EDITORIALE: ancora guerra…
di Alberto Pellegrino
10 Ott 2023 - Letteratura, Varie
Una riflessione sulla guerra e la pace nell’editoriale di Alberto Pellegrino con due testi: un poemetto di Bertolt Brecht e una canzone di Vinicio Capossela che a quello si ispira.
Ci risiamo! Ancora guerra, violenza, terrore. A pagare sono ancora e sempre gli innocenti, i bambini, le donne, gli anziani. Ricordate i buoni propositi ai tempi del Covid19? Sembravamo diventati tutti dei santi, pieni di buoni propositi: non più consumismo e individualismo sfrenati, riscoperta della comunità, priorità alla scuola e alla sanità, bontà e fratellanza sparse a piene mani. Sembra che usciti di casa ci aspettasse un nuovo paradiso terrestre.
Appena passato il pericolo siamo ritornati esattamente quelli di prima e a fare le stesse cose di prima, comprese le guerre. Inascoltati gli appelli del Papa e di menti illustri come Edgar Morin che ci invitava a cambiare strada con le sue 15 lezioni del coronavirus.
Care lettrici e cari lettori, ora che la guerra ritorna a imperversare a due passi da casa nostra, vi invitiamo a meditare sui versi contro ogni tipo di conflitto composti nel 1942 da un grande poeta e drammaturgo tedesco e quarant’anni dopo da un grande cantautore italiano.
Bertolt Brecht. La crociata dei ragazzi (1942)
In Polonia, nel Trentanove, una battaglia grande ci fu che fece rovina e deserto di tanti paesi e città. La sorella ci perse il fratello, la moglie il marito soldato, tra fuoco e macerie i figliuoli i genitori non trovano più. Di Polonia non venne più nulla, né notizie ai giornali né lettere. Ma nei paesi dell’Est una storia strana raccontano. Nevicava, quando in quei posti si sentì che la gente parlava d’una crociata di ragazzi che in Polonia era cominciata. Trottavano sugli stradali ragazzi affamati attruppati, e dai villaggi bombardati altri portavano con sé. Dalle battaglie volevano fuggire, da tutti quegli incubi e finalmente un giorno, venire a una terra di pace. Avevano un piccolo capo che li aveva guidati fin là. Ma una gran pena aveva in cuore: la strada non la sapeva. Una d’undici anni menava un bambino di quattro anni Come una mamma farebbe; ma non fino a una paese di pace. Marciava nel gruppo un piccolo ebreo col suo bavero di velluto; lui, avvezzo al pane più bianco, da coraggioso s’era battuto. E due fratelli venivano avanti, che erano grandi strateghi per assalire fattorie deserte, lasciate alla pioggia. E c’era uno, grigio, sottile, che andava da solo pei campi con una colpa tremenda: veniva da un’ambasciata dei nazi. E un musicista tra loro che in un negozio distrutto aveva trovato un tamburo ma, per non farli scoprire, non lo poteva suonare. E anche c’era un cane: per ammazzarlo l’avevano preso ma gli era mancato il coraggio e ora mangiava con loro. E c’era una scuola ed un piccolo maestro che si sgolava. Sulla corazza di un carro, uno scolaro sillabava, di « pace », « p » e « a ». E al fragore di un freddo torrente anche un concerto ci fu: nessuno li avrebbe sentiti e il tamburo allora suonò. E anche c’era un amore, lei dodici, lui quindici anni. In un cortile di macerie, lei i capelli gli pettinava. L’amore non poté resistere, il freddo che venne fu troppo. Come le piante possono fiorire se cade tanta neve? E anche una guerra ci fu, perché un’altra banda comparve, ma la guerra fu presto finita, ché non c’era ragione di farla. Ma mentre ancora infuriava intorno a un casello distrutto, si dice che uno dei gruppi a un tratto fu a corto di viveri. E quando gli altri lo seppero mandarono uno dei loro con un sacco di patate; perché chi non mangia la guerra non fa. E ci fu anche un processo, e ardevano due candele. E fu un’inchiesta penosa. Il giudice venne