“Così leggera che ci fa sognare – Viaggio sentimentale nella canzone italiana”, un libro di Fernando Romagnoli
di Fernando Romagnoli
4 Nov 2021 - Libri
Il libro di Fernando Romagnoli (Così leggera che ci fa sognare – Viaggio sentimentale nella canzone italiana) è un viaggio sentimentale nella canzone italiana, nella sua poesia e nella sua bellezza, un’appassionante cavalcata tra le emozioni, le suggestioni poetiche, i richiami letterari innescati dalla magia della musica.
Tratto da: https://www.illaboratoriodigrenouille.it/e-tutta-musica-leggera/ (per gentile concessione)
Fernando Romagnoli, Così leggera che ci fa sognare – Viaggio sentimentale nella canzone italiana, ZONA Music Books, 2021; libro pp. 480 ‒ EURO 22 ‒ ISBN 9788864389424; ebook EURO 12,99 ‒ ISBN 9788864389431
Trenta monografie per altrettanti brani, in compagnia dei nostri artisti piu rappresentativi, figure centrali, decisive, spesso autentici “monumenti”, nell’arco temporale che va dagli anni Sessanta ai giorni nostri:
Vedrai vedrai Luigi Tenco ‒ Giovanni telegrafista Enzo Jannacci ‒ Tu no Piero Ciampi ‒ Vorrei incontrarti Alan Sorrenti ‒ Compagno di scuola Antonello Venditti ‒ Confessioni di un malandrino Angelo Branduardi ‒ Silvia Renzo Zenobi ‒ Ho visto anche degli zingari felici Claudio Lolli ‒ Santa Lucia Francesco De Gregori ‒ A.R. Roberto Vecchioni ‒ Napul’è Pino Daniele ‒ Amerigo Francesco Guccini ‒ Prendila così Lucio Battisti ‒ La sedia di lillà Alberto Fortis ‒ Maestro della voce Premiata Forneria Marconi ‒ I vecchi Claudio Baglioni ‒ Hotel Supramonte Fabrizio De Andre ‒ Svegliami domattina Mimmo Locasciulli ‒ Diavolo rosso Paolo Conte ‒ Farfallina Luca Carboni ‒ Coppi Gino Paoli ‒ Le rondini Lucio Dalla ‒ Figli di Annibale Almamegretta ‒ I treni a vapore Ivano Fossati ‒ Non è l’amore che va via Vinicio Capossela ‒ La cura Franco Battiato ‒ Bolormaa CSI ‒ Il corvo Joe Baustelle ‒ Universo Cristina Dona ‒ Vita tranquilla Francesco Tricarico
E la canzone andava avanti Sempre più affondata nell'aria Paolo Conte Le canzoni recano un vento Che risuonerà nei secoli Sergej Aleksandrovic Esenin
Questo lavoro è un viaggio sentimentale nella musica italiana, nella poesia e nella bellezza delle canzoni. Un’appassionata cavalcata tra le risonanze emozionali, le suggestioni poetiche, i richiami letterari innescati dalla magia della musica. La grande musica, con gli occhi a mandorla, che sa far ridere e all’improvviso ti aiuta a piangere: la vera musica, quella che, come canta Paolo Conte, frequenta l’anima. Sull’onda emozionale scatenata dalla suggestione dei vari brani, ho riversato nelle pagine tanti libri che ho amato e che, negli anni, come fari, hanno puntellato e rischiarato il percorso della mia vita, hanno nutrito la mia anima. “Libri, cioè orizzonti, cioè scalinate per salire sulla vetta dello spirito e del cuore”. Così il grande Federico Garcia Lorca, nel 1931, nel discorso di inaugurazione della biblioteca di Fuente Vaqueros, suo paese natale. In quella sua Andalusia di acqua e vento, nuvole argentee e spumose, ulivi carichi dello strepito degli uccelli. “Io”, aggiungeva, “se avessi fame e mi trovassi invalido in mezzo alla strada, non chiederei un pane, ma chiederei mezzo pane e un libro”.
Scrive Francesco Scarabicchi, ne L’esperienza della neve:
I libri vivono vivi, se li senti,
se di loro rammenti odore e forma,
ospiti solitari del cammino,
antiche sentinelle della notte
poggiate l’una all’altra per destino.
