Civitanova Danza conclude in bellezza la sua 21° edizione
di Elena Bartolucci
30 Ago 2014 - Commenti danza, Danza
Civitanova Marche (MC) – Sabato 9 agosto 2014 ha avuto luogo il secondo e ultimo festival nel festival previsto per la 21° edizione di Civitanova Danza.
Dopo l’inizio all’Hotel Miramare con Civitanova Danza Focus sul tema Danzare il pubblico, si è proseguito con Happydancehour! a cura delle scuole di danza della città nel piazzale antistante il Lido Cluana prima di recarsi al Teatro Cecchetti per il primo vero appuntamento danzante della serata.
Il talentuoso e divertente coreografo israeliano Hillel Kogan ha presentato in prima italiana We love Arabs. Nel corso della sua carriera di ballerino con il Batsheva Ensemble, il gruppo svizzero Nomades e il Ballet Gulbenkian in Portogallo ha creato coreografie per compagnie di danza e festival in Israele e all’estero. Hillel è assistente di Ohad Naharin e lavora come Direttore prove nel Batsheva Ensemble. Collabora inoltre come performer, nonché co-creatore e drammaturgo, con coreografi israeliani come Yossi Berg e Oded Graf, Renana Raz e molti altri.
Ha condiviso il palco insieme al bravissimo danzatore Adi Boutrous, il quale ha danzato con coreografi israeliani del calibro di Iris Erez, Dana Ruttenberg, Shlomi Twizer, Edmond Rousseau, Bosmat Nussan e molti altri, ma è anche creatore di vari eventi nel panorama israeliano di danza indipendente.
Nel lavoro We Love Arabs, insignito dai critici israeliani di danza del premio Outstanding Creator of 2013, emerge il senso della danza di un coreografo così talentuoso da rivelarsi “un pensatore originale e indipendente che sfida costantemente il suo pubblico con le sue percezioni uniche”. Sin dall’inizio Kogan dialoga con il pubblico sul significato che lui dà allo spazio e al movimento del suo corpo e di come avvengano continui cambiamenti tra lo spazio e il corpo, in quanto lo spazio a volte rifiuta il corpo di un essere umano come la quiete comune richiederebbe. Ecco allora che pian piano si inizia a parlare di pace e con grande maestria e delicata ironia viene affrontata la questione della presenza araba in Israele. Tutto ciò avviene attraverso un simpatico e sagace siparietto con l’altro ballerino, giocando con grande umorismo sulle origini israeliane e la propria provenienza da Tel Aviv scoprendo però che anche l’altro proviene dalla stessa città e non è mussulmano come lui pensa, bensì cristiano (divertente l’idea di contraddistinguersi, disegnando la stella di David sulla maglietta di uno e la mezzaluna del mondo islamico sulla fronte dell’altro).
Ogni pregiudizio viene a sgretolarsi come il muro che li divide e che tentano di rappresentare nell’immaginaria coreografia che stanno provando per un open air festival, il quale dovrebbe durare ben tre giorni in mezzo al deserto.
Dal muro si passa all’idea di identità e attraverso l’improvvisazione e la musica Adi dovrebbe rappresentare chi è e che cosa sente, cercando di far trasparire di più le proprie emozioni. Entrambi i performer passano poi a danzare insieme a degli oggetti di uso quotidiano come forchetta e coltello, creando un passo a due davvero intenso e particolare.
Ecco infine provare la terza parte del balletto dove si parla di responsabilità, in cui il simbolo dell’identità israeliana è dato dall’hummus (un piatto tipico arabo a base di ceci), che oltre a diventare sinonimo di liquidità dei movimenti, diventa costume, imbrattando i volti di entrambi i danzatori. Il palco si trasforma in un campo di battaglia, dove si disputa per la vittoria e la conquista dell’hummus, che diventa l’anello di unione di entrambi. Nel finale si trovano come in un sogno e le parole lasciano il giusto spazio alla danza, arrivando fino ai piedi del pubblico, che viene reso partecipe fino in fondo di questa idea di pace e unione, facendo assaggiare un po’ di hummus con dei pezzetti di pane azzimo. “La danza dialoga continuamente con frammenti di testi che invitano lo spettatore a guardarsi allo specchio e nello stesso tempo, con grazia e umorismo, lo conduce al cuore della danza stessa”.
Le musiche sono di Kazem Alsaher e Wolfgang Amadeus Mozart. I consulenti artistici sono Inbal Yaacobi e Rotem Tashach.
La maratona in danza è poi proseguita al Teatro Rossini con la prima assoluta in Italia di Forgot to love, un progetto nato dalla collaborazione tra i coreografi olandesi Uri Ivgi e Johan Greben, i quali collaborano insieme dal 2003 e hanno creato diverse opere per famosi corpi di ballo a livello internazionale.
Lo spettacolo dai toni duri e cupi, come evidenziato anche dall’uso delle luci e la scelta scenografica di lasciare le quinte a vista, vestite solo sui lati da coperte simili a sacchi di iuta appesi, prende corpo grazie ai danzatori del Provincial Dances Theatre ovvero Kseniia Kaplun, Kseniia Mikheeva, Ekaterina Savelyeva, Olga Sevostyanova, Tatiana Shchipko, Roman Borodin, Eugeny Kalachev, Anton Lavrov, Oleg Stepanov e Alexey Torgunakov.