condannato. E il funerale ci fu di un ragazzo che portava il colletto di velluto. Lo calarono due tedeschi e due polacchi nella fossa. C’erano protestanti, cattolici e nazi per consegnarlo alla terra. E alla fine un piccolo socialista parlò del futuro dei vivi. Così c’erano fede e speranza, ma non c’era né carne né pane. Chi non gli dette un tetto non mi venga ora a dire che rubavano. E nessuno dia colpa a quei poveri che non li invitarono a tavola. Per cinquanta ragazzi, farina ci voleva, non solo bontà. Pareva che andassero a sud. Il sud è dove il sole all’ora di mezzogiorno proprio ti sta davanti. Trovarono anche un soldato tra gli aghi dei pini, ferito. Lo curarono per sette giorni perché gli indicasse la via. Lui disse: « A Bilgoray! ». Tremava tutto di febbre, l’ottavo giorno morì e così anche lui seppellirono. Sebbene coperti di neve c’erano frecce e cartelli. Non mostravano più la via giusta, qualcuno li aveva scambiati. Non era uno scherzo malvagio, era per ragioni di guerra: cercando così Bilgoray nessuno mai ci arrivò. Erano in cerchio intorno al loro capo. Lui guardava nell’aria di neve. Accennò con la piccola mano e disse: « Dev’essere laggiù ». Una notte videro un fuoco ma non gli andarono incontro. Tre carri armati, una volta, passarono e dentro c’erano uomini. E una volta giunsero presso a una città, e le girarono attorno, camminando soltanto di notte finché la città non passò. Dove una volta c’era la Polonia del sud, furono visti nella neve della tormenta, quei cinquantacinque, per un’ultima volta. Quando io chiudo gli occhi li vedo come vagano dalle rovine di una fattoria alle rovine di un’altra. Su di loro, lassù nelle nuvole, vedo altri cortei, nuovi, grandi! Vanno a fatica contro i venti freddi, i senza patria, i senza meta, cercando una terra di pace, senza il tuono, senza l’incendio, non come quella che lasciano. E immenso diventa il corteo. E dentro il buio del crepuscolo non mi pare già più quel che era. Altri piccoli visi vi scorgo, spagnuoli, francesi, orientali. In Polonia, in quel mese di gennaio, un cane per caso fu preso. C’era un cartello appeso al suo collo smagrito, e c’era scritto: « Aiutateci, abbiamo perduta la strada. Siamo cinquantacinque. Il cane vi guiderà. Se non potete venire, lasciatelo andar via. Non gli sparate. Dove siamo, lui solo lo sa ». Era una scrittura infantile. La lessero quei contadini. Un anno e mezzo da allora è passato. Il cane moriva di fame.
Vinicio Capossela. La crociata dei bambini (2023)
Partirono all’alba in crociata i bambini Le facce gelate, chi li troverà? Partirono in fila, Sepolti di neve I soli scampati alle bombe ed ai soldati. Volevan fuggire dagli occhi la guerra, volevan fuggirla per cielo e per terra un piccolo capo, la pena nel cuore, provava a guidarli e la strada non sapeva trovare. Una bambina di undici, ad una di quattro, come una mamma portava per mano… E poi c’era un cane, ma morto di fame che per compassione nessuno ammazzò, e si faceva scuola tutti alla pari sillabavan maestri e scolari P. A. C. E C’era Fede e Speranza ma né pane, né carne non chiamate ladro chi deve rubare, per dare alle bocche, di cosa mangiare farina ci vuole e non solo bontà. Si persero in tondo, nel freddo di neve nessuno più vivi li poté trovare, soltanto il cielo, li vede vagare nel cerchio dei senza meta dei senza patria E cercano insieme una terra di pace non come quella che hanno lasciato… Il cane nel bosco fu trovato una sera al collo portava un cartello con scritto: qualcuno ci aiuti, abbiam perso la strada seguite il cane, e vi prego, non gli sparate. La scritta infantile, trovò un contadino ma non la mano che la tracciò un anno è passato, e nessuno è venuto il cane soltanto è restato a morire di fame.