E Emily Dickinson:
Non esiste un vascello veloce
come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che si impenna-
questa traversata può farla anche il povero
senza oppressione di pedaggio –
tanto è frugale
il carro dell’anima
Ho inoltre evitato, nell’esposizione, di dividere, frazionare, “ingabbiare” dentro paragrafi e sezioni il flusso del discorso. Che sarebbe risultato, altrimenti, parcellizzato, “macchinoso”, “accademico”. Il pensiero, come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare. Così Lucio Dalla, in Com’è profondo il mare, struggente, incontenibile flusso di coscienza sul destino dell’uomo, in un vagare a ritroso tra le epoche della storia.
L’analisi delle canzoni prese in esame, quelle, semplicemente, che ho giudicato più belle ed emozionanti, più toccanti, “artiglianti”, struggenti, più “mie”, copre un arco temporale che va dagli anni Sessanta, dall’avvento dei cantautori (dopo la deflagrante detonazione di Volare; Domenico Modugno, nel 1958, sul palco di Sanremo, con quella sua canzone naif e surreale, e quelle braccia spalancate, ad abbracciare il cielo) a questo spicchio di millennio che stiamo vivendo. Trenta canzoni: una lista che, come ogni lista, presta il fianco a opinabili inclusioni, ed è obbligata a dolorose esclusioni. Butto là, in questo senso, tanto per esemplificare, tre nomi, tre artisti che nel libro non hanno trovato spazio (ma bisogna darsi una regola, disegnare un perimetro; ed era, qui, come detto, quello delle trenta canzoni, canzoni dalla particolare vibrazione e risonanza interiore, dalla particolare caratura emotiva, sentimentale): Sergio Endrigo, Ivan Graziani, Adriano Celentano. E come non ricordare qui (a voler citare soltanto una canzone) quella immortale, profetica ballata ecologista (del 1966; il brano è di Beretta-Del Prete)), amara, struggente, straripante di nostalgia, che è Il ragazzo della via Gluck. “Un’immensa canzone popolare” (come scrisse il grande Edmondo Berselli), che catturò l’interesse di Pasolini, interpretata dal Molleggiato con quella sua vocalità da pelle d’oca, quella voce, ha affermato Paolo Conte, “completamente naturale, l’unica credibile che ci sia in Italia”, capace di “rendere immediatamente intelligibile un testo cantandolo, fosse anche l’elenco telefonico”.
Questa è la storia
Di uno di noi
Anche lui nato per caso in via Gluck
In una casa, fuori città
Gente tranquilla, che lavorava
Là dove c’era l’erba ora c’è
Una città
E quella casa in mezzo al verde ormai
Dove sarà…
Ma per questo e altro ancora (altri artisti, altre canzoni, altre emozioni) non basterebbe forse un altro volume. Le canzoni, come la vita, pullulano, sgorgano, fioriscono, “premono” da ogni parte (le canzoni son come i fiori, nascon da sole, sono come i sogni, canta Vasco Rossi), e non si può costringere il mare dentro un bicchiere.
Un florilegio di canzoni, nel libro, che comunque poi, a cascata, col loro scintillante zampillio, ne richiamano ed evocano altre, dello stesso artista o di artisti diversi, come in una festa di luminarie. In un racconto frastagliato, disseminato di memorie poetiche e letterarie, con sconfinamenti anche in altre arti, il cinema, la pittura; un racconto che si dipana e si ramifica seguendo soltanto i dettami e i sentieri dell’emozione. Cercando tuttavia, nel contempo, di restituire un profilo il più possibile chiaro ed esauriente, un quadro attendibile e comprensivo, di più di mezzo secolo di musica italiana; una musica da catalogare, qui, sotto la voce “canzone d’autore”. In un libro che potrebbe avere, ad esergo, alcune parole rubate al critico francese Albert Maquet, alla prefazione di un suo saggio su Albert Camus. Il grande scrittore franco-algerino, che è anche il mio “eroe” umano e letterario:
“Se la simpatia che pervade queste pagine può infastidire qualcuno, andrà assolta, spero, la mia ostinazione nel giudicare che, in materia d’arte, si può soltanto parlare di ciò che si ammira”.
