Che dire di questo “Flauto magico”allo Sferisterio? Che l’unico assente era Wolfgang Amadeus Mozart
di Alberto Pellegrino e Roberta Rocchetti
6 Ago 2018 - Commenti classica, Musica classica
Recensione di Alberto Pellegrino
Ho riflettuto molto se era il caso di scrivere un pezzo sul Flauto Magico andato in scena allo Sferisterio in occasione di Macerata Opera Festival 2018, poi ha prevalso il senso del dovere deontologico per quanto riguarda il diritto d’informazione dei nostri lettori, per cui eccomi qua a chiedermi se quello andato in scena è stato Il flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart oppure Il Flauto magico di Graham Vick. Propendo per la seconda ipotesi dato che, tra il 2005 e il 2018, Vick di edizioni del Flauto magico ne ha fatte ben cinque.
Partiamo da un enunciato di un regista che si considera il principe dei trasgressori: “Per creare bisogna distruggere… Sarà un pugno nello stomaco? Spero proprio di sì…con un copione da me scritto appositamente conservando i tempi dell’opera”. Non si tratta di affermazioni del tutto originali se si pensa che già nel 1911 Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto dei Drammaturghi futuristi ovvero La voluttà d’essere fischiati affermava “Noi futuristi insegniamo anzitutto agli autori il disprezzo del pubblico e specialmente il disprezzo del pubblico delle prime rappresentazioni…Gli autori non devono aver altra preoccupazione che quella di un’assoluta originalità novatrice. Tutti i lavori drammatici che partono da un luogo comune o attingono da altre opere d’arte la concezione, la trama o una parte del loro svolgimento sono assolutamente spregevoli”.
Invece che ispirarsi al teatro d’avanguardia (da Jerzy Grotowski a Tadeusz Kantor, dal Living Theatre a Eugenio Barba), sembra che Vick rimanga prigioniero di un avanguardismo baroccheggiante legato al motto “È del poeta il fin la meraviglia…chi non sa far stupir vada alla striglia”. Da qui la stravagante idea di non far cantare i recitativi ma di farli recitare ai poveri e improvvisati attori come i coristi che non conoscono i fondamentali della recitazione (registri e cadenze, appoggiature e pause, aperture e chiusure della frase, ecc.), per cui le parti recitate sovrastano quelle cantate e suonate con risultati che, a essere buoni, potremmo definire da “recita parrocchiale” e con il momento topico del pubblico che viene invitato ad alzarsi in piedi e a unirsi al canto del coro con un effetto da “Santa Messa” e con Sarastro che, impugnando il microfono, fa il suo “predicozzo” in prosa.
Non oso pensare a quello che passa nella mente dei musicisti e del direttore d’orchestra durante tutti questi lunghi intervalli. Del resto il regista e i suoi collaboratori hanno già provveduto a manipolare i testi e a fare tagli anche consistenti allo spartito originale (il duetto dei Sacerdoti e il terzetto Pamina – Tamino – Sarastro del secondo atto) per cui è il fantasma di Mozart quello che si aggira sulla scena piuttosto che la musica del compositore.
Cerchiamo di riassumere quanta “carne” è stata messa sul fuoco:
- Ci si è proposti di rappresentare una “favola metropolitana sul potere dell’amore” (senza nemmeno saper la differenza fra favola e fiaba)
- Si è voluto mettere in risalto l’importanza del ruolo della donna con “la figura di una Madonna imbavagliata con un nastro rosso, come l’hanno sempre rappresentata gli uomini, silenziosa, priva di opinioni e capace solo d’intercedere per interposta persona”.
- Erano presenti sulla scena i profughi e gli immigrati dislocati in due tendopoli ai margini del palco.
- C’erano i manifestanti che protestavano contro il potere in nome della libertà, dell’uguaglianza, del rispetto delle diversità e contro le paure.
- C’era la protesta contro il militarismo e il consumismo (vedi il grande cartellone con la pubblicità del “Superpollo” con Papageno trasformato da venditore di uccelli in fornitore di pollame).
- C’era la protesta contro il pericolo atomico e la fissione nucleare con tanto di uomini in tuta gialla dei reparti di disinfestazione nucleare.
- C’era l’opposizione al potere del Vaticano rappresentato dalla facciata di San Pietro e la protesta contro ogni forma di clericalismo e di fanatismo religioso.
- C’era il Palazzo con la sede dell’Apple con dietro l’albero del nuovo Eden da dove Pamina coglie la mela del bene e del male.
- C’era il Palazzo della Banca Centrale Europea simbolo del potere economico-finanziario, con dietro una minacciosa rampa di missili.
- C’erano decine e decine di coristi e comparse che affollavano il palcoscenico; c’erano persino i cantanti e un farraginoso modo di raccontare una storia dove si smarrivano per strada sia le simbologie mozartiane dei vari personaggi, sia il percorso iniziatico del principe Tamino dalla “barbarie” dell’oscurantismo verso la Luce della Ragione.
Veramente tanta, anzi troppa roba gettata addosso al pubblico in uno spettacolo dove l’unico assente era Wolfgang Amadeus Mozart.
Recensione di Roberta Rocchetti
Nell’estate 2018 sono tornate a risuonare all’interno dell’Arena Sferisterio di Macerata le meravigliose note del Flauto Magico di Mozart e questa volta non è a caso se scriviamo Flauto Magico piuttosto che Die Zauberflöte, infatti l’intera opera è stata rappresentata nella traduzione in italiano di Fedele D’amico. Possiamo dire, crediamo senza tema di smentita, che questa rappresentazione in una lingua che non è quella a cui Mozart pensava scrivendo la musica, non ha penalizzato affatto il tutto, la metrica e le assonanze perfette di D’Amico non hanno tolto nulla all’originale e anzi, hanno logicamente reso il tutto più comprensibile ad un pubblico italiano, cosa da non sottovalutare quando si parla di un libretto come quello di Schikaneder già abbastanza complicato e a tratti confuso di suo. Abbiamo trovato solo stridenti le aggiunte ai recitativi nel tentativo mancato di rendere aderente ciò che si rappresentava sul palco con il testo.
