“Boys don’t cry” della Compagnie Hervé Koubi a CivitanovaDanza
di Elena Bartolucci
8 Lug 2021 - Commenti danza
A CivitanovaDanza lo spettacolo “Boys don’t cry”: differenze e punti in comune nella vita e nella danza. Danza contemporanea e teatro si incontrano per creare un connubio perfetto con la Compagnie Hervé Koubi.
(photo credit Mirabel White)
Civitanova Marche – Venerdì 2 luglio continua il viaggio di CivitanovaDanza all’insegna della contemporaneità grazie alla Compagnie Hervé Koubi con lo spettacolo Boys don’t cry.
Gilberto Santini, direttore dell’Amat nonché direttore artistico di questa rassegna sulla danza, ha presentato con grande orgoglio la prima italiana di una coreografia sui generis firmata da Hervé Koubi e Fayçal Hamlat.
La serata era molto attesa non solo per il fatto di aver dedicato lo stesso cartellone della rassegna a questa compagnia ma anche per la formula particolare dello spettacolo in sé: l’energia dell’hip hop e del free style che si contaminano di racconti a più voci.
I due coreografi hanno tenuto a ringraziare in italiano il pubblico in sala nonostante non conoscessero bene la lingua. In una breve introduzione hanno spiegato le ragioni che si celano dietro all’ideazione di questo spettacolo. Fayçal Hamlat è stato un danzatore per ben 10 anni per Hervé Koubi e poi è diventato suo complice e compagno nella nobile arte della danza. Per realizzare questa creazione hanno scelto di lavorare sulle differenze e non tanto sui punti in comune che li legano in quanto entrambi algerini: la passione/l’odio per il calcio, la lunga/breve esperienza sportiva con il judo, la religione e la lingua.
Emblematica è senz’altro la scelta dell’ultima canzone in arabo intitolata Lik e cantata dall’artista Oum, il cui titolo significa “per te”, una dedica per il padre di Fayçal.
Per la prima volta in Italia, questa produzione francese ha saputo raccontare la danza in un modo del tutto diverso a quello a cui è abituato il pubblico civitanovese.
Costruito sulla base di un lavoro della scrittrice francese Chantal Thomas attorno a un’improbabile partita di calcio – terreno di “gioco” e di “danza” – Boys don’t cry, creazione 2018 di Hervé Koubi per sette dei suoi quattordici danzatori, è una riflessione sulla costruzione dell’identità in una società chiusa, attraverso momenti di testo parlato combinati allo stile caratteristico della compagnia.
Tutti i ballerini sono vestiti di bianco come il palco e i teli appesi alle quinte. Un ambiente quasi asettico che si anima però dell’energia e dei movimenti dei danzatori, molto diversi per potenza e corporatura, che dapprima hanno iniziato con dei movimenti leggerissimi avvinghiandosi l’un l’altro per poi dare libero sfogo a ogni genere di acrobazia. Seppur la coreografia sembra leggermente sgraziata e non molto precisa in alcuni punti dei vari scambi di passi a due, l’intero ensemble sul palco ha un forte potere magnetico accentuato maggiormente dalla forza dei testi recitati nella seconda metà dello spettacolo. A turno, infatti, ciascun danzatore recita un breve testo in francese (la cui traduzione è stata fornita gentilmente all’ingresso in teatro).
La stessa battuta di inizio Je déteste le football… j’aime la nuit. [n.d.t.:Il calcio, io lo detesto… mi piace la notte.] fa percepire che si tratta della storia di un ragazzo, che parte con il piede sbagliato agli occhi della società maschilista in cui vive. Ama la notte perché nei suoi sogni può danzare liberamente, senza sentirsi costretto a giocare a pallone, omologandosi a tutti gli altri ragazzi della sua età che non fanno altro che bullizzarlo. Vano è persino il tentativo del padre di iscriverlo a judo per fargli imparare a difendersi.
