“DIALOGHI” di Paolo Delle Monache alla Casa Museo Osvaldo Licini


di Flavia Orsati

13 Mag 2023 - Arti Visive

Presso gli spazi della Casa Museo Osvaldo Licini, a Monte Vidon Corrado, è stata inaugurata la mostra “Dialoghi” dello scultore Paolo delle Monache. L’esposizione è aperta fino al 25 giugno. Flavia Orsati era presente e ce la racconta.

[…] o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
 e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
E. Montale – Ripenso il tuo sorriso

Sabato 6 maggio, presso i suggestivi spazi della Casa Museo Osvaldo Licini a Monte Vidon Corrado, è stata inaugurata, impreziosita dal sax di Enzo Balestrazzi, la personale dello scultore Paolo delle Monache intitolata Dialoghi, visitabile fino al 25 giugno prossimo, a cura di Nunzio Giustozzi e Daniela Simoni, realizzata in collaborazione con lo Studio Copernico di Milano.

Gli spazi liciniani confermano, ancora una volta, la loro attitudine al contemporaneo e, appunto, al dialogo. Un dialogo che, come sottolinea lo scultore nello scritto contenuto nel pregiato catalogo della mostra edito da Silvana Editoriale, si dipana seguendo quattro direttrici: quella tra artista e pubblico, tra artista e spazio ospitante, tra artista e modelli e, infine, tra le opere stesse.

Il percorso si snoda tra le sale del centro studi e il piano seminterrato delle cantine appartenenti all’abitazione dove visse il grande pittore marchigiano, e che prende il sapore più di un’installazione a tutto tondo che di una classica esposizione. I volti dello scultore, i suoi frammenti corporei, sbucano con sfrontata timidezza e malcelato pudore da ogni anfratto degli spazi che li ospitano, creando un percorso espositivo mai banale, né a livello formale né, tantomeno, di significato, che costringe il visitatore a guardare negli occhi quanto gli si pone dinanzi.

Questi frammenti, dalla suggestione orfica, allusiva ed evocativa, si pongono, già dai lirici e misteriosi titoli delle opere, come ipostasi metafisiche dei vari stati d’animo e sentimenti che si trovano ad incarnare, che proiettano lo spettatore, immerso nella caoticità e nell’atomizzazione del nostro agonizzante secolo, verso la prova più ardua e difficile: riuscire a dare un senso al particolare, a trovare le trame di senso che connettono l’Uomo e il Cielo, l’Alto e il Basso e, in ultima analisi, a impiegare questi volti come specchio in cui riflettersi, occhi negli occhi, per scandagliare la propria interiorità e, una volta tanto, entrare in contatto con la propria anima.

Allora ecco che tutte le effigi si presentano come contraltare di strutturate e complesse, spesso sofferte, assopite immagini interiori che assorbono, nell’atmosfera ieratica e meditativa che le attornia, tutto ciò che le circonda, come un vertiginoso centro gravitazionale universale. Questi volti solitari, e per certi versi inquietanti, rappresentano il lato animico di un universo sidereo antifrasticamente compiuto ma ignoto; nella loro essenzialità, che ricorda la purezza delle forme brancusiane, materializzano lo spirito del profondo junghiano, quella parte umana che si unisce all’afflato eterno e che preconizza, per dirla sempre con le parole di C. G. Jung, la via di quel che ha da venire. Immerse nella loro cogitazione, la ricerca immobile di queste figure si lancia in un anelito gnoseologico che rincorre, come aveva fatto già Licini seguendo altre vie, il segreto primitivo del significato dell’essere al mondo, il posto dell’uomo nel cosmo. Ogni storia incarna quella di un’anima, errabonda e incerta, vagula e blandula, un tempo ospite del corpo, ora persa in un extratempo metafisico e oniricamente visionario, e immersa in un dialogo muto, in una reciprocità fatta non di parole ma estrinsecata nel sottile, non comunicabile per verba.

Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta «un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso». Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero” scrive Dino Campana nei suoi Canti Orfici. Paolo Delle Monache, nelle sue opere, sembra esprimere plasticamente questo concetto poetico e filosofico: egli ricostruisce un’immagine sospesa di una antropogonia, dimostrando come anche l’esistenza corporea sia una fase transeunte dell’esperienza eterna, momento sfumato e leopardianamente vago in cui la sostanza – corporea ed eterea – passa alle stelle e al cosmo. Se tale assunto è corretto, va da sé che la conoscenza dell’interiorità umana, profonda e metafisica, si avvicina molto a quella dell’universo, all’anelito a spazi infiniti, a sovrumani silenzi e profondissima quiete.

Tale lirica poetica dell’ineffabile e del frammento sembrerebbe suggerire che le sue sculture abbiano riassorbito il dualismo anima-corpo, annullando la differenza e la distanza tra microcosmo e macrocosmo grazie all’immobilità della contemplazione interiore. La loro parrebbe essere un’ormai raggiunta estasi, una beatitudine inquietante e inafferrabile, sospesa, in cui a dominare è la malinconia, che fa affacciare le figure oltre la siepe, facendo scorgere loro un oltre elegiaco, al di là del tempo e dello spazio. Si tratta di una dimensione eterea, malinconica seppur beffarda, come ironicamente dissacratorie erano gli angeli ribelli liciniani, le sue Amalassunte, i suoi Olandesi Volanti. Similmente alla Luna del pittore, i volti di Delle Monache si trovano dunque a scontare la condanna della meditazione, la solitudine delle Alte Sfere, a librarsi nel paradosso di non aver saputo essere abbastanza in sé e per sé, ora recluse in una sorta di limbo, in una dimensione sfumata ed onirica tra materialità e trascendenza. L’artista regala, dunque, la conoscenza e la vista di questi esseri che un tempo furono uomini, ma che ora si trovano, in virtù del loro stato, al servizio di forze ed energie inesplicabili, partecipi della cosmogonia. Il dialogo, quindi, deve essere allargato ad un orizzonte ulteriore, al di là di quelli precedentemente esplicati, insito implicitamente nelle opere stesse, nelle loro espressioni: si tratta di un dialogo che avviene nel profondo, nel mondo spirituale dell’essenza, che rifugge la razionalità della coscienza collettiva e dei freni inibitori sociali e che sancisce il predominio, finora inascoltato, dell’Io, in una continua dialettica che si fa trascendentale, nel senso semanticamente più puro del termine, seppur filosoficamente negativa.

Il criterio ermeneutico di tali opere non può essere dunque che essenzialmente maieutico: solo il guardare dentro di sé, il fissare lo sguardo interiore al centro del proprio essere, può condurre ad una autoctisi spirituale, conciliando le due esigenze opposte di universalità e individualità. Solo allora, finalmente, l’infinità della coscienza si espande e si concilia, seppur tragicamente, con il particolare, mai identificata, ma sempre dialetticamente identificantesi in un processo perpetuo di unione e disgregazione di soggetto e spirito. Questo dialogo silente può avvenire solo nell’interiorità di chi, a partire dalle forme artistiche, si trova dapprima a riflettere e poi a meditare su di esse. Ogni singola scultura di Delle Monache presente in mostra potrebbe essere identificata come una sorta di deus ex machina, modernissima sintesi formale perché squisitamente contemporanea, in una miriade di suggestioni che spaziano dai volti dell’arte classica fino a risalire alla scultura del Novecento.

Diafane eppure materiali, candide eppure ruvide, cosa vorrebbero, quindi, comunicare queste figure, con i loro occhi, a volte aperti, a volte chiusi, e con il loro volto tra le mani? Il mistero rimane irrisolto. E forse, in quanto tale, è inevitabile che sia così, poiché “uno degli occhi della divinità è cieco, uno dei suoi orecchi è sordo, il suo ordine è attraversato dal caos”.

Tag: , , , ,

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *