Far ridere è un’arte muta
Giovanni Longo
22 Set 2003 - Approfondimenti cinema
1. Le comiche mute, un mito in bianco e nero (2003)
di Giovanni Longo
Il cinema comico muto americano negli anni Dieci e in buona parte degli anni Venti del Novecento.
Non pochi tra coloro che hanno superato la trentina ricorderanno con quale ansia ogni sabato – si era all’incirca nella metà degli anni settanta – attendevano il ritorno a casa da scuola per godersi, proprio all’ora di pranzo, gli esilaranti shorts che facevano di “Oggi le comiche” uno dei punti di forza di un rimpianto palinsesto Rai. Costoro, come del resto le due generazioni precedenti, hanno nutrito il loro immaginario di bambini e adolescenti con quelle improbabili e ultracomiche situazioni a base di inseguimenti, zuffe e lanci di torte in faccia che si susseguivano a ritmo di ragtime. E oggi? Per chi voglia viaggiare sul filo della nostalgia e per chi, addirittura, di quello spettacolo non ha mai goduto, i tempi sono grami. Se si eccettuano poche, meritorie eccezioni in orari impossibili (è il caso di alcune iniziative di RaiTre di qualche tempo fa) rivedere in azione quegli omini saltellanti, dallo stupefacente talento mimico spesso amplificato da visi truccati e da travestimenti bizzarri, è divenuto un’impresa, un capriccio da videoteca o estinguibile solo in occasione di apposite retrospettive per cinefili.
A parte i sommi (Charlie Chaplin e Buster Keaton), la cui arte trascende il genere comico propriamente detto, e dei quali parleremo solo incidentalmente, su tutti gli altri, su quella incredibile galleria di personaggi, dentro e fuori dal set, che hanno animato il cinema comico muto americano negli anni Dieci e in buona parte degli anni Venti del Novecento, sembra calata una cortina di oblio. La loro memoria viene perlopiù coltivata nei luoghi d’accademia o appunto in rare occasioni di rassegne dedicate.
Eppure curiosare su quel periodo pionieristico si rivela operazione assai istruttiva per capire l’evoluzione del linguaggio comico.
Tutti coloro che popolarono quell’universo di centinaia e centinaia di comiche, dalle stelle più luminose all’ultima delle comparse raccolsero l’eredità del “comico” presente in alcune forme di intrattenimento anteriori al cinema come il varietà e il circo, e davanti alle prime, rudimentali macchine da presa la rielaborarono, prendendo gradualmente coscienza delle possibilità racchiuse nel nuovo mezzo espressivo.
Gran parte delle vicende di quel clima artistico ruotano intorno a un personaggio che avrebbe creato un vero e proprio stile, al punto da rimanere consegnato alla storia del cinema con il titolo di “re delle comiche”, Mack Sennett.
2. Gli esordi del “re delle comiche”
di Giovanni Longo
Mack Sennett, al secolo Michael Sinnott attore e regista alla Biograph
Nato in Canada nel 1880 da una famiglia di immigrati irlandesi, Mack Sennett (al secolo Michael Sinnott) approda allo spettacolo con la convinta speranza di diventare cantante lirico (è dotato di una buona voce di basso) e inizia a esplorare quel mondo trovando spazio nel “burlesque”, a quel tempo una delle forme di teatro leggero più in voga insieme al “vaudeville” e allo “slapstick”. Si trattava di tipi di intrattenimento a contenuto perlopiù parodistico, caratterizzati da una comicità immediata e piuttosto grossolana se non volgare, fatta di gag estemporanee e pantomime clownesche arricchite da esibizioni canore e da acrobazie circensi.
