Dalla freschezza del “Don Pasquale” di Verona all’inutile “Traviata” della Scala
Alberto Pellegrino
30 Dic 2013 - Commenti classica, Musica classica
Milano. La Traviata allestita alla Scala, di là del valore degli interpreti non sempre convincenti, è stata caratterizzata dalla regia di un Dmitri Tcherniakov chiaramente in difficoltà nell’affrontare la lettura del capolavoro verdiano. Si potrebbe parafrasare “Dalla Russa con presunzione” la calata a Milano di questo regista che è riuscito ad allestire uno spettacolo inutile e falsamente innovatore, che si rivela invece di un “vecchiume” disarmante e abbastanza volgare per una impostazione della recitazione greve e pesante, per un secondo atto decisamente imbarazzante quando il povero Alfredo è costretto a cantare in cucina mentre taglia le verdure. Non siamo contro le innovazioni negli allestimenti lirici, anzi le invochiamo quando sono il frutto di un progetto registico intelligente e colto, perché siamo convinti che il futuro del melodramma stia nella sua trasformazione in un teatro in musica altrimenti non sarebbe giustificata la presenza di un regista. Saremmo stati lieti che magari questa Traviata fosse stata “scandalosa e provocatoria” mentre è solo banale e a chi difende questa regia, accusando di “cretinume” chi ha criticato lo spettacolo; si può replicare che c’è molto “cretinume” in quanti emettono delle sentenze senza capire che cos’è il teatro e nemmeno l’opera lirica. Ci voleva una bella faccia tosta a voler proporre una “regia cinematografica” sul modello di Bergman e Antonioni (ma Tcherniakov ha visto almeno un film di questi due grandi autori?) e da questo presunto modello (ma almeno evitate di fargli scrivere queste cose) è scaturita l’idea di collocare la vicenda in un mondo borghese che fin dal brindisi è scaduto nel “cafonal” e continuato nella festa in casa di Flora, con un Alfredo un po’ vitellone e un papà Germont in doppio petto e pasmina, per non parlare della platinatura di Violetta acconciata come una starlette anni Venti e fatta morire su di una sedia modello Ikea in mezzo a una scena cosparsa di bottiglie e medicine. Bisogna riconoscere che c’è voluto del coraggio nel voler riproporre una Traviata realista dopo il capolavoro “neorealista” di Visconti del 1955, disegnato intorno al personaggio della Callas; oppure dopo la lettura realistica ma raffinata proposta da Strehler nel 1947. Qualcuno ha definito questa regia piena di baldanza e di spirito giovanile, a noi sembra solo il trionfo di un kitsch che non si capisce se sia stato intenzionale o, ancora peggio, involontario; eppure per avere qualche idea veramente innovativa, sarebbe stato sufficiente riguardarsi la registrazione della Traviata rappresentata nel 2005 al Festival di Salisburgo per la regia di Willy Decker che, a nostro avviso, rimane per ora la più bella Traviata del nuovo secolo.
Verona. Un discorso diverso va fatto per il Don Pasquale di Donizetti andato in scena al Teatro Filarmonico di Verona sotto la direzione brillante e spigliata del M° Omer Meir Wellber. La regia è stata affidata ad Antonio Albanese (alla sua seconda prova con la lirica), il quale ha concepito una messa in scena nel segno della semplicità senza ricorrere a inutili intellettualismi: “I protagonisti del Don Pasquale attengono alla tradizione popolare, maschere immerse in una trama antica e ben rodata ma capaci di elevarsi al rango di archetipi, quanto mai riconoscibili per la loro attualità”.
Ne è venuto fuori uno spettacolo di scoppiettante comicità molto curato nella recitazione degli interpreti, ma anche con alcuni passaggi di notevole spessore sentimentale, come del resto richiedono la partitura e il libretto scritto da un importante letterato come Giovanni Ruffini. La messa in scena di Albanese ruota intorno alla frase finale “siate felici” ed è anche un omaggio alla grande tradizione vinicola del Veneto con quell’inizio che si apre su una grande parete-scaffale piena di bottiglie, per poi trasferirsi all’aperto in una vigna dove si sta procedendo alla vendemmia cui prende parte la bella vedovella Norina. Si passa quindi in un interno borghese che viene ammobiliato e arredato a vista, mentre nella scena finale si ritorno nella vigna illuminata dalla luna e trasformata in una magnifico giardino fiorito con uno splendido fondale stellato, dove si consuma l’inganno del povero Don Pasquale e il trionfo dei giovani innamorati. Don Pasquale non è un vecchio avaraccio ma un uomo anziano che soffre di solitudine per cui vorrebbe una giovane compagna; secondo il regista è il ricco proprietario di un’azienda vinicola orgoglioso della sua splendente cantina e della sua vigna, per cui, quando perde la proprietà a favore della giovane moglie, si sente un uomo perduto. Norina è una bella vedova che fa l’operaia nella vigna di Don Pasquale e che approfitta con astuzia del suo fascino femminile per catturare l’anziano spasimante, esprimendo la propria carica di sensualità sfoggiando un look ammiccante che ricorda la Silvana Mangano di Riso amaro. Il dottor Malatesta sa essere intrigante a fin di bene per far rinsavire il vecchio spasimante, mentre Ernesto non è un giovanottino svenevole, ma un giovane dal piglio virile deciso a difendere il suo amore. Albanese si diverte anche guidare l’azione dei coristi-mimi che commentano l’azione del vecchio possidente, aggiungendo sapore alla seconda parte della vicenda. Il baritono basso Simone Alaimo (Don Pasquale), ormai in debito di voce, ha sopperito con la presenza scenica, affrontando con disinvoltura una parte molto parlata; il baritono Mario Cassi (Dottor Malatesta) ha sfoggiato un bel timbro baritonale più efficace nel “cantabile” che nelle agilità richieste dai duetti con Norina e Don Pasquale; il tenore Francesco Demuro (Ernesto) ha fornito una prova eccellente per sicurezza e per un’emissione vocale ben controllata; infine il soprano Irina Lungu (Norina), oltre a imporre una bella presenza scenica, ha presentato un timbro di soprano lirico-leggero con alcuni limiti alla vocalità richiesta dalla parte, anche se è stata piacevole ad ascoltarsi per la sua emissione morbida e precisa. Albanese riesce insomma a essere semplice, efficace e divertente senza mai stradare: “Io per deformazione professionale lavoro sul gesto, sul carattere, sulle emozioni che i personaggi hanno anche se Donizetti non ci aiuta, perché la storia è davvero elementare. Non si può inventare molto, se non lavorando sulla caratterizzazione dei personaggi. Ma non posso certo entrare con il mio teatro nell’opera, devo rispettare quell’aroma donizettiano: insomma non puoi fare di Norina una drag queen o far montare a Don Pasquale una Harley Davidson”.