L’indagine sulle coordinate liriche e tematiche, stilistiche ed emozionali dei testi, e la ricognizione intorno al mondo poetico degli artisti coinvolti, riandando ai momenti esemplari della loro produzione, disegna quindi (insieme ai tanti rimandi alla poesia e alla letteratura, e alla schiera di autori qui convocati: da Pavese a Rilke, da Melville a Gide, da Céline a Hrabal, da Pessoa a Montale a Bufalino; e poi Rimbaud ,Pasolini, Magris, Rumiz, Camus , Fante, Walser, Baudelaire, Wislawa Szymborska, Virginia Woolf, Simone Weil, Emily Dickinson…) un po’ il viaggio di una vita. Quasi un mio personalissimo bildungsroman, un musicale e poetico romanzo di formazione. In cui, tuttavia, credo molti potranno rispecchiarsi e riconoscersi. Una sorta di autobiografia spirituale, una “cartografia” interiore che disegna, in qualche maniera, un’idea di mondo, e una visione della vita dell’autore, di me stesso. Un “romanzo di formazione” che, come in un racconto di Jorge Luis Borges, L’artefice, arriva “pazientemente” a scolpire, in “un uomo” al capolinea dei giorni, una cartografia del suo transito terrestre (per dirla con Battiato), il profilo articolato e complesso di un destino, “l’immagine” più autentica e veritiera “del suo volto”. “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
Il libro è ordinato in trenta, più o meno vaste monografie, altrettante tappe di un viaggio nella musica italiana, in compagnia dei suoi artisti più rappresentativi. Tra essi, figure centrali, “decisive”, nella storia ormai gloriosa della nostra canzone d’autore. A volte autentici “monumenti”.
Penso qui, schizzando un breve excursus, negli anni, e tra le pagine del libro, a personaggi come Luigi Tenco, tra i primi a rompere gli schemi di una canzone impantanata in una palude di luoghi comuni, di frasi fatte e trite banalità. Ad introdurre in essa le esperienze e le occasioni della quotidianità, in testi profondi, “scomodi”, anticipatori, da cui traspare l’inquietudine di vivere e una coraggiosa antiretorica.
A Piero Ciampi, col suo enorme talento di bohémien, le sue poesie tenerissime e rabbiose, irose e struggenti. Che raccontano, tra sconfinata disperazione e dolcezza infinita, un mondo assurdo, di sperimentate illusioni e sogni profanati, di non-speranza.
A Fabrizio De André, che fin dagli esordi ha sempre molto curato il versante letterario del proprio lavoro, ispirandosi ad esempio alla poesia di François Villon o all’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. De André, con le sue canzoni affollate di un’umanità desolata, di derelitti, di anime perse. In viaggio, costantemente, sulla sua cattiva strada, in direzione ostinata e contraria. Un artista che, con Crêuza de mä, album manifesto e spartiacque, etnico, “contaminato”, “arabeggiante”, anticipatore, rivoluzionario, scritto a quattro mani con l’ex PFM Mauro Pagani, immenso musicista, ha orientato la canzone italiana verso il recupero delle radici dialettali e degli elementi folklorici consegnati dalla tradizione.
E ancora: Lucio Battisti, che in quella Premiata Ditta, quello straordinario sodalizio artistico (dagli anni ’60 all’alba degli ’80) in coppia con Mogol, partorisce magiche, eterne alchimie. Canzoni memorabili che, con il loro “banalese sublime” (l’espressione è ancora di Edmondo Berselli) segnano un’epoca e affascinano intere generazioni. E che poi, all’apice del successo, mette in atto una clamorosa sparizione, si sottrae agli occhi del mondo, confinandosi in un maniacale, caparbio isolamento, da Salinger nostrano. E, sempre abitato dall’esigenza di una ricerca insonne, inesausta, di orizzonti musicali sempre nuovi, si mette infine in “società” con il perfido, sfuggente Pasquale Panella. Poeta ermetico, giocoso, orfico, dadaista.
