Capossela “Fino nel fondo della notte”


di Fernando Romagnoli

11 Ago 2013 - Dischi

Capossela, un viaggio nella grande musica, fino nel fondo della notte

Un irregolare, spirito anarchico e inquieto, un po’ zingaro, randagio, vagabondo, un po’ solitario, bohemien, “maledetto”; e poi ancora: schivo, ironico, “lunare”.
Questo è Vinicio Capossela, artista singolare, bizzarro, “patafisico”, sulle orme di Alfred Jarry, quasi un padre spirituale, come un altro Grande d’Oltralpe, Louis Ferdinand Celine, per tacere d’altri, John Fante, ad esempio, con la saga italo-familiare del suo eroe Arturo Bandini, che un po’ gli assomiglia; torneremo più avanti su queste parentele letterarie e spirituali.

Emiliano, ma nato ad Hannover, da genitori irpini (si noti fin da ora la sua natura “meticcia”, che sarà anche la sua “cifra” d’artista), cresciuto tra conservatorio e serate d’intrattenimento in bistrot, balere, pianobar e sulle navi da crociera, “narratore in musica”, come si definisce egli stesso, Capossela, “scoperto” da Francesco Guccini, ha scelto di abitare al riparo dalle mode, in un mondo appartato e personalissimo.
Un mondo “altro” e tutto suo, lontanissimo da quello, fasullo, della canzonetta ruffiana e preconfezionata e inedito, anche, rispetto al mondo poetico di altri artisti in musica. Le sue canzoni ci rapiscono ad un viaggio in un universo popolato di incontri, personaggi, storie, di vite “sbronze”, sregolate, precarie, di belle donne e postriboli, di profumi insinuanti di tango e di peccato, di alcol versato a fiumi, di divoranti passioni, di nostalgia, solitudine e malinconia, di quotidianità banale, infine, riscattata sempre dal soffio della poesia, che riesce a intrappolare il tempo che “sferraglia” e scappa, questa vita che va via:

Il cielo è fosforo
La terra è cenere
Sferraglia celere
Il treno e va
Sui bastimenti
Va la fanfara
La terra implora
Un altro brindisi

“L’ispirazione – ammette Capossela – è sempre la vita, la vera grande amante degli uomini. Quando la propria non basta si cerca di evocare le vite altrui”.

La sua musica meticcia e visionaria, saporosa, evocativa, è una specie di circo mariachi, un carrozzone di suoni, immagini, suggestioni, che coniuga mirabilmente passato e presente, cultura popolare e cultura cosiddetta “alta”:

“Suono le musiche che amo: le arie, i tempi binari di marce e marcette, la polka, il rebetiko”. E ancora: “Amo le musiche di origine popolare, perché sono vivaci, danno modo di fantasticare e hanno un immaginario molto ricco, a volte inquietante e poco definito. C’è spazio per i corvi, le cornacchie e il malocchio”.

Dalle marcette militari e dalle bande popolari alla canzone francese e alle citazioni colte; dalle orchestrine zigane e dalle filastrocche stralunate (di un grande innamorato del Tempo dei gitani di Kusturica e del Fellini de La strada) a soffici e melodiche armonie jazz; dalla poesia cupa e “notturna”, cruda, biascicata di un Tom Waits alle atmosfere raffinate, eleganti e demodé alla Paolo Conte; dalle travolgenti sonorità balcaniche ai vivaci ritmi sudamericani, con echi di Fred Buscaglione (sempre più grande, nel ricordo) sprazzi di esotismo, swing, ritmi di tempi lontani.

“Amo troppe cose. Sono un infedele, nella musica”.

