Due straordinari “Don Giovanni” a confronto
Alberto Pellegrino
15 Apr 2013 - Commenti teatro
Teatro: Recensioni
ANTONIO LATELLA
Civitanova Marche (MC) 24 febbraio 2013. Antonio Latella rappresenta ormai una indiscussa realtà del teatro italiano e nel pieno della sua maturità artistica ha affrontato Don Giovanni, uno dei grandi miti della cultura occidentale, scrivendo un testo insieme a Linda Dalisi intitolato Don Giovanni a cenar teco, nel quale si colgono gli echi profondi di Molière e di Mozart, ma anche i riferimenti a Don Giovanni e l’amore per la matematica di Mar Frisch (1953) e quel Conte Leonzio dramma di autore ignoto ma forse attribuibile a Jacob Gretser, che fu rappresentato in un convento dei Gesuiti a Ingolstadt nel 1615, che è considerato la fonte primigenia di qualsiasi altro testo teatrale precedente alle stesso Burlador de Sivilla di Tirso de Molina. Latella vede da un lato Don Giovanni come un vampiro assetato della vita, dalla quale vuole estrarre ogni succo, ogni sapore; dall’altro lo vede come un personaggio teatrale che recita quotidianamente sulla scena così come vuole Molière che s’identifica nei personaggio di Don Giovanni e Sganarello fino a morire sulla scena in supremo atto di fede nel teatro visto come sublime rappresentazione del Mondo.
Latella spalanca il palcoscenico, toglie ogni elemento tradizionale di scenografia, usa il minimo indispensabile del mobilio per ricordare che questo luogo spogliato di orpelli è un teatro dove si confrontano nudità scenografica e manierismo (i due attori che in abiti settecenteschi attendono muti e immobili che lo spettacolo abbia inizio). Forse mai come in questo periodo il teatro avverte il bisogno di ricercare, sperimentare, tagliare e ricucire, stupire e far riflettere a costo di dilatare tempi e situazioni (lo spettacolo dura più di tre ore), il tutto per cercare un senso e una direzione nuova a un teatro che deve nascere o meglio rinascere. Per questo Latella si muove tra i generi che vanno dal classico al kitch autoironico, dalle citazioni musicali di Mozart alle canzoni di Raffaella Carrà e Don Backy. Il percorso è quello tracciato attraverso l’incrocio di varie culture teatrali: l’amore, il sesso, la divinità , la morte. E’ lo stesso Latella a guidarci lungo questo percorso: Don Giovanni è un essere schiavo del suo amore per l’amore stesso, innamorato del genere femminile e di ogni suo esemplare senza farsene possedere davvero ; il sesso è un’ossessione che riflette egoismo e voglia di possesso, godimento del gioco di sottomettere una donna per poi fuggire verso una nuova avventura ; Dio rientra in questa visione legata alla matematica dell’amore e della vita, perchè nello spietato teorema dell’inganno e del sesso la divinità diventa qualcosa con cui confrontarsi ma anche da usare per dominare la preda del momento; infine la morte rappresenta l’appuntamento di sempre al quale il personaggio arriva in mille modi diversi (nel Convitato di pietra di Puskin Don Giovanni viene ucciso dalla statua mentre sta seducendo la sua vedova). Don Giovanni,che ha improvvisi e nostalgici ritorni all’infanzia, si muove fra innamorate fintamente caste, prostitute e travestiti, perennemente inseguito dal moralismo di Sganarello; si colloca come il perno di una vicenda tragicomica, dove si arriva a sfondare anche la quarta parete con gli attori che scendono in platea per un lungo interludio con il pubblico in uno spettacolo che riesce a coniugare divertimento e approfondimento intellettuale, leggerezza e complessità drammaturgica.
Belle le luci di Simone De Angelis e realistico/surreali i costumi di Fabio Sonnino; molto bravi, come sempre, gli attori scelti da Latella per interpretare i vari personaggi: Caterina Carpio, Daniele Fior (un Don Giovanni iperrealista), Giovanni Franzoni (impegnato in una caratterizzazione macchiettistica), Massimiliano Loizzi, Candida Nieri, Maurizio Rippa (un sorprendente padre del libertino) e Valentina Vacca.
FILIPPO TIMI
Perugia 11 aprile 2013. Filippo Timi, fenomeno emergente del teatro italiano, riscrive da capo a piedi la leggenda di Don Giovanni in maniera addirittura sfrontata e superironica; non solo egli entra nei panni del celebre libertino con la forza di un eccellente attore, ma riesce a coniugare un eclettismo testuale e visivo del tutto originale: egli si pone al centro di un fumetto sadomaso sorretto da un campionario di musiche fra le più disparate che vanno dal Vesti la giubba dei Pagliacci ai Migliori anni della nostra vita di Renato Zero nel segno della dissacrazione e del sarcasmo più spinto che conduce lo spettatore a ridere quando viene addirittura citato Kirkegaard, che non è proprio il massimo in fatto di ottimismo e di divertimento.
Timi riesce a rendere credibile il protagonista che si droga e che disserta sull’esistenza di Dio seduto sopra un water tutto d’oro, che canta e balla seminudo invadendo lo spazio scenico, che s’intrufola sotto le gonne delle signore, che abbraccia in modo ambiguo un povero Leporello-gay segretamente innamorato del suo padrone, che porta sullo schermo persino sua madre. Siamo di fronte a uno spettacolo leggero, a volte volutamente grossolano, nobilitato dalle scene bellissime ideate da Timi stesso, dagli stupendi costumi di Fabio Zambernardi e dalle luci di Gigi Saccomandi.
Timi nella sua riscrittura cancella tutti gli altri Don Giovanni del teatro, dell’opera e del cinema per costruire una specie di circo equestre dove Don Giovanni funge da domatore-burattinaio, mentre intorno a lui donne amano altri uomini, uomini amano altre donne o altri uomini in un turbinio inarrestabile di trovate che copre un arco temporale di oltre tre ore. Sfilano sulla scena i vari personaggi resi tutti funzionali al protagonista e dominatore assoluto della scena: una Elvira ninfomane (Roberta Rovelli) che impugna un coltellone alla Stanley Kubrick di Arancia Meccanica; una Donna Anna (Elvira Lietti) in vesti sadomaso che frusta tutti quelli che incrocia a cominciare dal povero marito Ottavio (Matteo Di Blasio) ridotto al ruolo di eunuco-amante; una irresistibile e intrigante Zerlina (Marina Rocco) nei panni di una sciocca bambolina televisiva; un crudele Commendatore (Fulvio Accogli) concepito come una specie di marionetta meccanica che parla come un personaggio dei cartoon; un Masetto (Roberto Laurieri) un po’ volgare e un po’ cretino; infine un Diavoletto rosa in divisa nazista (Alexander Styker) che conclude questa fantasmagorica carrellata di un’umanità corrotta e deforme destinata ad essere l’immagine speculare del protagonista.
Non si pensi tuttavia che in uno spettacolo dove si ride molto, non vi siano anche momenti di riflessione, perchè non c’è molto da ridere o si ride amaro quando si parla della morte, del destino, dell’inadeguatezza della vita quotidiana segnata dal male di vivere, ma soprattutto quando nel finale Don Giovanni, chiuso in uno splendido abito rosso, si trova a fare i conti col suo destino e si rivolge alla pietà di un dio “così umano da fare tenerezza, che non cerca il bene, che non combatte il male e finalmente si arrende alla bellezza della vita”.