“Crispino” e “Giovanna d’Arco” al Festival di Martina Franca
Alberto Bazzano
5 Ago 2013 - Commenti classica
Crispino e la comare dei fratelli Ricci
MARTINA FRANCA (TA). Il Settecento è il grande secolo dell’opera buffa. Nell’Ottocento l’avvento del Romanticismo, con le sue vicende di amore e morte e con i suoi drammi dall’esito infausto, mise a dura prova il genere che sopravvisse grazie ad un operoso artigianato.
A mantenere viva la vis comica della tradizione napoletana fu, anzitutto, Antonio Cagnoni che dopo i primi timidi tentativi di Rosalia di San Miniato e I due savoiardi compose Don Bucefalo (1947), opera a cui arrise uno strepitoso successo tale da propiziarne addirittura la rappresentazione al Theatre des Italiens di Parigi.
Al trionfo di Cagnoni fece seguito, a tamburo battente, il successo di altri compositori, come Serafino Amedeo De Ferrari con Pipelè e Nicola De Giosa il cui Don Checco (in cartellone l’anno prossimo a Martina Franca) rimase per molti anni nel repertorio dei teatri italiani.
Sorte non dissimile toccò a Errico Petrella, autore de Le precauzioni la cui notorietà non si arrestò alle mura di mura di Napoli, ma varcò i confini nazionali.
Sullo stesso piano di importanza, o addirittura di importanza maggiore, si pose il Crispino e la comare dei fratelli Ricci. L’opera riuscì a superare lo sbarramento della prima guerra mondiale, guadagnandosi varie esecuzioni in pieno Novecento.
Tenuta in somma considerazione da Verdi, è oggi considerata un classico dell’opera buffa dell’Ottocento.
La sua vicenda a sfondo edificante ha contagiato il mondo della celluloide. Nel 1938, agli albori del cinema sonoro, il regista Vincenzo Sorelli ne trasse un film di cui ancora si ha memoria.
L’opera manca dalle scene dal 1986, quando venne data a Venezia con la direzione di Peter Maag e le scene di Roberto De Simone.
Oggi il titolo è ripreso al Festival della Valle d’Itria in una produzione che segna il debutto in Italia di Alessandro Talevi, trentasettenne regista sudafricano di origine italiana, distintosi in area anglosassone per pregevoli allestimenti.
Secondo Talevi l’opera veicola un messaggio morale: guardarsi dal consumismo e dal denaro facile. Tenersi alla larga da un modello invalso, strombazzato perlopiù da una televisione che propone, a ciclo continuo, “Grandi fratelli” e programmi analoghi dove il bene, identificato nel successo e nella fugace notorietà, è prendibile da chiunque. Un bene, come suol dirsi, a portata di mano. In questo contesto non v’è spazio per il sano sacrificio e per la lenta e quotidiana crescita individuale.
La Comare mette in guardia da questa fallacia. Nella trasposizione di Talevi è una fata buona che salva Crispino dalle chimere che lo condurrebbero al disastro.
Microfono alla mano, appare in scena indossando un abito scintillante. Sembra la presentatrice di un show televisivo che ai concorrenti offre la possibilità di realizzare i propri sogni.
Ha la voce di Romina Boscolo che non seduce per bellezza. Essa è aspra e molta oscurata. Ciò nonostante rende il personaggio. Le tinte ambrate e i toni sepolcrali restituiscono, infatti, alla Comare la dimensione stratosferica che la connota.
Il ciabattino Crispino, invece, è tutto di questo mondo. Umano, troppo umano, nelle sue debolezze e nei suoi difetti. In Domenico Colaianni trova un interprete ideale, solido nella vocalità, scultoreo nella dizione e sicuro sulla scena.
Un gradito ritorno alla ribalta si ha per Stefania Bonfadelli, belcantista di rango, che interpreta onorevolmente il ruolo di Annetta, impervio per la coloratura e da sempre appannaggio di eccellenti virtuose.