Una musica, quella di Capossela, che potrebbe animare, indifferentemente, una colorita sagra paesana, una fumosa bettola di periferia, un night club o un festival jazz, senza smarrire niente della sua magia, e della sua malia. Una musica che possiede un timbro inconfondibile e il sigillo di uno stile, dettato dall’emozione, prima di tutto, soprattutto.
E’ tutto un mondo da scoprire. L’occasione per farlo(se altre ve le siete perse; l’esordio discografico è del 1990: “All’una e trentacinque circa”, Premio Tenco per l’opera prima) è l’uscita del suo ultimo album, “Canzoni a manovella” (vincitore del Premio della Critica al PIM, Premio Italiano della Musica), forse la sua opera più bella, partorita da una laboriosa gestazione di quattro anni.

Siamo una barca chiusa
nella bottiglia del bettoliere
fermi nel bagnasciuga
non ci spostano da sedere
il tempo è un alambicco
che piano piano ci cala a picco
nel ghiaccio in mezzo al mare
senza un messaggio da riportare
( )
canzone a manovella
per la coda della mia bella
serenata marinata
per la notte che se n’è andata
serenata di capodoglio
per il mio cuore chiuso sott’olio

“E’ un disco da anteguerra, di ambientazione continentale – ha affermato l’autore – non c’è niente di afroamericano, lo scenario va dal mar Baltico alle taverne di Salonicco. Sono i posti dove mi piace andare con un vagone notturno: il fascino della divisa, della vecchia Europa luoghi per uomini forzuti, botti di cannone e fuochi d’artificio”.

Atmosfere da chansonnier maudit e da folksinger intimista, voce rauca e strozzata, lievemente “etilica”, una gamma timbrica ed emozionale molto ricca e variegata:

Perse nel cielo
lungo la notte del mio cammino
sono le luci
che mi accompagnano
dovunque sto
una nel sole
per quando il sole
mi copre d’oro
una nel nero
per quando il gelo
mi vuole a sé
signora luna che mi accompagni
per tutto il mondo
puoi tu spiegarmi dov’è la strada che porta a me
forse nel sole
forse nell’ombra
così par esser
ombra nel sole
luce nell’ombra
sempre per me

E poi l’incredibile armamentario con il quale, nel suo laboratorio di artigiano, “una specie di officina di strumenti meccanici”, smonta e rimonta incessantemente i linguaggi della musica. Proviamo ad elencarli questi strumenti, così alla rinfusa, dando un’occhiata alle note di copertina del disco: pianoforte, contrabbasso, cannone, piano a rullo, grancassa, orchestra d’archi, fisarmonica, piano, piatti, batteria, woodblock, banjo, glonkespiel, clarino, clarone, tromba, trombone, tuba, granchivella, chitarra elettrica, chitarra solista, cymbalon, violino solista, ottoni, bottiglie
e poi ancora: rotopiano, chitarra sirena, sonar, fischio, banjolino, cassa a pedale, mandolino, armonio, bottigliofono, frusta, piano a muro, organo, pianofoni, rullo di Edison, piano giocattolo, tamburi, chitarra rumorista, bass stick, chitarra ritmica, clarino basso, coperchio, maracas, violino, violomba, conga, cineserie.
“Vi basta? Con questo per oggi termino”, avrebbe detto Bohumil Hrabal, il grande scrittore ceco che, con queste parole famose, regolarmente chiudeva i vari capitoli del suo memorabile romanzo “Una solitudine troppo rumorosa” (libro molto amato da Capossela, come anche dal sottoscritto). E li apriva, invece, con un incipit, un’altra frase delle sue, che potrebbe benissimo stare in bocca al Nostro: “Fate attenzione a quello che ora vi racconto”.
Nel disco, diciassette brani che danno vita a un racconto, appunto, affascinante, neorealista, romantico, struggente, malinconico, poetico, divertente; con l’artista che si affaccia dalla copertina incapsulato in uno scafandro, una “citazione” dal Jules Verne di Ventimila leghe sotto i mari. Ciò che colpisce e, srotolatesi le prime note, “incolla” l’orecchio all’apparecchio, è soprattutto l’atmosfera generale, il clima, la “temperatura” dell’album. E poi la caleidoscopica ricchezza di riferimenti, citazioni, suggestioni, il gusto di raccontare manovrando sapientemente e sapidamente le parole, le immagini, i suoni. La ricerca dei vocaboli è accurata e rigorosa; molti sono i rimandi interni, le corrispondenze, le assonanze, i giochi fonici e linguistici, spesso al limite del funambolico, del mirabolante, come ad esempio in Marajà, brano divertente, scoppiettante, trascinante, sul ritmo frenetico, incalzante di una marcetta.