Pur di coltivare il proprio sogno Sennett accetta una gavetta che lo vede nei più disparati ruoli nelle compagnie di burlesque; fa la comparsa, il corista, persino il ballerino. Nel giro di qualche tempo, mentre vede sfumare i sogni di gloria nell’arte canora, Sennett si irrobustisce in conoscenze ed esperienze che si riveleranno decisive alla luce delle sue vicende future e come molta gente dello spettacolo comincia a guardare alla nascente arte del cinematografo, che oltretutto pare assicurare possibilità di maggiori guadagni. Così, un giorno del 1908 si presenta a New York in uno dei teatri di posa della Biograph, una delle più importanti case di produzione, dove lavora David W. Griffith. Il futuro regista di “The Birth of a Nation” e “Intolerance”, padre fondatore del cinema americano, creatore del genere drammatico, è in quel momento il regista ufficiale della Biograph; in tale veste dirige l’unica compagnia di attori in seno alla casa produttrice ed è impegnato nella realizzazione di pellicole dei diversi generi, dal drammatico (del quale sta costruendo un sontuoso edificio estetico), al comico, al western. Per cifre certo maggiori di quelle guadagnate sino a quel momento Sennett comincia a fare la comparsa davanti alla macchina da presa. Si cimenta ovviamente pure nel comico, genere che viene di lì a poco affidato anche alle performances di una nuova compagnia, diretta da Frank Powell, sempre comunque sotto la supervisione di Griffith. Il mestiere appreso durante gli anni di teatro comico e la possibilità di osservare da vicino il lavoro di Griffith fanno sì che Sennett cominci a ritagliarsi ruoli di sempre maggiore importanza; dopo alcune iniziali riserve i suoi suggerimenti in fase non solo di realizzazione ma anche di ideazione cominciano a trovare un certo riscontro, fino a farlo passare di qua della macchina da presa.
Sebbene non vi sia pieno accordo tra gli storici del cinema, il primo titolo riconosciuto come di Sennett regista è Comrades, girato tra il 1910 e il 1911, che lo vede anche nelle vesti di interprete. L’uscita di scena di Powell per ragioni di salute conferisce di fatto a Sennett i galloni di responsabile Biograph del genere comico. E’ l’inizio della carriera del creatore di un cinema che costituisce, sul versante comico, ciò che l’arte di Griffith rappresenta per il drammatico.
3. Alle origini dello slapstick
di Giovanni Longo
All’epoca in cui Sennett fa il suo ingresso nel mondo del cinema, il genere comico si propone soprattutto come rivisitazione sullo schermo di molte delle trovate che furoreggiano nel teatro leggero e negli show clowneschi del circo. In particolare, lo stile slapstick, che caratterizza gran parte del cinema comico delle origini, definisce un tipo di comicità che affonda le sue lontane radici nella commedia dell’Arte italiana e che si era poi diffusa nel mondo anglosassone, dapprima in Gran Bretagna e in seguito dall’altra parte dell’oceano. L’espressione (composto di “stick”, bastone e di “slap”, schiaffo) risale probabilmente agli inizi del 18° secolo e designa il bastone spesso in dotazione ad Arlecchino e successivamente ai clowns del circo, i quali lo utilizzano nelle loro gags per colpirsi in testa o in altre parti del corpo, provocando curiosi rumori e scatenando così le risa del pubblico. “Slapstick” diviene presto parola usata per indicare una comicità di stampo farsesco, che vive del prodursi continuo e meccanico di gags cui danno vita, con una recitazione esagitata, attori dal viso spesso pesantemente truccato: nel varietà, nel circo, finalmente al cinema.
Uno dei denominatori comuni della comicità di certo varietà e del circo è il grande ritmo, una forte carica dinamica, caratteristiche che il nuovo mezzo espressivo amplifica e arricchisce di nuove forme: basti pensare alla trovata dei lunghi inseguimenti, sacrificati a teatro dalla ristrettezza del palcoscenico. Alla mancanza della parola i commedianti e la gente di circo reclutati dal cinema suppliscono sfruttando al massimo le risorse mimiche e dell’azione. Ritmo forsennato, gags a go-go, inseguimenti a perdifiato, risse furibonde, torte in faccia, acrobazie di ogni genere: non si lesina niente che possa divertire un pubblico abituato alla comicità del circo e del teatro leggero e da subito attratto da quella nuova forma di espressione che è il cinematografo. A questa platea fatta in gran parte di gente semplice la risata viene servita in forma di “comica finale”, a conclusione di un “drammone” storico o sentimentale o comunque di un opera di contenuto non umoristico, che costituisce il piatto forte di quelle prime proiezioni. Le comiche sono, e continueranno a essere in gran parte, cortometraggi in una o due bobine, dove si concentra il massimo numero di trovate che è dato immaginare.
4. L’Europa, Max Linder, il genere comico prima di Sennett
di Giovanni Longo
I modelli che ispirano l’arte dei maggiori comici d’oltreoceano sono indiscutibilmente europei e in particolare francesi.