Buona prova di sé danno anche Mattia Olivieri nei panni di Fabrizio e Alessandro Spina in quelli di Mirabolano. Puntuale, anche se lievemente scolastico, Fabrizio Paesano alle prese con l’amoroso di turno, il Contino del Fiore.
Il resto del cast è composto da Carmine Monaco (Asdrubale), Lucia Conte (Lisetta) e Francesco Castoro (Bortolo).
Resta da riferire della bacchetta del giovane Jader Bignamini, al suo esordio operistico al di fuori dell’alveo dell’Orchestra Verdi di Milano, realtà che lo ha accompagnato dal ruolo di primo clarinetto a quello di guida della compagine. La sua direzione appare equilibrata nel dosaggio di tempi e sonorità. Non è prevaricante ma funzionale alla vivacità del disegno complessivo.
Giovanna d’Arco di Verdi
MARTINA FRANCA (TA). Il Festival della Valle d’Itria, fra i più stimolanti d’Europa Altra scena del “Crispino e la comare”sotto la guida lungimirante del direttore artistico Alberto Triola, ci parla quest’anno di visioni oltre i confini.
Visioni intese non in senso materico, ma spirituale. Come capacità di oltrepassare la realtà fenomenica, di attingere con lo sguardo il senso autentico delle cose.
Confini da intendersi non come Schranken ma come Grenzen, secondo la classica distinzione kantiana. Non come barriere, assolute ed invalicabili, ma come limiti che aprono ad un’ulteriorità, che offrono orizzonti verso i quali è possibile indirizzare lo sguardo.
Visionaria per eccellenza è Giovanna d’Arco, intrisa di misticismo, che si fa tramite fra gli uomini del messaggio divino da lei intimamente percepito.
Ovviamente, nel 2013, bicentenario verdiano, alla pulzella d’Orléans si poteva guardare solo attraverso la lente del Cigno di Busseto che all’eroina visionaria ha ispirato uno di suoi lavori giovanili.
Giovanna d’Arco non si ascolta frequentemente a teatro. Nel Novecento le edizioni si contano. La prima è quella berlinese del 1941 allestita per il quarantesimo anniversario della morte dell’autore. Fra le ultime riprese italiane si segnalano quella di Napoli del 1941, quella di Bologna del 1989 e quella di Parma del 2008. Quest’anno nessun teatro ha pensato alla vergine guerriera per ricordare Verdi, fatta eccezione di Salisburgo che ha eseguito l’opera sotto forma di concerto.
Formalmente non perfetta (ma difesa strenuamente da Verdi che nei giorni del debutto la definì “la sua opera migliore senza eccezione e senza dubbio”) ma pregna di vitalità, l’opera si è inserita a buon diritto nel cartellone di un festival che focalizza l’attenzione su partiture inedite o rare.
Lo spettacolo del giovane regista milanese Fabio Ceresa, acclamato l’anno passato nell’Orfeo di Luigi Rossi, si è distinto ancora una volta per intelligenza, vincendo la sfida di un allestimento coerente con risorse economiche scarse: le poche che si destinano ormai alla cultura.
Quando un Paese non investe più in cultura è destinato ad un inesorabile declino!
Due piani congiunti da una scalinata, un’unica scena, neutra come la pietra di Palazzo Ducale, faceva da sfondo all’azione. A fare il resto erano le luci, pochi oggetti e i movimenti dei protagonisti.
Uno spettacolo, questo, metaforico, simbolista, che lasciava spazio all’immaginazione. Per seguirlo era necessario conoscere il libretto. Ciò fatto, tutto risultava comprensibile. Le linee guida erano fornite dai colori: l’azzurro per i francesi, il rosso per gli inglesi, il nero per il maligno e il bianco per il benigno.
Sul piano della vocalità lo spettacolo si è posto sulla scia dell’Ernani del 1991, quando Rodolfo Celletti tentò l’esperimento di iscrivere il primo Verdi nel solco della tradizione belcantistica ottocentesca, affidando i ruoli protagonistici a Vincenzo La Scola, Daniela Dessì, Paolo Coni e Michele Pertusi.