E’ arrivato sul pallone con il botto del cannone
E’ arrivato sul treruote con la gotta sulle gote
E’ arrivato in aereostato coi forzuti del Caucaso
Sul Mercedes cabinato è arrivato il Marajà

Col monocolo e il ciclofono
va in rivista il Marajà
s’alza l’asta del ginnasta
quando passa il Marajà
si sollevano i manubri
dei sollevatori bulgari
si spara l’uomo cannone
quando passa il faraone
apre il mazzo anche il pavone
se lo chiede il Marajà

Io credo che enfatizzare o mitizzare un luogo, una persona, sia una cosa che mi riguarda molto da presso. Mi sento di essere molto vicino ad un certo tipo di cronaca e questo per me vuol dire cercare sempre di descrivere qualche particolare, quel rumore preciso, quella faccia là , oppure il ronzio del frigo. Fissare un’immagine in dettaglio e fare conseguentemente tutta una serie di nomi: ed è allora che un posto come il Florida (un locale citato nei primi dischi) tramite un procedimento di questo tipo, viene enfatizzato e sottratto alla distrazione

Non un raccontare dunque genericamente e universalmente, tipico di tanto cantautorato nazionale, si invece, come spesso nei suoi dischi, la nitida fotografia d’ambiente, il gusto per il frammento e per il dettaglio, l’essere conciso e concreto (con il ricorso, a volte, a lunghi elenchi nominali) venato sempre, in controluce di una sottile malinconia, di una triste gioia, di una magia modulata sul filo della nostalgia e dell’innocenza. Di questo suo narrare in musica I pagliacci costituiscono una superba e poetica esemplificazione:

un tempo ridevo soltanto
a veder l’incanto di noi
vestiti di piume e balocchi
con bocche a soffietto
e rossetto negli occhi

scimmie, vecchiette pazienti
e cavalli sapienti
sul dorso giocar
ridere era come amar

poi ripetendo il mestiere
s’impara il dovere di recitar
e pompa il salone il suo fiato
e il riso è sfiatato dal troppo soffiar
di creta mi pare il cerone
s’appiccica al volto
il mal del buffone
ridere vorrei stasera
ridere vorrei per me
( )
i trapezi ronzavano elettrici
uccelli di piuma di un mondo di luna
legati i compagni per mano
libravan da pesci
vicini e lontano
si sfioran d’un tratto i due bracci
appesi nell’aria
come due stracci
sul sangue buttarono rena
ed entraron di corsa i pagliacci

Niente elettronica, musica campionata o computerizzata, nessun flirt con le tecnologie d’avanguardia; si invece le vestigia di un mondo passato, come i vecchi pianoforti che giacciono “abbandonati”, “accasciati nella polvere”, a Lubecca:

Una notte sul canale di Lubecca
in una vecchia fabbrica di polvere da
sparo
lì giacciono nella polvere accasciati
i vecchi pianoforti
dalla guerra abbandonati,
cani senza più padroni
sull’attenti come vecchi maggiordomi,
e in quelle casse sorde e impolverate
giace lì il silenzio
di milioni di canzoni.