Francesco De Gregori, il Principe della canzone italiana. Per il suo carattere ritroso, appartato, “aristocratico”, sempre defilato rispetto al circo dello show business. Per l’approccio rigoroso e intransigente al suo mestiere e la grande fascinazione poetica dei suoi versi, in quelle canzoni stratificate, allusive, sempre in bilico tra realtà e fantasia, intimità e universalità, quotidianità e storia comune. Il più grande di tutti. E il più poeta di tutti. Anche se a chiamarlo poeta si potrebbe arrabbiare. Dirò, tra breve, perché. Anzi, lo spiegherà lui. Le sue canzoni potremmo leggerle, un giorno, come specchio del tempo che abbiamo vissuto, metafore lucide e poetiche della nostra condizione, del nostro destino. E, insieme, delle pagine chiare e delle pagine scure della nostra storia, della storia del nostro Paese, metà giardino e metà galera.
Francesco Guccini, il Maestrone, molto più di un semplice cantautore. Un autentico monumento della canzone d’autore italiana, che ha ormai l’indiscutibile grandezza letteraria di un classico. Con la sua voce ruvida e tonante, dall’inconfondibile erre moscia, arrotata; una voce da cantastorie (o, come ama definirsi, “contastorie”), da narratore popolare. “Un cantore omerico, forse il più colto dei cantautori in circolazione”, ha scritto Umberto Eco. Con la sua “poesia dotta, intarsio di riferimenti: che coraggio far rimare amare con Schopenhauer“.
Lucio Dalla, artista eclettico, versatile, instancabile viaggiatore tra ritmi e suoni. Con il suo enorme talento musicale, le sue meravigliose melodie. E quella vocalità modulata sul gusto dell’improvvisazione jazzistica, istrionica, sanguigna, dalle straordinarie impennate e arditezze interpretative. Dalla che, nella prima parte della sua carriera, realizza degli album memorabili, su testi di altissima poesia di Roberto Roversi, poeta, intellettuale, marxista eretico. Canzoni impervie, dissonanti, innovative. Un incontro che lascerà una scia abbagliante nella storia della canzone italiana.
Ivano Fossati, il Volatore. Un avventuroso cercatore, un solitario e ardito esploratore di terre, mari e cieli. Un poeta-musicista di frontiera, sempre in fuga dalla musica che gira intorno, quella furba, stantia e preconfezionata delle classifiche, di quelli che cantano dentro nei dischi perché ci hanno i figli da mantenere, per dirla con il buon Jannacci. Una penna tra le più sensibili e ispirate della nostra canzone d’autore; che sa essere dolente, elegiaca, e insieme corrosiva e aspramente politica. Fossati con quella sua voce dolce e “scura”, piena, potente, corposa; una voce che rallenta volutamente la corsa delle parole, ne dilata i confini, per conferire loro più pregnanza e incisività.
Paolo Conte, dall’accento originalissimo, inconfondibile, dalla poesia sghemba, obliqua e demodé. Narratore di storie di provincia e di fascinosi scenari esotici, di sogni tropicali e afrori paesani, con una speciale vocazione per una dolce e autoironica filosofia. Conte che al confronto spesso problematico con l’attualità sostituisce, con classe e nonchalance, la scelta del ricordo, dell’evocazione, del sogno, e il diritto alla memoria di un tempo andato. In canzoni che ci restituiscono, al ritmo suadente e ipnotico del jazz (la faccia triste dell’America) intatta e fragrante un’epoca, con tutto il suo sapore, il suo colore, il suo profumo. Come solo sanno fare la grande poesia e la grande letteratura.
Franco Battiato, geniale poeta-musicista-filosofo (definirlo cantautore sarebbe sicuramente riduttivo). Un percorso, il suo, lontano dalle cose del mondo e alieno dalle logiche di mercato. Sempre impegnato in uno slancio mistico e spirituale. Sempre all’insegna della ricerca, della sperimentazione più ardita e avanguardistica. Dell’eclettismo, della contaminazione tra alto e basso, classico e popolare, antico e moderno, Oriente e Occidente, presente e passato millenario.