La direzione di Daniel Cohen, debuttante allo Sferisterio, ha saputo creare un buon affiatamento con l’Orchestra Regionale delle Marche e con le voci, senza mai prevaricare quest’ultime, evidenziando con i giusti cromatismi i vari passaggi drammaturgici, pur nel solco di una direzione discreta che non ha sentito la necessità di cercare particolari originalità e che si è dovuta purtroppo assoggettare alla narcisistica tracotanza del resto operando anche dei tagli nel secondo atto.
Tra le voci va sicuramente evidenziato l’ottimo Tamino di Giovanni Sala, dotato di bellissimo timbro scuro e vellutato, squillo nitido che appoggia su una gamma di sfumature sempre gestite con grande sicurezza e potenza, tanto che pur penalizzato da movimenti non sempre a favore delle voci il suo principe è apparso sempre perfettamente e piacevolmente udibile.
Tra i personaggi da cui siamo stati più favorevolmente colpiti mettiamo anche la buona Astrifiammante di Tetiana Zhuravel, molto a suo agio con le vertiginose agilità delle due arie della regina della notte, fiati gestiti con grande sicurezza le hanno permesso un fraseggio omogeneo ed armonico, la sua interpretazione partecipata le ha consentito di portare sul palco una madre addolorata e furente e non solo un distributore di algidi gorgheggi.
Buono anche il Papageno di Guido Loconsolo, la scena del suicidio seguita dall’incontro tanto atteso con la sua Papagena è stato decisamente il miglior passaggio della serata se si considera l’opera nella sua totalità, grande animale da palcoscenico a cui a nostro parere il regista deve moltissimo e che ha riacceso un pubblico ormai al limite della rassegnazione.
Sicuramente soddisfacente anche la Pamina di Valentina Mastrangelo, forse ancora un po’ immatura sul piano interpretativo e con la necessità di aggiustare la gestione dei fiati nelle agilità.
Paola Leoci ha disegnato una Papagena giustamente briosa e squillante.
Meno ci è piaciuto il Sarastro di Antonio Di Matteo, ci è apparso un po’ in difficoltà nella tenuta del registro grave, soggetto a qualche calo di voce, discontinuo nella resa.
Il Monostato di Manuel Pierattelli si è espresso molto bene vocalmente ma un po’ monocorde sul piano interpretativo, sicuramente perfezionabile, resta da vedere quanto in questo ci sia una corresponsabilità della regia che di certo non ha reso la serata facile a nessuno.
Più che decorose le tre dame (Lucrezia Drei, Eleonora Cilli, Adriana di Paola) e i tre geni (Ilenia Silvestrelli, Caterina Piergiacomi, Emanuele Saltari), nonché gli altri comprimari.
Il Coro Lirico Marchigiano Vincenzo Bellini guidato da Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina ha come sempre dimostrato la propria precisione, sintonia e professionalità.
Della messa in scena vorremmo parlare poco, sia perché su questa regia di Graham Vick sono già stati versati fiumi d’inchiostro, sia perché non riteniamo di doverne versare ancora molto, sia perché ne avete già letto più sopra nel commento del nostro Alberto Pellegrino. Il libretto del Flauto Magico è uno dei più improbabili, farraginosi, confusi e moralisticamente stucchevoli del mondo dell’opera, di aggravare questi difetti non se ne sentiva proprio il bisogno.
Ingenua, sconclusionata, irritante, a tratti imbarazzante e sostanzialmente brutta da vedere, questa regia è da dimenticare o da tenere a mente per non ripetere gli stessi errori. Terrificanti i sopratitoli lontanissimi dal palcoscenico per cui si era costretti o a leggere o a seguire la scena rischiando un torcicollo. I costumi e le scene di Stuart Nunn seguivano diligentemente il mortificante filo conduttore di Vick. Tutto questo scientemente certo, si potrebbe obiettare che è esattamente questo che il regista ha voluto, un’opera di denuncia e di provocazione, un “pugno nello stomaco” come da lui stesso dichiarato. Ma c’è forse da ricordare una cosa: è sicuramente giusto dare nuova vita e nuove interpretazioni all’opera lirica, ma un’opera come il Flauto Magico non può uscire del tutto dalla dimensione di magia e fiaba causa lo scollamento totale col testo, ben lo ha capito Damiano Michieletto per esempio, che nella sua interpretazione di qualche tempo fa ha saputo mantenere queste caratteristiche pur ambientando la vicenda all’interno di una scuola ai nostri tempi e mettendo in scena un’opera divertente, emozionante, nuova. Riteniamo invece la versione proposta da Vick solo un’inutile mortificazione del libretto ad uso e consumo dell’urgenza di piegarlo alla propria visione, ma soprattutto mortificazione della musica che per tutta la sera è apparsa in secondo se non in terzo piano e che ha potuto avere un ruolo solo in virtù della sua bellezza senz’ombra, senza tra l’altro che da questo sacrificio ci guadagnasse la messa in scena nella sua globalità. Per fortuna si è salvato, solo grazie a Mozart e dopotutto anche a Schikaneder, il luminoso messaggio intrinseco nel fantasioso, onirico, lunatico, seppur scombinato libretto: la musica vince sempre sul brutto. (La recensione di R. R. si riferisce alla recita di sabato 4 agosto 2018)