia fisica e spirituale unita a una smodata voglia di vivere, e un peccatore giocondo e smargiasso che otterrà facilmente il perdono dei suoi peccati da Dio. Boito, com’è suo solito, fa un ottimo lavoro attingendo ad alcune parti dell’Enrico IV e soprattutto dalle Allegre comari; lo scrittore ha conferire a questa magmatica materia ordine e limpidezza, ritmo scenico e razionalità, creando un piccolo capolavoro librettistico che bene si associa all’evoluzione musicale avvenuta negli ultimi anni di vita del Maestro. Per questo per la maggioranza degli studiosi di ogni paese il Falstaff dovrebbe essere considerata l’opera verdiana più perfetta, sintesi di tutte le virtù e libera da ogni scoria, insomma il suo capolavoro, anche se ci sono altrettanti autorevoli studiosi del grande Verdi sia la sua stagione che va dalla Traviata fino all’Aida. Alla fine poco importa stabilire chi ha ragione, ma è sufficiente affermare che in ogni occasione Verdi rimane Sempre Verdi, un compositore dotato di una straordinaria energia creativa che gli consentiva di guardare al futuro della musica, tenendo ben presente il suo grande passato e riuscendo con Otello e soprattutto con Falstaff a proiettarsi nel nuovo secolo con quella ambiguità e maestria che sono state sempre le componenti di fondo del suo fascino immortale. Il Falstaff andrà in scena al Teatro Pergolesi il 22 e 24 novembre con la regia di Marco Spada, le scene di Benito Leonori e con la direzione del Maestro Giampaolo Maria Bisanti.

Un avvenimento di rilievo per la storia del cinema

Il Festival Pergolesi Spontini 2013 ospita un avvenimento di grande rilievo per la storia del cinema italiano del primo Novecento. Si tratta della Giornata di studi e del cineconcerto Immagini e suoni della vestale nel cinema muto che si terrà il 12 ottobre nel Teatro Valeria Moriconi. Alle ore 14,30 sarà proiettato il film Lo schiavo di Cartagine realizzato nel 1910 da Luigi Maggi, accompagnato dalle musiche di Osvaldo Brunetti, prima esecuzione in epoca moderna. L’opera di questo regista appartiene al filone  della storia romanzata, particolarmente in voga nella prima filmografia italiana, un genere che riflette l’abilità tecnica degli autori e la cultura artistica e letteraria del tempo, divisa tra kitsch e mondanità.  Luigi  Maggi, oltre al film sunnominato e ai film tratti da romanzi popolari, ha realizzato Gli ultimi giorni di Pompei, La vergine di Babilonia, Didone abbandonata, La regina di Ninive, Delenda Carthago!. Due altri registi impegnati nel genere storico sono stati: Mario Caserini, autore dei film Messalina, Catilina, Antigone, Nerone e Agrippina, Gli ultimi giorni di Pompei; Enrico Guazzoni che, oltre a avere realizzato Agrippina, Marcantonio e Cleopatra, Caio Giulio Cesare, va soprattutto segnalato per Quo vadis? e Fabiola, che sono stati due film molto popolari.  Il maestro del genere storico-romanzato è giustamente considerato Giovanni Pastrone (1883-1959) per i film Agnese Visconti, Giulio Cesare e La caduta di Troia, per la serie di Maciste, per i film tratti da celebri opere letterarie come Il Fuoco, Tigre reale, Hedda Glaber. Nel 1914 egli ha Il manifesto di "Cabiria"girato il suo capolavoro Cabiria, il film che sarà proiettato sempre il 12 ottobre alle ore 19,30 con musiche di Spontini, Rossini e Gluk adattate e ridotte da Manlio Mazza per una piccola orchestra che sarà diretta dal Maestro Roberto Polastri. Il film Cabiria è stato il primo “kolossal” della cinematografia italiana che ha aperto la strada al filone “mitologico”, destinato a durare per oltre mezzo secolo. Il film è stato proiettato la prima volta nel Teatro Lirico di Milano e nel Teatro