L’Europa, culla del cinema, tiene a battesimo anche il genere comico. Sebbene la produzione cinematografica comica si dispieghi nel Vecchio Continente in dimensioni e con mezzi tecnici difficilmente paragonabili a quanto si realizzerà negli USA, i modelli che ispirano l’arte dei maggiori comici d’oltreoceano sono indiscutibilmente europei e in particolare francesi. André Deed (il celebre Cretinetti), Jean Durand, Ferdinand Guillame (Tontolini e Polidor), Marcel Fabre (Robinet) sono artisti degli albori del cinema comico che mettono a disposizione di alcune tra le più importanti produzioni dell’epoca – come Pathé e Gaumont in Francia e Cines e Itala Film in Italia -, un talento che si è formato nel varietà e nel circo.
L’anello di congiunzione per eccellenza tra comici europei e americani è però Max Linder (al secolo Gabriel Leuville). Il personaggio del gentleman avvezzo ai piaceri della vita mondana e che non batte ciglio di fronte alle grottesche, assurde situazioni in cui pure si imbatte, gli meriteranno gli elogi della critica più attenta – che lo riterrà un caposcuola – e il riconoscimento del più grande di tutti: Chaplin non mancherà di sottolineare il debito d’arte e di ispirazione che lega Charlot alla maschera creata da Linder. Che viene chiamato a girare anche in America, sull’onda di una fama che ha raggiunto quel continente. Seven Years Bad Luck (Sette anni di guai, 1921) è il titolo più noto di un artista destinato a un tragica fine; la crisi depressiva che lo colpisce per il sostanziale e immeritato insuccesso patito durante gli anni americani, e alla quale non sono estranei i traumi subiti nel corso della Grande Guerra – cui ha preso parte -, sfociano nel suicidio in patria a soli 42 anni, nel 1925.
Tra le prime star americane del cinema comico, John Bunny lega il suo nome a quello della Vitagraph, altra grande casa di produzione che a lungo rivaleggerà con il colosso Keystone di Sennett. E` protagonista di numerosi cortometraggi, spesso in coppia con Flora Finch, a formare un duo che molto gioca sulla differenze di taglia e psicologiche dei suoi componenti: quanto corpulento e pacioso lui, tanto sottile e nervosa lei. Bunny è il campione delle “domestic comedies”, nelle quali l’umorismo nasce da tipiche situazioni di vita familiare, in una riproduzione della quotidianità che non arriva a quella deformazione grottesca e caricaturale che del reale viene invece proposta nelle “slapstick comedies”. Dotato di un’arte mimica assai raffinata a dispetto della notevole stazza, Bunny è l’iniziatore di una sorta di filone interno al genere comico, quello con protagonisti attori “robusti”: “Fatty” Roscoe Arbuckle nello slapstick e Oliver Hardy più compiutamente nella produzione successiva all’avvento del sonoro ne saranno i più illustri rappresentanti.
5. Sennett: dalla Biograph alla Keystone
di Giovanni Longo
La storia di Sennet che apporta una nota originale nell’invenzione delle gags.
Già dai primi lavori conseguenti la sua ascesa in seno alla Biograph in qualità di regista e più in generale di organizzatore delle compagnie di attori comici Sennett opera con mano decisamente felice, apportando una nota originale nell’invenzione delle gags, imprimendo un ritmo se possibile ancora più accelerato a quelle farse traboccanti di trovate che esprimono una comicità decisamente grossolana, di facile presa su un pubblico tutt’altro che raffinato. Il responso del pubblico è molto buono e gli incassi della Biograph conoscono un’impennata, tuttavia Sennett non ha piena libertà nelle scelte artistiche, se non altro perché non è socio a tutti gli effetti di quella casa di produzione.
La passione per le corse di cavalli è alla base della definitiva consacrazione di Sennett come uomo di cinema. E’ il 1912. Con un’inventiva pari a quella di creatore di gags, Sennett riesce a convincere due allibratori (Charles Baumann e Adam Kessel) con i quali ha contratto un debito di un centinaio di dollari, a convertire tale obbligazione nell’anticipo per un finanziamento destinato a creare una casa di produzione cinematografica. I due bookmakers, già coinvolti finanziariamente nel mondo del cinema, accettano di diventare soci, alla pari con Sennett, di una nuova struttura produttiva. Nasce così la Keystone, che ben presto si trasferisce a Los Angeles, in un comprensorio dove hanno già la loro sede le più importanti produzioni. Sennett ne è socio con le responsabilità di produttore, regista e attore.