Vinicio Capossela, musicista “spiazzante”, istrionico, visionario, globale. Onnivoro, “goloso”, insaziabile divoratore di suoni e culture antiche e moderne, da ogni angolo del mondo. Capossela che ha scelto, anche lui, come tutti gli altri “grandi”, di abitare al riparo dalle mode, in mondo appartato e personalissimo. Con le sue canzoni che ci rapiscono ad un viaggio in un universo popolato di incontri, personaggi, storie, di vite “sbronze”, sregolate, precarie, di belle donne e postriboli, di profumi insinuanti di tango e di peccato, di alcol versato a fiumi, di divoranti passioni e nostalgia, di solitudine e malinconia. Un artista “totale”, di straripante creatività. Poliedrico, geniale e irrefrenabile. Il migliore della sua generazione.
E poi Enzo Jannacci, Alan Sorrenti, Antonello Venditti, Angelo Branduardi, Claudio Lolli, Roberto Vecchioni, Pino Daniele, Alberto Fortis, Claudio Baglioni, Mimmo Locasciulli, Luca Carboni, Gino Paoli, Cristina Donà, Francesco Tricarico. Insieme a band come la Premiata Forneria Marconi, gli Almamegretta, i CSI, i Baustelle.
Trenta monografie, dunque. Da non intendere assolutamente, tuttavia, come “gabbie”, rigide, esclusive ed escludenti. Piuttosto, invece, come stanze aperte, le finestre spalancate, affacciate su altri orizzonti, su altri mondi. Come l’anima di Andrè Gide (uno dei tanti scrittori che, come detto, popolano queste pagine) nei Nutrimenti terrestri: la mia anima era la locanda aperta al crocevia; quel che voleva entrare, entrava.
Vorrei che prendere in mano il libro equivalga, per il lettore, non soltanto ad imbarcarsi (come è stato per me, fin dalle prime pagine, nel corso della scrittura) in una navigazione emozionante, ma anche in un viaggio avventuroso, sorprendente, che può condurre “fuori rotta”, a costeggiare altri lidi, a toccare terre incognite, ad avvistare pianeti sconosciuti. Penso qui ai tanti percorsi “laterali” in cui si imbatterà, ai tanti sconfinamenti nella poesia e nella letteratura.
L’indice, volutamente scarno, essenziale, “scheletrico”, strutturato sulla cronologia delle canzoni (un indice in cui non tutto viene detto; in cui molto viene taciuto, perchè chi legge non sia, come credo non debba essere, eccessivamente, infantilmente “imboccato” dall’autore) sottintende dunque, da parte del lettore, questo spirito avventuroso, questa particolare postura dell’anima. Aperta, “porosa”, ricettiva, disposta a lasciarsi piacevolmente sorprendere, “contaminare”, “cambiare”. Questo, anche, dovrebbe significare, fondamentalmente, l’esperienza della lettura. E della letteratura. Altrimenti non è esperienza, ma solo banale trastullo, perdita di tempo.
E allora, inoltrandosi in questo periplo musicale e letterario, si scoprirà, ad esempio (per restare alle canzoni) che nel capitolo su Tricarico, su quel brano emozionante che è Vita tranquilla, si parla altrettanto di Vasco Rossi (come dimenticare il Blasco, il sempiterno rocker di Zocca?), di quella sua ballata “uguale e contraria”, epocale, splenica, “maledetta”, che è Vita spericolata. Un capitolo, questo, con cui si chiude idealmente il lungo racconto del libro. Con Vita tranquilla, appunto, quasi un inno per questi nostri anni sincopati, forsennati, inghiottiti come un treno in corsa da una galleria. per le nostre vite concitate, esagitate, saturate dalla fretta e dall’impazienza.
O, ancora, che nella monografia sulla PFM mi soffermo ampiamente su quella band leggendaria e rivoluzionaria che solcò, come una cometa abbacinante, il cielo degli anni Settanta: gli Area. Con la loro idea radicale, “militante” della musica, la loro ricchezza creativa ed energia ritmica. E sul loro leader, Demetrio Stratos, Maestro della voce, il più grande cantante nella storia del rock italiano. Una voce incredibile, funambolica, “teatrale”, uno straordinario strumento musicale, uno stupefacente additivo sonoro.