Sinceramente resta nascosto e a volte alquanto incomprensibile il significato di determinate scelte coreografiche e narrative, che hanno reso soporifera l’opera specialmente nella seconda parte, nonostante la musica martellante.
All’inizio i vari ballerini disposti sul palco hanno alternato delle movenze convulsive a pose plastiche, dove ogni movimento diventa spasmo o attesa dalla velocità alternata.
Ciascun gesto o passo di danza, ballato sia in assolo che in perfetta sintonia di gruppo, ricorda espliciti riferimenti sessuali, in cui a volte i gemiti e i sospiri fanno da colonna sonora al balletto. Non ci sono molte piroette o prese da manuale, in quanto è il contatto fisico la parola chiave. Vengono sviluppate, anche se in modo disconnesso, tante situazioni diverse, dall’amore lesbico, omosessuale o bisessuale, all’amore violento o voyeur, dove riesce difficile pensare che sia la lotta umana nella ricerca dell’amore il tema centrale dello spettacolo. Seppur vero che “ogni giorno si creano relazioni di amicizia attraverso mezzi non fisici come Internet” e che “i contatti sono spesso basati su parole scritte con cura accompagnate da belle immagini che seducono e spesso conducono a incontri brevi e veloci ma immersi sempre nello stesso vuoto”, questo senso di smarrimento di veri contatti umani non è affatto venuto fuori e lo ha dimostrato anche il flebile entusiasmo mostrato dal pubblico presente, che ha regalato giusto qualche applauso di convenevole.
La musica è del compositore, musicista e sound designer indipendente Tom Parkinson, mentre l’ottimo disegno luci è stato affidato a Yaron Abulafia, che nel corso degli ultimi anni ha disegnato le luci per quasi 100 spettacoli di teatro, danza, installazioni, concerti e spettacoli televisivi a livello internazionale.
A chiudere la serata al teatro Annibal Caro di Civitanova Alta è stato, invece, Giulio D’Anna, originario di San Benedetto del Tronto, consacrato orami come uno dei più richiesti artisti internazionali, che dopo aver stupito e commosso tutti con Parkin’son.
Dal 1999 Giulio D’Anna ha accompagnato gli studi coreutici a quelli di medicina, naturopatia, tecniche di massaggio e theta healinge, ma solo nel 2003 si è dedicato alla danza contemporanea. Lavora come coreografo indipendente a cavallo tra i Paesi Bassi e l’Italia e molti suoi lavori sono stati selezionati per i festival di danza più famosi al mondo. Dal 2010 entra a far parte del progetto Matilde, piattaforma regionale per la nuova scena marchigiana un progetto di Regione Marche e AMAT.
In anteprima assoluta è stato presentato Cantiere aperto per R_ESISTERE, un dance-concert ancora non definito sul tema della resistenza politica, emotiva e fisica, che si basa su una collezione di ricerche e storie reali.
Come dichiarato dallo stesso coreografo marchigiano, “viviamo in un periodo in cui ci sono molti motivi per scendere in piazza e protestare. Combattere per un mondo migliore, un governo migliore, la scomparsa delle problematiche legate alle minoranze e l’accettazione… A prescindere da quali siano le battaglie che ognuno di noi sceglie, è possibile pensare all’atto di protesta, di rifiuto e critica come una parte essenziale e positiva della nostra natura umana? Possiamo guardare alla protesta come una preziosa possibilità al cambiamento e all’evoluzione?”.
I cinque performer sul palco, dalla evidente stazza e postura fisica differenti, hanno creato “un linguaggio teatrale che incarna il desiderio umano di far sentire la propria voce forte e chiara quando qualcosa di importante nella propria esistenza è in pericolo” e lo hanno fatto attraverso parole, sospiri e movenze non comuni e molto interessanti, che hanno trasmesso l’idea di non fuggire da nessuna parte e resistere a ogni genere di forza.
Il progetto è una produzione Nederlandse Dansdagen, Dansateliers Rotterdam, AFK C/O, Prins Bernhard Fonds, SNS reeal, Versiliadanza e Fabbrica Europa in collaborazione con AMAT & Civitanova Danza nell’ambito di Civitanova Casa della Danza, che è risultato vincitore Nederlandse DansDagen Premio di Maastricht 2013 ed è stato selezionato per Dans Elargie Theatre de La Ville a Parigi.
I danzatori sono Lana Čoporda, Miryam Mariblanca, Ana Ladas, Fabian Holle e John Taylor.
Concept, direzione e coreografia sono di Giulio D’Anna, la composizione musicale di Maarten Bokslag, il
set design di Jasper van Roden e l’assistenza alla direzione e produzione di Agnese Rosati.
Una serata degna di nota, che ha saputo regalare momenti di danza davvero alti per concludere in bellezza una ricca edizione di Civitanova Danza.