Ciò che accade da questo momento si identifica con la saga di gran parte del cinema comico muto; un’avventura creativa, produttiva, organizzativa che, anfitrione Sennett, darà vita a una dei capitoli più stimolanti della storia del cinematografo, dove agiranno non solo ottimi comici ma anche alcuni tra i migliori talenti di sempre della “fabbrica dei sogni”.
6. Lo slapstick sennettiano: stile e motivi
di Giovanni Longo
La scuderia Sennett è una grande officina creativa dove le parole d’ordine sono velocità e dinamismo.
Il nome di Sennett contraddistingue buona parte del genere comico fin oltre l’avvento del sonoro, ma il suo periodo d’oro è sicuramente legato al muto. Pur cambiando nel corso degli anni, il marchio di fabbrica (dalla Keystone alla Triangle, dalla Pathé alla Paramount alla First National, alla Educational Films) la sua attività può essere considerata unitariamente, nel segno di uno stile che ha segnato un’epoca.
La scuderia Sennett è una grande officina creativa dove le parole d’ordine sono velocità e dinamismo, sia nei tempi di produzione (una, due settimane al massimo) sia nel ritmo che anima ogni comica. In canovacci di estrema semplicità, spesso riveduti in tempo reale mentre si gira e più spesso in sede di montaggio, al consolidato armamentario dello slapstick fatto di zuffe, inseguimenti, capitomboli, torte in faccia e incidenti vari Sennett e i suoi imprimono un ritmo vertiginoso, funzionale all’economia di quegli esili intrecci, nei quali agiscono personaggi che, pur tratti dalla vita quotidiana, sono deformati in caricature e ridotti a semplici marionette. L’effetto comico è costruito in maniera corale; i singoli contano soltanto in quanto meccanismi dell’ingranaggio che produce le gags. Non viene riservata, almeno nei primi tempi, molta attenzione alla struttura narrativa e alla caratterizzazione dei personaggi.
Al di là di alcune semplificazioni di certa critica, che pure vi sono state, a proposito della sostanziale assenza nella produzione sennettiana di implicazioni morali, sociali o psicologiche tali da elevarla al rango di satira, la geniale creazione di figure come quelle degli improbabili, maldestri poliziotti dei Keystone Cops e delle fanciulle in costume da bagno della pletora di bathing beauties (le bellezze al bagno), non può essere banalizzata in irriverenti e innocue canzonature di figure istituzionali (nel caso dei primi) e della “pruderie” della buona società (di certo colpita dalla generosa esibizione delle grazie delle seconde). Si può vedere qualcosa di più nello slapstick sennettiano: una denuncia, nemmeno troppo velata, della sostanziale ipocrisia nella società americana, violenta e pervasa da vasti fenomeni di criminalità e corruzione; in questo senso nei Keystone Cops si può leggere la sfiducia e il disincanto di Sennett e degli americani nei confronti dell’amministrazione della giustizia e nei tutori della legge. Per non parlare dei miti dell’efficienza, della produttività, del dinamismo, capisaldi di quella ipercinetica America, messi alla berlina proprio dal ritmo caotico con il quale si muovono le caricature che abitano l’universo comico sennettiano. Motivi, questi ultimi, che si ritrovano anche nelle situazioni comiche che coinvolgono il personaggio del giovane ottimista e sorridente cui presta il volto Harold Lloyd.
7. L’allegra brigata Sennett
di Giovanni Longo
Tra i migliori performers della scuderia-Sennett, la maggior parte coinvolti in un vorticoso giro di ingressi, allontanamenti, rientri e addii.
Nella costruzione e gestione di questo rutilante e redditizio “divertimentificio” Sennett (che non mancherà di spendersi anche davanti la macchina da presa) si affiderà nel corso degli anni a un folto stuolo di registi, gag-men e attori. Tra i migliori performers della scuderia-Sennett, la maggior parte coinvolti in un vorticoso giro di ingressi, allontanamenti, rientri e addii, Ford Sterling, Mabel Normand, Fred Mace (keystoniani della prima ora), i Keystone Cops Hank Mann, Charley Chase, Slim Summerville, Roscoe “Fatty” Arbuckle (il “grassone” per eccellenza delle slapstick comedies), Syd Chaplin (fratello maggiore di Charles), Mark Swain (altro famoso “grassone”), Ben Turpin (maschera inconfondibile dallo sguardo strabico, protagonista tra l’altro di alcune gustose parodie di successi hollywoodiani, come The Shriek of Araby), Polly Moran (la popolare sceriffa Nell), e ancora Al St. John (molte volte spalla di “Fatty”) e Louise Fazenda (specializzata nel ruolo della ragazza goffa e sempliciotta). E ancora le future dive Gloria Swanson e Carole Lombard, anch’esse “bathing beauties”. Tra i registi e gagmen in seno alla produzione sennettiana c’è anche Frank Capra, che diventerà negli anni Trenta il re della commedia dei buoni sentimenti.