O, infine, (ma altri esempi potrei fare, a proposito di queste trenta monografie, che irresistibilmente si dilatano, inglobano altro) si scoprirà che raccontando di Enzo Jannacci vengono poi coinvolti nel discorso, inevitabilmente (in quella Milano degli anni Sessanta/Settanta, che fu un grande laboratorio di comicità intelligente, di satira amara e corrosiva) Dario Fo e Giorgio Gaber. Gaber che diventerà successivamente il Signor G, nello straordinario sodalizio col pittore e paroliere Sandro Luporini.
E, tra le pagine, richiamati dal discorso (avrebbero meritato ben altro spazio; presenti comunque all’ “appello” della grande musica italiana) il Banco del Mutuo Soccorso, Massimo Bubola, Mina, Giovanna Marini, Fiorella Mannoia, gli Afterhours…
Canzoni e poesia
È una notte in Italia che vedi
Questo darsi da fare
Questa musica leggera
Così leggera che ci fa sognare
Così Ivano Fossati, in quella sua canzone-capolavoro e prediletta, Una notte in Italia. Un brano che evoca anche un sentimento identitario, che è un’istantanea della nostra coscienza collettiva, in una notte qualunque, sotto un cielo italiano. E un inno alla vita, all’esserci, qui, ora, alla fortuna di vivere adesso. Come anche alla volatile leggerezza delle canzoni, alla “semplicità della musica leggera”. “Canto la bellezza di esserci comunque (…) se hai la capacità di analizzare le cose e gli anni senza lasciarti trascinare, è meglio essere qui che altrove, come è meglio cantare, anche una canzonetta, piuttosto che stare zitto… Ed è bello ritrovarsi con l’umiltà e la felicità di cantare una canzone qualunque, perché e da lì che si può passare a qualcosa di più complesso e profondo. La semplicità della musica leggera è la base su cui si possono innalzare grattacieli”.
Ed è proprio questa ariosa, fluida leggerezza, che non è pura, banale evasione, né frivola superficialità, quello che, nella musica leggera, ci coinvolge ed emoziona, ci intriga, ci commuove, ci fa sognare. Ci rende ricettivi e ci tocca, tanto per parafrasare un altro memorabile brano del Volatore, La pianta del tè. Scriveva il Calvino delle Lezioni americane, nel suo famoso elogio della leggerezza: “Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.
Ed è proprio la leggerezza il carattere costitutivo e “vincente” della forma-canzone. E, pur nella sua profondità tematica e simbolica, anche, dunque, della canzone d’autore. Una “leggerezza pensosa” che è quasi “reazione al peso del vivere” (ancora Calvino) dentro un mondo “pesante”, opaco, inerte. Come in Musica leggerissima, di Colapesce e Dimartino, il brano simbolo di Sanremo 2021.Apparentemente superficiale, sorridente, spensierato, con quella sua levità vintage, quell’accattivante musicalità anni Settanta, quel ritmo irresistibile, che spinge a scatenarsi nel ballo. Un tono “leggerissimo”, scanzonato, che ne ha fatto in breve un formidabile tormentone. Una canzone, in realtà, “allegra”, ma non troppo, sul buco nero della depressione. Sui momenti bui dell’esistenza, sulle fragilità e le ferite brucianti dell’anima. Con la quale il talentuoso duo siciliano ha inteso “appesantire la musica leggera”, introducendo, tra le note, argomenti seri e gravi, su cui riflettere. Come nella migliore tradizione della canzone d’autore.
Metti un po’ di musica leggera
Perché ho voglia di niente
Anzi leggerissima
Parole senza mistero
Allegre ma non troppo
Metti un po’ di musica leggera
Nel silenzio assordante
Per non cadere dentro al buco nero
Che sta ad un passo da noi, da noi
Opere fragili, effimere, inafferrabili, le canzoni. E però straordinariamente potenti e pervasive. Capaci, per l’assemblaggio creativo e felice delle parole, per il vivace gioco linguistico, espressivo, sorretto e impreziosito dalla musica, per la loro fruizione immediata, istintiva, epidermica, e il riverbero sentimentale che sfida gli anni, le stagioni, scavandosi una nicchia nel cuore, di incidere una traccia indelebile nelle nostre vite. Di lasciarvi una scia luminosa, dorata. Di raccontare, come proustiane madeleine, e meglio forse di altre espressioni artistiche, ciò che eravamo. Di dire ciò che siamo e prefigurare, come nella levità smemorante di un sogno, ciò che vorremmo essere.
