“Canti di Sardegna” di Mario Giulio Fara


a cura di Andrea Zepponi

25 Set 2023 - Libri

L’anno scorso è stato ristampato il volume Canti di Sardegna di Mario Giulio Fara. Per l’occasione pubblichiamo la recensione, a cura di Andrea Zepponi, che approfondisce la figura di uno dei precursori dell’etnomusicologia italiana.

Il volume che contiene la “ristampa anastatica” della raccolta Canti di Sardegna di Mario Giulio Fara (4 dicembre 1880 – 9 ottobre 1949) pubblicata nel 2022 da Carlo Delfino Editore di Sassari ha la prefazione a cura di Marco Lutzu e Myriam Quaquero che restituisce accuratamente il profilo professionale e artistico di uno dei maggiori precursori dell’etnomusicologia italiana: Giulio Fara, al contempo didatta, critico musicale e musicologo, può essere considerato, come scrive Diego Carpitella nel suo Profilo storico delle raccolte di musica popolare in Italia, edito nel 1973 in Musica e tradizione orale, un pioniere cui si deve un’approfondita formulazione ed elaborazione del concetto di etnofonia nel quadro dell’esperienza positivistica italiana. Gli sperimenti e studi che circolavano in Europa ai primi del ‘900 in seguito alle originali registrazioni di Béla Bartók dalle vive voci di canti popolari riecheggiavano in Italia nella ricerca musicale di studiosi come Fara.

L’ampia e dettagliata biografia stilata dai curatori di questo volume, lo descrive proveniente da una cospicua famiglia di Cagliari versata nel campo della musica: lo zio paterno aveva collaborato con Toscanini e quello materno aveva scritto alcuni melodrammi. Dalla sua Autobiografia fuoriescono i suoi disparati interessi e la sua formazione individuale, da autodidatta, realizzata in famiglia, al di fuori delle istituzioni ufficiali, che ne fanno una figura particolare, eccentrica e tendente allo sperimentalismo in campo culturale, una figura correlata al mondo musicale marchigiano perché fu per molti anni bibliotecario e segretario tecnico dell’allora Liceo Musicale “G. Rossini” di Pesaro, posto ottenuto in seguito a concorso.

Il “Liceo”, come veniva chiamato ancora nel 1923, all’epoca dell’arrivo di Fara, attraversava un momento particolarmente felice sia per l’istruzione musicale sia per l’attività concertistica grazie all’impulso dato anni addietro dalla possente – ma non indiscussa – personalità di Pietro Mascagni che era stato alla direzione dell’istituto pesarese. Nei suoi anni di dirigenza il celebre musicista livornese entrò in contatto e corrispose con varie personalità musicali della zona che si occupavano di composizione e di direzione orchestrale, tra cui Adelelmo Bartolucci di Pergola (1852-1938) e Augusto Massari di San Giovanni in Marignano (1887-1970).

Dopo l’era mascagnana (1895-1902), alla direzione del Liceo Rossini, nel 1905, era subentrato il poliedrico Amilcare Zanella (1873-1949) che vi rimase fino al 1940 e Giulio Fara collaborerà all’interno del centro musicale marchigiano fin quasi alla morte avvenuta a Pesaro nel 1949. La sua contemporaneità con Zanella è evidente. Anch’egli poliedrico nella sua attività professionale e artistica, fu sempre consapevole dei propri limiti e dotato di forti capacità critiche: non mise a frutto la buona voce di baritono che possedeva, se non in via teorica, ai fini della composizione vocale; seguendo la sua inclinazione alla drammaturgia compose un’opera teatrale nel 1910, Elia, e il libretto per il melodramma Domenico Santoro composto nel 1929 dallo stesso Zanella. Come si legge nella voce Treccani: “del suo spirito versatile è testimonianza la produzione artistica: novelle, libretti d’opera, drammi, scritti di storia, estetica e critica musicale”.

La sua principale attività fu quella di raccoglitore e studioso di canti popolari, in particolar modo della Sardegna, sua terra d’origine; in veste di studioso i contributi più rappresentativi del suo profilo di etnomusicologo e cultore della musica sono i saggi L’anima musicale d’Italia, Roma 1921, Unità di essenza e forma nella musica primitiva, in La Cronaca musicale, XIX [1915], 6-12, pp. 135-184, il Saggio di geografia etnofonica, in Il Folklore italiano, V [1930], 1-2, pp. 1-16, il contributo Unità di essenza e forma nella musica primitiva, in La Cronaca musicale, XIX [1915], 6-12, pp. 135-184 e molti altri scritti e studi citati nel link associato in calce.