Vittorio Emanuele di Torino con l’accompagnamento di un’orchestra sinfonica e di un coro lirico con l’evidente intenzione di presentare un film capace di fare concorrenza all’opera lirica e di attrare il pubblico di estrazione aristocratica e borghese, che fino allora aveva guardato con sospetto e distacco un genere di spettacolo considerato troppo popolare. Il film conquistò immediatamente il favore del pubblico, grazie anche all’interpretazione di Bartolomeo Pagano, un ex scaricatore del porto di Genova scoperto da Pastrone, che successivamente diventerà l’acclamato interprete dei film incentrati sul personaggio di “Maciste”. Cabiria ebbe successo anche all’estero, dato che il film rimase in prima visione per un anno a New York e per sei mesi a Parigi. Il film fu prodotto con una spesa di un milione di lire in oro, un costo esorbitante per quei tempi, quando una produzione cinematografica costava in media intorno alle cinquantamila lire. La stessa lunghezza del film (3500 metri per tre ore e dieci minuti di spettacolo) contribuì a far lievitare la spesa; altre cause di un costo così elevato sono da ricercare nella sua ambientazione durante le guerre puniche, nelle numerose scene con battaglie, distruzioni, incendi e sacrifici umani, nel conseguente impiego di una folta schiera di comparse, di costumi sfarzosi e di molteplici scenografie; a tutto questo bisogna aggiungere che, oltre alle scene realizzate a Torino negli stabilimenti sulla Dora Riparia, molte sequenze furono girate in esterni, sulle Alpi, in Sicilia e in Tunisia. Come direttore della fotografia e primo operatore fu chiamato il regista aragonese Segundo de Chomòn, che creò numerosi effetti cinematografici di grande efficacia a cominciare dalla sequenza dell’eruzione dell’Etna e che adoperò per la prima volta delle lampade elettriche per ottenere effetti di chiaroscuro. Pastrone introdusse l’uso del “carrello” che permetteva di effettuare delle riprese in movimento grazie alla macchina da presa piazzata sopra una piattaforma mobile brevettata nel 1912 dallo stesso Pastrone. Usando la tecnica della “carrellata”, il regista realizzò delle sequenze all’interno delle quali era possibile passare dal campo lungo fino al primissimo piano e al dettaglio senza “stacco” di ripresa, mentre nel passato la macchina da presa creava una scena fissa in cui gli attori entravano in campo e uscivano con degli effetti simili al teatro. Pastrone, partendo da un soggetto ispirato ai romanzi Salammbò di Flaubert e Cartagine in fiamme di Emilio Salgari, ebbe la felice intuizione di confezionare un prodotto capace di unire le esigenze dello spettacolo popolare con quelle della cultura mondana. Il film fu concepito e realizzato completamente da Pastrone che, per conferire all’opera una “dignità letteraria”, chiese e ottenne la collaborazione di Gabriele D’Annunzio, il quale dietro un lauto compenso si limitò a inventare il titolo dell’opera, i nomi di alcuni personaggi e di scrivere le didascalie che accompagnavano le varie scene. La visione del film era accompagnata dall’esecuzione della Sinfonia di fuoco appositamente composta da Ildebrando Pizzetti (il resto delle musiche era di Manlio Mazza)  e questo fa comprendere come tutta l’operazione fosse progetta con grande chiaroveggenza massmediatica, per cui Cabiria risultò essere il maggiore successo cinematografico nell’epoca del muto. Pastrone aveva intuito l’efficacia di mettere insieme il nome di un poeta di fama internazionale (si lasciò persino credere che il soggetto e la  sceneggiatura fossero opera del solo D’Annunzio), l’esperienza di un affermato compositore, l’utilizzazione di mezzi tecnici che assicuravano la spettacolarità dell’opera, l’intelligente sfruttamento di un soggetto in cui si alternavano la storia e la leggenda, l’avventura e la passione, il coraggio e la paura, il coraggio e la viltà. Sfoltito dagli orpelli del kitsch e dalle ambizioni culturali di una drammaturgia di bassa lega, Cabiria dimostra ancora oggi come il cinema spettacolare potesse ambire ad avere un linguaggio autonomo rispetto al teatro, come l’abile uso della cinecamera e l’impiego degli elementi drammaturgici all’interno dell’inquadratura fossero in grado di dare alla narrazione un’efficacia fuori del comune, introducendo anche un dinamismo narrativo e un modello di recitazione fuori dagli schemi allora abituali. La vicenda del film, che aveva come sottotitolo Visione storica del terzo secolo a.C., si svolge durante la prima guerra punica secondo una trama complicatissima: Batto, un ricco romano, vive con la piccola Cabiria a Catania, che viene semidistrutta da un’eruzione dell’Etna. La nutrice Croessa, per mettere in salvo la bambina, s’imbarca su una nave che è catturata dai pirati fenici, i quali vendono come schiave ai Cartaginesi la donna e la piccola Cabiria. I sacerdoti decidono di immolare la bambina al dio Moloch e Croessa chiede aiuto al romano Fulvio Axilia che, insieme al suo servo Maciste, spia sotto copertura i nemici di Roma. I due riescono a rapire Cabiria mentre sta per essere sacrificata e fuggono dal tempio, dove Croessa è uccisa al posto della bambina. Rifugiatisi in una bettola, sono traditi dal padrone, per cui Fulvio è costretto a fuggire, mentre Maciste è catturato, fatto schiavo e condannato a far girare una mola di mulino. Nel frattempo Annibale sta conducendo la campagna d’Italia e sua sorella Sofonisba è promessa sposa al Massinissa, re della Numidia. Passano gli anni e i romani assediano Siracusa, dove Archimede distrugge la flotta repubblicana con i suoi specchi ustori. Fulvio, che aveva partecipato all’assedio, si rifugia ad Aretusa nella casa di Batto, il quale riconosce un suo anello che Fulvio porta al dito e che gli era stato donato da Croessa. Il giovane romano racconta la storia di Cabiria che il padre credeva fosse morta e s’impegna a liberarla. La fanciulla, che è stata affidata da Maciste a Sofonisba, è diventata una giovane di grande bellezza e si trova al servizio della regina che ha sposato Siface, re di Cirta. Fulvio ritorna in Africa con l’esercito di Scipione e libera Maciste, quindi i due fuggono e si rifugiano nel deserto, mentre Scipione fa incendiare l’accampamento nemico. La luce delle fiamme guida Fulvio e Maciste verso i Cartaginesi che li fanno prigionieri e li portano a Cirta, la città assediata dai Romani. La regina Sofonisba manda in loro aiuto la sua fedele schiava e racconta ai due com’è venuta in possesso di Elissa. Nel frattempo Asdrubale ordina di sacrificare la giovane per placare l’ira di Moloch. Fulvio e Maciste cercano di rapire la ragazza senza successo, per cui devono nascondersi. Massinissa, alleato dei romani, conquista la città, concede la grazia a Fulvio e a Maciste, i quali chiedono che a Cabiria sia concessa la libertà, ma sopraggiunge la notizia che la fanciulla è morta. Massinissa chiede come bottino di guerra Sofonisba, che allora decide di uccidersi. Prima di morire, la regina rivela a Fulvio che Elissa e Cabiria sono la stessa persona e la concede in sposa al giovane romano. Nello stesso tempo Scipione l’Africano sconfigge i Cartaginesi nella battaglia di Zama, per cui Fulvio, Cabiria e Maciste possono fare liberamente ritorno a Roma.

Una scena di "Cabiria"Un'altra scena di "Cabiria"

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