Rimane in sottofondo
Dentro ai supermercati
La cantano i soldati
I figli alcolizzati
I preti progressisti
La senti nei quartieri assolati
Che rimbomba leggera (leggerissima)
Si annida nei pensieri
In palestra
Tiene in piedi una festa
Anche di merda
Ripensi alla tua vita
Alle cose che hai lasciato
Cadere nello spazio
Della tua indifferenza animale
Le canzoni, come i sogni, sono porte che si aprono improvvisamente sullo scenario ordinario, ripetitivo e monotono dell’esistenza, sulla banalità della quotidianità. E sono capaci, seguendo noi i loro echi, i loro richiami e le loro luminose scie, di farci salire in groppa, come su un tappeto volante, e di condurci altrove, verso altri paesaggi e territori, altre geografie della mente, altre dimensioni del vivere. Proprio come i libri, che, sul carro dell’anima, sanno condurci in terre lontane, come cantava la tenera, struggente Emily. Marcel Proust, nel suo elogio della “cattiva musica”, affermava che anche le canzoni più mediocri, leziose e sdolcinate, vengono riscattate dal tempo. E che, riempiendosi “a poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini”, si ritagliano un “posto immenso nella storia sentimentale della società”.
E sono pertanto degne di “venerazione”. “Non è stato del resto proprio Roversi a scrivere una volta che la canzone è filosofia e festa e tenerezza, e che la verità passa più spesso attraverso la cruna di un ago piuttosto di imboccare con stivali di cuoio i saloni dell’accademia?”. Così Gianni Borgna, a conclusione della sua Storia della canzone italiana.
Le canzoni galleggiano nell’aria
e restano impigliate ai nostri abiti
come batuffoli, polline, bugie,
semi delle anemofile.
Manine e soffioni, le ariette
trasportano parole e viceversa
nel loro dondolio.
E le spore sonore volando attecchiscono
per riprodursi dentro chi le ascolta
come colonie microcellulari.
Si installeranno nella nostra mente,
baci e bacilli della nostra voce.
(Valerio Magrelli, Musica leggera)
Vai, vola, non ti angosciare,
per ogni cosa c’è un tempo e una sponda.
Le canzoni recano un vento
che risuonerà nei secoli
(Sergej Esenin, La colombina del Giordano)
Sarebbe anche ormai tempo di considerare la canzone come una specifica forma espressiva, una particolare creazione poetica, con un suo peculiare “linguaggio”, una sua autonomia artistica. E riconoscere finalmente ad essa quella dignità intellettuale e culturale che le è stata spesso negata. Un’opera, la canzone, una creazione, che vive nel rapporto fecondo, felicemente dialettico, fra testo e musica, elemento imprescindibile e “decisivo” della parola cantata.
Ed è sicuramente il caso di ribadire questo concetto, ora che le canzoni finiscono nelle antologie scolastiche, accanto alle poesie di Carducci e Pascoli, Ungaretti e Montale. Una tendenza che De Gregori ha giudicato “pessima cosa”: “La poesia trova la sua musicalità e il suo ritmo nelle parole mentre il testo di una canzone viene scritto in funzione della musica, quindi la parola non è autonoma. La canzone senza musica è mutilata. Io non voglio figurare così accanto a Zanzotto (…). Come se togliessimo la punteggiatura a una poesia. Trovo che sia un omaggio non richiesto, non mi sento più elevato se paragonato a un poeta, non l’ho mai preteso”.
Ma su questa annosa e oziosa querelle, sulla questione insomma se la canzone sia o meno poesia, e se i cantautori siano o meno poeti, lascerò, in conclusione, la parola a Gino Castaldo. Darò spazio all’ultima pagina del suo bellissimo Romanzo della canzone italiana che, inoltrandosi nel Novecento, fino alle soglie del nuovo millennio, racconta, del secolo che abbiamo alle spalle, e delle nostre stesse vite, una variopinta e veritiera educazione sentimentale. “Anche un testo complesso, sofisticato, direbbero alcuni “altamente poetico”, non può e non deve essere disgiunto dalla musica a cui è legato. Se lo facciamo perdiamo qualcosa, anche del significato del testo. Prendete Like a Rolling Stone, che fu lo squillo di tromba di un nuovo universo poetico che si stava schiudendo a disposizione di tutti i canzonettari del mondo. Il testo è notevole, ma che senso avrebbe concepirlo da solo? Quanto perderemmo della straordinaria e avvincente complessità del pezzo?