Scopo principale della pubblicazione è quello di introdurre attraverso l’ampio saggio biografico introduttivo (pagg.V-XXIV) la raccolta completa finemente riprodotta nei tipi originali dei Canti di Sardegna pubblicati dalla casa editrice Ricordi nel 1923 in una collana dedicata ai canti popolari italiani elaborati per voce e pianoforte. Al testo di Lutzu e Quaquero segue la ristampa dell’edizione Ricordi di trentasette canti sardi preceduta dalla Prefazione di ventun pagine dello stesso Fara: qui egli profonde i suoi accenti appassionati alla ricerca di una musica dal carattere nazionale ed espone, con lo stesso stile, cenni della tradizione organologica sarda corredati da nitide illustrazioni di strumenti musicali. L’operazione editoriale ha l’innegabile pregio di restituire l’aura di fascinazione della novità editoriale della Ricordi che intendeva attingere allo spirito musicale regionale sardo anche tramite illustrazioni originali, sparse fra i trentasette brani cameristici dello spartito e raffiguranti scene popolari con momenti della pratica musicale sarda.

La Ricordi aveva avviato tra gli anni ‘20 e i ‘30 una collana di raccolte di musiche popolari trascritte o “rivisitate” da autori come Sinigaglia, Zanon, Bernardi, Montanaro, Masetti, Nataletti, Petrassi e pubblicato tre speciali miscellanee con canti di varie regioni italiane raccolti e rielaborati da Francesco Balilla Pratella. Notando l’afflato nazionalistico di questa operazione di silloge di canti regionali, i due curatori li iscrivono nel genere cameristico italiano di quegli anni dato che, salvo in rari casi, essi seguono “il gusto musicale della romanza da camera italiana coeva con una disinvoltura che lascia molte perplessità sulla precisione documentaria delle fonti e sulla loro trascrizione nella grafia della tradizione colta”.

Di rilevante interesse anche l’osservazione che “i cataloghi Ricordi di quegli anni fotografano la transizione verso il canto italiano da camera novecentesco: da essi spariscono molti titoli operistici e para-operistici ed entrano circa diecimila composizioni nuove, spesso aggregate in eterogenei album, appositamente concepiti per diverse destinazioni vocali con l’obiettivo commerciale di offrire la possibilità agli acquirenti di scegliere l’estensione più adatta alla propria vocalità: acuta (soprano/tenore), media (mezzosoprano/baritono) e grave (contralto/basso)”. Il modello di queste raccolte era quello della moderna romanza da salotto, rimaneva tuttavia la distanza di queste composizioni cameristiche dalla tradizione liederistica da Mozart a Wolf, “in primo luogo per la scelta di stile e di linguaggio delle antologie musicali italiane, artisticamente molto elementari rispetto a quelle mitteleuropee”, in secondo luogo perché “gli esiti di queste raccolte nostrane non sono paragonabili neanche alle ricerche realizzate da Béla Bartók e Zoltán Kodály, che si erano avvalsi di una conoscenza molto approfondita della musica popolare ungherese.”.

L’acume critico dell’edizione non ha nessun problema a osservare che Fara non riuscì a riprodurre con un’apposita notazione musicale le minuzie armoniche e melodiche e gli abbellimenti del canto idiomatico sardo dei suoi muttu e muttettus; inoltre, si poteva solo alludere con la scrittura pianistica alle peculiarità strumentali delle launeddas, i tipici zufoli pastorali. Di ciò egli era perfettamente consapevole.

Il cospicuo lavoro storico-critico dei due curatori si offre infine esso stesso come recensione encomiastica dell’opera di ristampa dell’editore Delfino che, a quasi un secolo di distanza dalla prima uscita dei Canti, restituisce la pregevole raccolta di Fara nella sua veste grafica originale con le litografie di Virgilio Simonetti. Proprio su questa linea di recupero della visione etnomusicologica di Fara si colloca la nostra posizione che apprezza il contributo storico del volume per una maggiore comprensione del profilo del musicologo il quale assume così un aspetto ambivalente configurando quasi un dittico ideologico: esso guarda da un lato a una raffinata forma di popolarismo tardoromantico di vecchio stampo e dall’altro alla modernità con il proprio metodo di lavoro che afferma più volte nel corso delle sue trattazioni la necessità di collaborare in équipe con esperti di altre discipline, archeologi, etnologi e glottologi. Al di là della collocazione di questo metodo nella temperie positivistica, il che non lo pone comunque su un piano di avanguardia, il merito di riscoprire la figura di Giulio Fara, in base a ciò che emerge da tutta la pubblicazione, rimette in luce la sua opera di traghetto dalla vecchia tradizione di studi sul folklore musicale italiano verso la moderna etnomusicologia e la sua fattiva partecipazione alla vita musicale contemporanea, come critico musicale e come docente interessato allo sviluppo dell’istruzione musicale in Italia.

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