“Carmen” bella e originale al Macerata Opera Festival
di Alberto Pellegrino
29 Lug 2023 - Commenti classica
Allo Sferisterio una Carmen bella e originale, per la regia di Daniele Menghini, apre con successo il Macerata Opera Festival 2023. Nello spettacolo funziona tutto; bene gli interpreti.
(Foto di Marilena Imbrescia)
Non ci possono essere dubbi in merito: quella andata in scena quest’anno allo Sferisterio di Macerata è la Carmen di Daniele Menghini, il giovane regista, che aveva debuttato l’anno precedente con un innovativo Barbiere di Siviglia e che quest’anno apre lo spettacolo con un provocatorio Il cuore è uno zingaro di Nicola di Bari. Comunque, i conti tornano a suo favore, perché è proprio Siviglia il centro e il crogiolo di tre grandi miti moderni che sono appunto Figaro, Carmen e Don Giovanni presente quest’anno allo Sferisterio con il balletto di Johan Inger interpretato da Aterbaletto. Teorico di una “drammaturgia dell’immagine”, Menghini ha l’ambizione di tradurre le parole del libretto in immagini, perché ritiene che il teatro sia il luogo privilegiato dove lo sguardo esercita l’atto del guardare, dove s’incontrano istinti e ragione, ordine e disordine, controllo sociale e voglia di libertà.
La regia ha compiuto due scelte precise. Ha voluto eliminare ogni riferimento al folclore spagnoleggiante per collocare al centro della scena una Siviglia destrutturata, segnata da archi e lacerti di palazzi in rovina, mentre il sottosuolo è un carcere in mano al potere e la piazza è un arido luogo d’incontri e di scontri. Ha voluto richiamare alla memoria che lo Sferisterio è stato per lungo tempo un contenitore di corride e il toro morto che apre lo spettacolo vuole ricordare che “osservare dagli spalti la danza macabra tra uomo e bestia equivale un po’ a prendervi parte, perché l’arena nella sua crudezza è uno specchio che permette al respiro del pubblico di divenire un tutt’uno con quello del toro e del torero” (per questo la testa nera del toro diventa la cifra di lettura che lega l’intera azione scenica).
L’altra scelta è stata quella di eliminare la sensualità che ha sempre dominato il personaggio di Carmen per farne una eroina della ribellione, dell’istinto, della vitalità. Per Menghini Carmen è “il desiderio, la passione, la libertà, la vita nella sua accezione più naturale e meno razionale”; è una donna indipendente e fuori dagli schemi che rappresenta “quell’istinto che invita alla liberazione dalla logica, quell’animalità che invita alla liberazione dalla logica, dall’animalità originaria che ogni essere umano nasconde”. A sottolineare questa condizione esistenziale, il popolo che circonda Carmen è un popolo di maschere e soprattutto di Arlecchini che, sfuggendo alla ormai consueta citazione della Commedia dell’Arte, si richiama all’antico significato che aveva questa mitica figura come simbolica raffigurazione del demonio.
La prima chiave di lettura della messa in scena è la stregoneria, il fascino del diabolico che attrae come la bellezza delle fiamme che spesso guizzano sulla scena in un tripudio di fiaccole, oppure si sprigionano improvvisamente dal sottosuolo. Alla presenza inquietante dell’Arlecchino-demonio, creatura infernale che accompagna e commenta tutta l’azione scenica, si affianca una Carmen che appare per Don José strega e demonio dagli occhi neri pericolosi come quelli del toro, donna affascinante e trasgressiva in una società diffidente verso chi non vuole scendere a compromessi con l’ordine costituito. Nelle sue incursioni narrative (destinate a legare gli atti del melodramma) Arlecchino ci ricorda che “una vecchia leggenda zingara dice che il demonio si manifesta sempre allo specchio in questo modo obbliga chi gli sta davanti a guardarlo in faccia. Se la persona ritrae lo sguardo, allora il demonio esce dallo specchio e si porta via la sua anima. Se invece quella persona accetta di guardarlo negli occhi, nei suoi piccoli occhi neri, si salva”. Quindi è più facile chiudere gli occhi che guardare in faccia la realtà che “si presenta sempre con indosso una maschera. Gioca ad essere quello che non è. Solo attraverso questo gioco, diventa accettabile. Perché se la realtà si togliesse la maschera, sarebbe una tragedia”.
La secondo chiave di lettura è la parola amore, un sentimento terribile come il demonio (“Si ama solo nella misura in cui si desidera e si desidera solo ciò che non si possiede”) per questo l’amore diventa spesso tragedia perché si cerca invano di catturarlo perché non ha nome, forma e volto (“Il vero amore, quello che ti brucia nel petto come un fuoco, in realtà non ha parole che possano descriverlo”).