Detta altrimenti, per tornare all’Italia, non ci sarebbe nulla di scandaloso nell’affermare che i maggiori poeti della seconda metà del Novecento in Italia sono stati De André, Lucio Dalla, De Gregori, Battiato e gli altri del Rinascimento. Ma non ci serve a nulla, se non a confonderci, o a confermare un vecchio obsoleto pregiudizio che vuole la poesia forma alta di cultura e la canzone un genere “popolare” e quindi inferiore. La verità è che una canzone può avere un testo poeticamente raffrontabile alla poesia, ma non ne ha necessariamente bisogno. C’è un’infinità di versi che letti non sembrerebbe granché, ma che accompagnati alla loro melodia diventano sublimi. Perché questo è il segreto della poesia della canzone, una magica, irripetibile simbiosi tra parole e musica. Spezzarla sarebbe delittuoso, oltre che inutile”.
Sono parole che richiamano irresistibilmente alcuni pensieri di Leopardi, sommo poeta, dall’anima musicale, cantante. Che, nello Zibaldone, lamentando la “funesta separazione della musica dalla poesia e della persona del musicista da quella del poeta”, “indivisi e indivisibili”, ravvisava l’esigenza di armonizzare parole e note, di non separare i testi dai suoni. La canzone va dunque ascoltata. La canzone non è poesia, e il dirlo non significa affatto svilirla, diminuirla. Ma “la canzone è a tutti gli effetti letteratura”, afferma ancora il Principe. “Può essere buona o pessima, come un film o un libro. Ma come dice Dylan in un pezzo che ho tradotto, l’uomo malato in cerca di cura…cerca nell’arte e nella letteratura la sua dignità. Letteratura e arte sono da sempre cura e salvezza e dentro ci sta tutto, da Jacques Brel a Billie Holiday, da Corto Maltese a Paperino”.
Canzoni come istantanee dell’anima, piccole preziose casseforti di poesia e bellezza. Proustiane madeleine, che sanno restituire intatto il profumo del tempo e l’incanto dei ricordi. Una breve manciata di minuti in cui si coagulano intense vibrazioni intime, nostalgie ferite, dolcezze svanite e tristezze assortite, lampi di felicità, improvvise epifanie, attese, desideri, speranze. Canzoni che migrano nei cuori, dove vanno infine a fare il nido; che volano leggere, “affondate nell’aria”, per le strade, tra la gente (come la Canzone di Lucio Dalla), a veicolare i nostri sogni, a dire, a raccontare, a confessare, sempre, anche un po’ di noi.
Non so aspettarti più di tanto
Ogni minuto mi dà
L’istinto di cucire il tempo
E di portarti di qua
Ho un materasso di parole
Scritte apposta per te
(…)
Canzone cercala se vuoi
Dille che non mi perda mai
Va per le strade tra la gente
Diglielo veramente…
L’AUTORE
Fernando Romagnoli è nato e vive nelle Marche. Laureato in filosofia, in sociologia e in lettere moderne, si interessa di musica e letteratura. Collaboratore presso le Edizioni De Agostini e bibliotecario, e insegnante di lettere. Si dedica alla scrittura poetica e critica, partecipando al dibattito culturale con interventi e saggi. Collabora, tra l’altro, al magazine musiculturaonline.it. Ha ottenuto affermazioni e segnalazioni in numerosi concorsi di poesia e premi letterari a carattere nazionale. Suoi versi sono apparsi in antologie e riviste. Ha pubblicato: le raccolte di poesia Il tempo e i giorni (1989), Di sangue e d’oro (2010), La bellezza quieta (2015), Luce, cenere (2019) e i saggi L’inarrivabile vita. Lettura diPavese (1991 – Premio Bontempelli-Marinetti), Una luna in fondo al blu. Poesia e ironia nelle canzoni di Paolo Conte (2008), Un’invincibile estate. Passione di vivere in Albert Camus (2017).