Abbiamo prima accennato a Verne, Jarry, Celine Ma il disco è un grande calderone:

“Ogni canzone – ha detto Capossela – è come un numero, ognuna fa il suo esercizio. E tutte sono ballabili, non resta che affittare il salone. Parlano di oggetti che fanno parte di una storia più vasta, è uno scasso di termini in disuso. Dentro ci sono Verne, Jarry, Primo Levi, i futuristi, i fratellini, celebri clown, e Ugo Facchini, l’uomo cannone”.

Un altro episodio-chiave della raccolta è in questo senso, Decervellamento (Capossela sostiene che “il disco gli è cresciuto intorno”).
Il brano che si snoda, anch’esso, su un ritmo da marcetta, è adattato da Chanson du decervelage (UBU ROI) di Padre Ubu, Alfred Jarry, appunto, lo scrittore francese fine-ottocento dalla vita eccentrica e sregolata, come quella dei suoi personaggi, e dalla ricerca espressiva che intreccia comicità , provocazione, lirismo.

Quando la domenica era bella
ci vestivamo a festa per andar
in via dell’Euchadè tanto per fare
contenti di veder decervellare
( )
Venite, vedete la macchina girar
Dal ricco ammirate la testa via volar

Jarry, dunque, fratello spirituale (“apprezzo il suo amore per il revolver e la bicicletta da corsa”). Ma a sorvegliare idealmente su tutta l’operazione è però lo spirito visionario, ulcerato, buffonesco di Louis – Ferdinand Celine, “che a me – ha detto Capossela – piace soprattutto nella fase finale della sua produzione, quando lascia le frasi a metà , Celine in esilio sulle spiagge del Baltico, Celine che ha raccontato il Novecento come nessun altro”.
La prima “canzone a manovella”, uno dei momenti più alti dell’album, è dedicata a lui, meglio, al suo alter ego, Bardamù, indimenticabile protagonista del Viaggio al termine della notte.

“E’ come se il disco appartenesse a quel modo di raccontare, perciò Bardamù ne è la bandiera: vado fiero di quella canzone, non sono più lo stesso da quando l’ho scritta. Rappresenta una specie di rivincita: Celine è l’autore che mi ha fatto sempre più male e adesso spero a mia volta di fare male a qualcun altro con quella canzone”.

Bardamù è un brano insieme divertente e struggente, colmo di strazio e disillusione, di un grande amore deluso dalla vita, di diffidenza a lasciarsi andare agli slanci del cuore, dell’incanto della purezza e della bellezza (“la bellezza salverà il mondo”, sembra esclamare Bardamù-Capossela, sulle orme di Dostoevskij) di una sottile, divorante tenerezza, di sogni calpestati e profanati. Qui, a soccorrere l’artista, arriva anche, tra gli altri strumenti, un cannone, per il coupe de teatre finale, pardon, per il coup de cannon, con tanto di fuochi d’artificio!

Per quanta scura
la notte è passata
e non lascia che schiuma
di birra slavata
e una spiaggia
e una linea di sabbia
e il fronte di un addio
gli altri si cambino l’anima
per meglio tradire
per meglio scordare
Bum Bum
BARDAMU’
Bum Bum Bum
BARDAMU’!

Corazzieri trapanati!
All’armi in fila! Agli aereostati!
Dirigibili all’idrogeno
nell’aria s’involano
e le ballerine in fila
danzano
danzano
leggere, leggere in tutù
leggere, leggere di più
della mia porcheria

Sparato tra gli astri in pallone
rigonfio di musica
solo al richiamo più lontano
voglio la notte
e la voglio senza luna

Ma niente canzoni d’amor
mai più mi prendano il cuor
la notte è passata e le nuvole
gonfiano schiuma di Baltico e cenere
e cenere avrò