La terza chiave di lettura è quella libertà così difficile da trovare e da difendere: “Un vecchio detto zingaro dice che l’essere umano si è inventato la legge solo perché non riusciva a sopportare l’idea di essere libero. Per questo noi zingari siamo liberi. Perché abbiamo per legge solo il nostro istinto”.
Nel primo atto si consuma lo scontro tra la polizia simbolo del potere e le maschere rinchiuse con violenza nel carcere sotterraneo. Difficile da controllare sono le sigaraie che escono da un sottosuolo fumante come un inferno e la più ribelle è Carmen che rivendica la sua condizione di donna libera capace di attrarre Don José verso il suo drammatico destino.
Nella taverna di Lillas Pastia la scena è invasa da maschere festanti e da contrabbandieri vestiti da Arlecchini, i tavoli diventano il palcoscenico dove si celebrano danze e seduzioni, luogo deputato per il trionfale ingresso a cavallo di Escamillo e il trionfo finale della stessa Carmen che in sella al cavallo impugna il vessillo della Libertà, eroina che ha “per patria l’universo”.
Sulla montagna ritroviamo lo stesso mondo gitano con le sue magie e le sue ancestrali forme rituali (la statua della Vergine troneggia nell’accampamento dei contrabbandieri), un luogo dove si accendono improvvise fiammate diaboliche, dove Carmen legge nelle carte il suo destino di morte e sceglie come nuovo amore Escamillo, da dove Don José fugge disperato presso il letto della madre morente.
Ci si avvia al finale e con un colpo di teatro il palcoscenico si trasforma nella Plaza de Toros di Siviglia con un pubblico delle maschere assiso sulle gradinate, mentre nell’arena si celebra l’esaltante corteo di Escamillo, il divo trionfatore della corrida. Le modalità sono quelle di una processione laica con un altare portato a spalla, dove al centro troneggia la testa del toro illuminato da una miriade di candele, mentre intorno si scatenano giocolieri e sbandieratori, esplodono fuochi d’artificio.
Poi, improvvisamente, cala il silenzio e l’arena diventa un deserto: sulla sabbia, che ha accolto il rito sanguinoso della corrida, sta per celebrarsi l’ultimo rito di amore e morte. Carmen, una elegante siluette chiusa in un bellissimo abito nero, è sola con il proprio destino; non vuole ascoltare Frasquita e Mercedes che la implorano di fuggire lontano; vuole affrontare Don José che è ormai un uomo disperato e senza un futuro. Così Carmen morirà come è sempre vissuta, libera e fiera, “matata” come un toro nell’arena che s’incendia in un ultimo e rosso tripudio di fiamme.
Nello spettacolo progettato da Menhini funziona tutto: le scene di Davide Signorini, i costumi di Nika Campisi, le luci di Gianni Bertoli, le belle coreografie di Virginia Spallarossa, la drammaturgia di Davide Carnevali magistralmente interpretata dall’attrice Valentina Picello.
Bene gli interpreti: su tutti Ketevan Kemoklidze (Carmen) e Fabrizio Beggi (Escamillo), validamente affiancati da Roberta Mantegna (una raffinata Micaela), Andrea Concetti, Francesca Benitez e Alessandra Della Croce. Il tenore Ragaa Eldin è stato un Don José abbastanza incolore che non è riuscito a trasmettere quella passionalità e drammaticità che caratterizza il personaggio.
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Carmen di Georges Bizet
Opéra-comique in quattro atti
Libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy dalla novella omonima di Prosper Mérimée
In lingua originale con sopratitoli in italiano e in inglese
- direttore, Donato Renzetti
- regia, Daniele Menghini
- drammaturgia, Davide Carnevali
- scene, Davide Signorini
- costumi, Nika Campisi
- coreografie, Virginia Spallarossa
- luci, Gianni Bertoli
- drammaturgia dell’immagine, Martin Verdross
- assistente alla regia, Andrea Piazza
- assistente ai costumi, Anastasia Crippa
- assistente alle scene, Chiara Previato
- Don Josè, Ragaa Eldin
- Escamillo, Fabrizio Beggi
- le dancaïre, Armando Gabba
- le remendado, Saverio Fiore
- Moralès, Paolo Ingrasciotta
- Zuniga, Andrea Concetti
- Carmen, Ketevan Kemoklidze
- Micaëla, Roberta Mantegna
- Frasquita, Francesca Benitez
- Mercédès, Alessandra Della Croce
- un bohémien, Andrea Pistolesi
- une marchande d’oranges, Tina Chikvinidze
- attrice, Valentina Picello
- FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana
- Coro lirico marchigiano “Vincenzo Bellini”; Maestro del coro Martino Faggiani
- Pueri Cantores “D. Zamberletti”; Maestro del coro Gian Luca Paolucci
- Banda Salvadei
Nuovo allestimento dell’Associazione Arena Sferisterio