Nel novero degli attori appartenuti alla scuderia di Sennett, un capitolo a parte merita Harry Langdon, il quale approda al cinema non più giovanissimo, intorno al 1923, in un periodo in cui lo slapstick sennettiano sta evolvendosi verso un tipo di comicità assai meno rozza di quella che ha impazzato a partire dai primi, mitici periodi della Keystone. Proveniente dal vaudeville, Langdon costruisce un personaggio con tratti di indubbia originalità nell’affollato panorama dei tipi comici americani; egli muove alla risata non attraverso l’aggressività o un maldestro dinamismo ma per quel suo stato di perenne stordimento, di continuo stupore infantile che lo condannano all’ingenuità e lo trascinano in una serie di guai dai quali si tira fuori solo per una fortunata serie di circostanze. Anche Langdon è un clown, proprio come Larry Semon, ma un clown trasognato, sempre immerso in pensieri che lo isolano in un mondo tutto suo.
Tra i grandi meriti di Sennett, oltre quello di aver fatto genuinamente divertire generazioni di americani e non solo, non può non essere citata la valorizzazione del più grande talento comico del cinema. Charlie Chaplin fa il suo ingresso in Keystone tra la fine del 1913 e l’inizio del 1914. Notato da Kessel nello spettacolo teatrale che la compagnia inglese guidata da Fred Karno sta portando in giro per l’America, esordisce in Making a living (Per guadagnarsi da vivere). Ma è nei successivi Between Showers (Charlot e il parapioggia) e Kid Auto Races at Venice (Charlot si distingue) che appare per la prima volta il personaggio del vagabondo che diverrà un’icona del cinema. Chaplin “trova” gli abiti del futuro Charlot nel ricco guardaroba Keystone: un paio di pantaloni di una taglia molto più grande della sua, forse appartenenti a Fatty, delle enormi scarpe, con ogni probabilità dell’altrettanto corpulento Ford Sterling; un bastoncino pieghevole di bambù, dei baffetti finti, una bombetta di piccola taglia. Il giovane inglese gira con la Keystone trentaquattro comiche, curando di alcune anche la regia, poi accetta la più allettante offerta della Essanay e si congeda da Sennett, per iniziare la parabola del cineasta più presente e radicato nell’immaginario collettivo.
8. Larry Semon e Harold Lloyd
di Giovanni Longo
Figure come quelle di Larry Semon e Harold Lloyd costruiscono una maschera, un personaggio che, senza poter essere avvicinati all’arte di un Chaplin o di un Keaton, sono comunque più che mai presenti negli occhi e nella mente degli spettatori.
Il mondo sennettiano, con la sua struttura produttiva, il suo stile, permea di sé molta parte delle vicende del cinema comico muto americano. Ma quel cinema deve molto anche ad altri personaggi che riescono a costruire attorno a sé un seguito grandissimo, fino a godere di una popolarità personale che supera quella dei comici della scuderia Sennett. Questi ultimi, pur non mancando tra di essi figure di rilievo, rimangono consegnati alla storia della settima arte come entità collettiva, nella quale le singolarità vanno a comporre quell’universo simpaticamente folle che si identifica con il nome del suo demiurgo. Figure come quelle di Larry Semon e Harold Lloyd – invece -, costruiscono una maschera, un personaggio che, senza poter essere avvicinati all’arte di un Chaplin o di un Keaton, sono comunque più che mai presenti negli occhi e nella mente degli ultratrentenni di oggi e degli spettatori delle due generazioni precedenti. La comicità di Chaplin e di Keaton, se si eccettua una piccola parte della loro produzione, possiede una profondità che non di rado richiede uno scarto nella capacità di comprensione, una sensibilità che non è facilmente appannaggio dello spettatore medio. Chi invece vuole divertirsi senza star troppo a pensare, può trovare in Semon e Lloyd una comicità più diretta, di sapore più popolare, frutto di un sicuro mestiere.