Il giovane Verdi guardava a Bellini e Donizetti e si serviva di interpreti che frequentavano il repertorio proto-romantico, fortemente intriso di Belcanto. Verdi non era una monade senza porte né finestre. Non era avulso dal contesto in cui era cresciuto. Non poteva esserlo. Ne consegue che il comune modo di intendere il canto verdiano, sviluppatosi nella prima metà del Novecento, è, in realtà, il frutto di un equivoco. Un equivoco talora affascinante, ma pur sempre tale.
Il fantastico Ernani di Mario Del Monaco o il Rigoletto di Aldo Protti, altrettanto soggiogante, per fare due esempi, sono figli di una decodificazione della scrittura verdiana che passa attraverso il filtro del Verismo. Ciò non priva tali interpretazioni di validità, ben inteso, ma le relativizza, le confina nell’alveo di una particolare declinazione del teatro verdiano.
Alla première del 1845 Giovanna fu Erminia Frezzolini, soprano di agilità che aveva mosso i primi passi con Bellini, Donizetti e Mercadante. Esordì nel 1837 a Firenze nella Beatrice di Tenda riscuotendo un vivo successo. Due anni dopo si produsse a Ferrara ne La straniera di Bellini e in Elisir e Lucia di Donizetti. Nella medesima stagione cantò Elena da Feltre di Mercadante a Reggio Emilia, Pisa, Perugia e Bologna. Qui affrontò Anna Bolena, prima di debuttare alla Scala ne Le due illustri rivali di Mercadante. Successivamente, introdusse nel proprio repertorio I Puritani e La Sonnambula. Parallelamente, contribuì all’affermazione diErnani, Rigoletto, Trovatore e Traviata, in Italia e all’estero.
Erminia Frezzolini è una belcantista che visse l’aurora verdiana. Verdi la coinvolse nell’avventura de I Lombardi alla prima crociata, quindi le confezionò il ruolo di Giovanna.
Se Giovanna può essere una belcantista, colei che, fra le giovani, sta mietendo i maggiori allori in questo repertorio è Jessica Pratt. Per questo Alberto Triola l’ha prescelta. Il suo non è stato un azzardo, ma la scelta ponderata di chi sa che stava compiendo un passo delicato. E giacché la sorte premia gli audaci, alla resa dei conti la scelta è risultata vincente.
Jessica Pratt ha colto subito lo spirito con cui doveva affrontare il ruolo e si è mantenuta su di una linea di estatica levità. Ha evitato di forzare la voce nei punti critici, enfatizzando, quasi edonisticamente, il versante diafano e lunare del suo canto.
Ha sgranato con precisione ogni agilità, regalandoci mezzevoci di cristallina trasparenza.
Se in qualche incursione nel registro grave la sua voce è parsa insufficiente, ciò è da attribuirsi alla volontà dell’artista di preservare l’omogeneità della gamma, perseguendo un disegno di olimpica euritmia.
Uniformità di emissione e ampiezza dei centri, si sa, sono obiettivi difficili da perseguire assieme.
La stessa Frezzolini, infatti, che emetteva con forza le note gravi non pervenne mai compiutamente alla fusione dei registri. Ciò venne notato da molti, fra cui il celebre maestro di canto Heinrich Panofka.
Allineata alla scelta del soprano è stata quella del tenore. Il ruolo di Carlo VII è stato rivestito dal francese Jean-Francois Borras, che si è distinto per la fluidità di un’emissione morbida di chiara ascendenza belcantistica.
Particolarmente apprezzato è stato, poi, Giulian Kim nei panni di Giacomo. Il giovane baritono, emerso di recente in produzioni belcantiste, si è distinto per l’eleganza e la proprietà del fraseggio.
Onorevoli anche le parti di fianco: Roberto Cervellera (Devil) ed Emanuele Cordaro (Talbot).
L’Orchestra Internazionale d’Italia è stata guidata con mano sicura da Riccardo Frizza. Il direttore ha evitato ogni asprezza, equilibrando le sonorità e mettendo in evidenza anzitutto le componenti liriche di questa partitura.