C’è qui, sottolineato da un’orchestra d’archi (“molto particolari, aerostatici: sembrano cariche di cavalleria, leggeri e d’attacco”, ammette l’autore) arrangiati da Tommaso Vittorini, quel richiamo così tipicamente celiniano alla danza, alle ballerine che danzano leggere, figure simboliche, in Celine, oggetto di ditirambica, voluttuosa esaltazione, motivo di infatuazione e religione.
Sono esse, divinità eteree, in tutù, “la vera aristocrazia umana”, la possibilità di “ricreare sulla terra una specie di paradiso artificiale”.
La stessa temperie emotiva, solo più sfumata e raccolta, più giocata sui toni melanconici della lontananza, della privazione, dell’assenza, che il poeta maudit avverte tra sè, la sua voce supplice e indifesa, e il “mistero” della donna, incomprensibile e irraggiungibile, è in Solo mia. Si tratta di un canto tradizionale zigano, riarrangiato da Capossela sulle note accattivanti e nostalgiche dettate da chitarre, tromba, violino, maracas e dal contrabbasso di sua maestà Ares Tavolazzi:

Guardo il cielo che risplende
e mi chiedo dove sei cerco te
ma dove sei
dove sei dove sei

e anche il cielo che risplende
non mi dice dove sei
cerco te ma tu chi sei
tu chi sei, tu chi sei

pioggia, vento, triste gioia
anche in cielo vedo
cerco te ma tu chi sei
di chi sei, di chi sei

La donna, idolo insaziabile e adorato, è sempre là , in un magico e remoto altrove, come la vita. E l’anima, ebbra e torturata nel suo cammino bagnato di lacrime e vino, si abbandona a una naturale delicatezza da trovatore, da poeta popolare, nel farle omaggio di un fiore:

con una rosa hai detto
vienimi a cercare
tutta la sera io resterò da sola
ed io per te
muoio per te
con una rosa sono venuto a te
( )
come la porpora che infiamma il mattino
come la lama che scalda il tuo cuscino
come la spina che al cuore si avvicina
rossa così è la rosa che porto a te

lacrime di cristallo l’hanno bagnata
lacrime e vino versate nel cammino
goccia su goccia perdute nella pioggia
goccia su goccia le hanno asciugato il cuor

Suona Rosamunda, infine, un altro momento altissimo dell’album, intarsiata dalle note del violino di Edoardo De Angelis (vecchia conoscenza della canzone d’autore) che graffiano l’anima. Stupenda nel crescendo del suo andamento ritmico, nel suo tono amaro e struggente, e insieme accorato, appassionato, quasi un inno osannante alla vita agrodolce, ilaretragica, insieme fango e oro, luce e lutto, cenere e sole. C’è qui, in questa canzone, come in altre, più che in altre, il tono inconfondibilmente celiniano dell’evocazione visionaria, dell’emozione cruda, della spontaneità che si ubriaca.
C’è soprattutto, il furore di vivere, l’ ostinazione a voler vivere intensamente la vita, prima che ci minacci il peggio e che sopraggiunga traditora, l’età , quando del necessario capitale di delirio non resta niente più, dentro di noi (Cèline), prima della sclerosi del cuore.
La vita, giostra e ruota, nella sua miseria e nel suo splendore, benedetta e inseguita fino nel fondo della notte.
Come non tornare, con la mente, ancora al Voyage , a quello che è forse il libro più alto e straordinario di tutto il 900, con la sua superba, incomparabile, prodigiosa petite musique?

Suona la banda prigioniera
suona per me e per te
eppure è dolce nella sera
il suono aguzzo sul nostro cuor
cade la neve senza rumore
sulle parole cadute già

fino nel fondo della notte
che qui ci inghiotte e non tornerà
il passo d’oca che mai riposa
spinge la giostra spinge la ruota
con i bottoni e coi maniconi
marciano i suoni vengon per noi

Suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
nella cenere ancor
suona Rosamunda
suona che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere allor
si bruci il circo e si bruci il ballo
e le divise ubriache d’amor
che non ritorni più a luce il sole
che non ritorni più luce per noi
le marionette marciano strette
dentro la notte tornan per noi

suona Rosamunda

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