Di chiara matrice sennettiana, la cifra stilistica di “Jester”-“Ridolini”-“Zigoto” (sono i soprannomi con cui è famoso il suo personaggio rispettivamente in USA, Italia e Francia) fa rientrare di diritto le comiche di Larry Semon nella componente più furiosa dello slapstick.
Pur operando al di fuori della scuderia Sennett, Semon porta alle estreme conseguenze i tratti salienti di quello slapstick. Nelle sue comiche le gags si susseguono a un ritmo addirittura parossistico e la componente acrobatica è più che mai presente, per quanto Semon usi l’accortezza di non rischiare in prima persona e di avvalersi di controfigure per le scene più pericolose. Per non parlare dell’enfasi posta nel travestimento e nel trucco. I larghissimi pantaloni con bretelle, la bombetta, il viso imbiancato fino all’eccesso: Semon è il clown per eccellenza delle comiche mute, il clown allegro e vivace (quanto Langdon ne è invece clown malinconico). Tutto questo, il personaggio, le modalità e il contesto in cui agisce fanno dello slapstick semoniano una espressione molto vicina al cartoon e al fumetto. Non casualmente, perché Semon, figlio di un illusionista e acrobata e illusionista e acrobata anch’egli, è stato anche vignettista e disegnatore di fumetti per molti giornali, tra cui il “New York Herald”. Prima di approdare alla Vitagraph, ha lavorato alla Universal e alla Palace Players, dove ha diretto alcune comiche con protagonista Frank Daniels. La lunga serie di cortometraggi che interpreta per la Vitagraph a partire dal 1916 gli regala vastissima fama e un patrimonio di alcuni milioni di dollari che decide di investire nel lungometraggio a partire dal 1923. Nella nuova formula la sua comicità non è però altrettanto efficace, sicché egli fatica a ritrovare il consenso di un tempo, fino a rimanere travolto dal fiasco del suo progetto più ambizioso, The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1925). Si congeda dalle scene in un ruolo drammatico e secondario in Underworld (Le notti di Chicago) di J. Sternberg nel 1927. Su uno stato psico-fisico già minato da una grave forma di esaurimento nervoso, interviene una polmonite, che ne provoca la scomparsa nel 1928.
Se la ricerca di un senso che vada oltre il puro meccanismo farsesco risulta impresa ardua rispetto alla produzione di Larry Semon, il personaggio cui presta volto e fisico Harold Lloyd lascia indovinare invece la caricatura di un certo americano dell’epoca. La figura di Harold Lloyd si lega a filo doppio a quella dell’altro magnate del cinema comico americano, Hal Roach. Il loro sodalizio, frutto di un’amicizia nata sul set del serial Wizard of Oz intorno al 1914, è uno dei più fortunati del cinema comico e passa attraverso alcune fasi che conducono alla definizione del personaggio che consacra Lloyd come una delle icone del genere. Passando per Willie Work e Lonesome Luke, caratterizzazioni non proprio originali, specie la seconda, che – nonostante un discreto successo – appare in pesante debito d’ispirazione con Chaplin, Lloyd (che ha lavorato per brevissimo tempo anche alla Keystone, in alcune comiche al fianco di Fatty e Ford Sterling) si impone in via definitiva a partire dal 1917 in una serie di corto e lungometraggi nei panni del bravo e timido ragazzo con occhiali tondi di tartaruga, inguaribilmente ottimista, coraggioso in barba alla propria goffaggine, coinvolto in situazioni apparentemente senza via d’uscita dalle quali emerge brillantemente verso un finale quasi obbligato che lo vede conquistare la ragazza dei propri sogni. La fortuna che arride a questa figura di americano, che nel suo dinamismo ottimista fa il verso all’eroe reso popolare nel genere avventuroso da Douglas Fairbanks, la popolarità che Lloyd ne ricava vanno tanto più sottolineate se si pensa alla menomazione con la quale è costretto a convivere, dopo che un incidente su un set fotografico, nel 1919, gli ha procurato la perdita di due dita della mano destra. Grazie a una protesi Lloyd può continuare a lavorare e a dar vita a classici della comicità come Grandma’s Boy (Il talismano della nonna, 1922), Why Worry? (Accidenti che tranquillità, 1923) e altri ancora, spesso elettrizzati da sequenze da capogiro, come quella che lo vede arrampicarsi sulla facciata di un grattacielo in Safety Last (Preferisco l’ascensore) del 1923.
Pur lavorando per qualche tempo anche dopo l’avvento del sonoro, dunque in un mutato clima artistico e politico-sociale, il Lloyd migliore rimane quello che simboleggia l’uomo comune della spensierata America dell’età d’oro, di lì a poco travolta dalla grande depressione.
9. Crisi e morte della comica muta
di Giovanni Longo
Una serie di motivi concorre dapprima alla crisi e quindi al definitivo superamento di tutto uno stile, di una ben precisa estetica che contraddistingue il genere comico all’interno del cinema americano fin dai primi anni del secolo.
Una serie di motivi concorre dapprima alla crisi e quindi al definitivo superamento di tutto uno stile, di una ben precisa estetica che contraddistingue il genere comico all’interno del cinema americano fin dai primi anni del secolo. Sono motivi che riguardano la tecnica cinematografica e i progressi di quest’ultima, che si saldano ben presto con motivi storici, sociali ed economici. E’ un processo graduale agli inizi, poi sempre più rapido.
Anzitutto la sempre maggiore lunghezza del metraggio, non più soltanto one or two reels, cioè una o due bobine al massimo, rappresenta una sfida per attori, registi, produttori e soprattutto per gli sceneggiatori. Soprattutto lo slapstick più radicale non può facilmente distendersi oltre una certa misura di pellicola; il ritmo vertiginoso di gags, suo marchio distintivo, è fatto per storie di corto respiro, nelle quali struttura narrativa e caratterizzazione dei personaggi, se presenti, sono ridotti all’osso. Si cerca così di costruire situazioni di più solida tenuta narrativa con conseguente approfondimento dei tratti dei personaggi. Per qualche tempo il personaggio di Harold Lloyd, sembra trovare nel lungometraggio la dimensione ideale per rendere al meglio la sua comicità. Lo stesso Sennett produce opere in lungometraggio in cui le situazione comiche si fanno più distese e lasciano maggior spazio a quelle drammatiche e sentimentali. Faticano invece i più legati al meccanismo farsesco della semplice concatenazione di gags (come Larry Semon).
In tale scenario, che si profila già dai primi Venti, interviene il passaggio al sonoro, questo sì vero e proprio spartiacque nella storia del cinema. Il tempo dei mimi sta per cessare. Tra i maggiori, Larry Semon scompare prematuramente. Harold Lloyd finisce con l’arrendersi anch’egli artisticamente, ma la sua solida formazione, un tranquillo ménage familiare e un’accorta condotta finanziaria gli consentiranno di evitare i drammatici rovesci di molti colleghi e di vivere una maturità e una vecchiaia serene, rimanendo fino alla morte testimone e monumento dell’epoca d’oro del muto. Harry Langdon si ridurrà a semplice gagman e autore di testi, Keaton sconterà un disagio psichico legato anche al suo essere “comico che non ride mai”. Chaplin sarà il solo a potersi orgogliosamente permettere di attraversare quasi indenne la tempesta, trovando per il suo personaggio senza parole un compromesso di sopravvivenza che reggerà ancora per qualche tempo. Per la gran parte degli altri pionieri delle comiche del muto si tratterà di rimanerne travolti, chi da subito, chi a seguito di un improbabile e fallito adattamento.
La comica muta finisce quasi con lo scomparire dai palinsesti di programmazione anche come semplice complemento, soppiantata dal disegno animato sonoro e dai documentari.
L’attività di Sennett, già fortemente ridimensionata, subisce i contraccolpi del crack del 1929. Lo scettro di re delle comiche passa a Hal Roach, che con la coppia Laurel-Hardy monopolizzerà il cinema comico della difficile rinascita degli anni Trenta, in un’America post depressione alla quale Roosevelt ridarà motivi di speranza con il New Deal.
Nel 1937, Sennett, il gran cerimoniere delle comiche mute, ormai disastrato economicamente, ottiene un Oscar alla carriera. Morirà in una “charity home”, un ospizio gestito da organizzazioni di beneficenza, nel 1960.
Per un singolare destino sarà un francese, Jacques Tati, a risuscitare, in qualche modo, non tanto lo slapstick, quanto l’arte mimica dei comici del muto. Tutto era cominciato in Francia e da lì tutto ricomincia.
Complimenti davvero ben scritto!!!