«Un jour Papa tu seras fier de moi. Malheureusement ce jour n’est pas arrivé. Aujourd’hui tu n’es plus là. T’es parti trop tôt papa. Il semblerait que le Bon Dieu t’a appelé plus tôt que prévu. En tout cas c'est trop tôt Papa. C’était trop tôt pour maman aussi, trop tôt pour moi aussi. Trop tôt. Il paraît que je ressemble à mon père comme deux gouttes d’eau. Quand on a la chance de faire don de la vie et d’être parent donc, on ne meurt jamais vraiment. C’est peut-être ça la vie éternelle. Dans certaines cultures, on danse pour les morts. Non pas parce qu’on est content que la personne morte soit partie mais parce que la Danse est tellement importante que pour rendre hommage à celui qui part, on danse pour lui. Il est donc possible du vivant de s’adresser aux morts, aux disparus, comme une main tendue, une main tenue pour garder ceux qui ne sont plus là avec le monde des vivants. Et puis après tout, je suis là moi, je suis là pour toi papa. Je suis dans tes pas mais moi c'est en dansant. Pour moi je me sens vivant tout simplement quand je danse. Pour moi danser c’est la vie». [n.d.r.: Un giorno papà sarai fiero di me. Quel giorno purtroppo non è mai arrivato. Oggi non ci sei più. Te ne sei andato troppo presto, papà. Sembra che il buon Dio ti abbia chiamato prima del previsto. Troppo presto comunque, papà. Era troppo presto anche per la mamma, troppo presto anche per me. Troppo presto. Sembra che io e mio padre ci assomigliamo come due gocce d'acqua. Quando hai la possibilità di donare la vita ed essere un genitore, non muori mai davvero. Forse è quella la vita eterna. In alcune culture, si danza per i morti. Non perché siamo contenti che la persona morta se ne sia andata, ma perché la Danza è così importante che per rendere omaggio a chi se ne va, balliamo per lui. Quindi è possibile per i vivi rivolgersi ai morti, a chi non c’è più, come una mano tesa, una mano offerta a chi non abita più nel mondo dei vivi. E dopo tutto, sono qui, sono qui per te, papà. Seguo le tue orme ma lo faccio danzando. Quanto a me, mi sento vivo solo quando danzo. Danzare per me è la vita.]
Che cosa significa quindi scegliere di diventare ballerino quando sei un ragazzo, specialmente quando provieni da Paesi dove la differenza di genere pesa ancora tanto sul proprio destino?
Lo spettacolo gioca quindi sul cliché del giovane uomo che preferisce la danza agli sport tipicamente “maschili” come il calcio o il judo e sulla tensione che questa scelta può causare con la famiglia.
Boys don’t cry è uno sguardo, allo stesso tempo serio e giocoso, sul diventare adulti in un contesto sociale ancora molto chiuso. Lodevole quindi è il messaggio sulla libertà di essere se stessi al di là di ogni condizionamento che entrambi i coreografi sono riusciti a far passare attraverso la loro creazione.
La storia stessa della compagnia è legata alla biografia del suo fondatore, Hervé Koubi. Di origine algerina, dottore in farmacia e biologo, ha proseguito la sua formazione come ballerino e coreografo presso la Facoltà di Aix Marsiglia. Formatosi all’International Dance Centre Rosella Hightower di Cannes, poi all’Opera di Marsiglia, ha lavorato con diversi dei nomi più importanti nel campo della danza. Nel 1999 entra a far parte del Centre Chorégraphique National de Nantes e collabora poi con Karine Saporta al Centre Chorégraphique National de Caen e Thierry Smits Compagnie Thor a Bruxelles. Nel 2000 Hervé Koubi crea il suo primo lavoro, Le Golem. Da allora collabora con Guillaume Gabriel per tutte le successive creazioni: da Ménagerie (2002) a Les abattoirs, fantaisie… (2004), a Moon Dogs (2007). Nel 2009 lavora con la Compagnie Beliga Kopé della Costa d’Avorio alla creazione del lavoro Un rendez-vous en Afrique. Quel progetto segna un punto di svolta per Koubi. A partire dal 2010 comincia infatti a lavorare con un gruppo di dodici ballerini algerini e burkinabé che rappresentano l’embrione della futura Compagnie Hervé Koubi. È per e con questo gruppo di ballerini che creerà tutti suoi successivi lavori: El Din (2010-2011), Ce que le jour doit à la nuit (2013), Le rêve de Léa (2014), Des hommes qui dansent (2014), Les nuits barbares ou les premiers matins du monde (2015-2016), Boys don’t cry (2018), Odyssey (2019-2020).
Il testo di questo spettacolo è di Chantal Thomas e Hervé Koubi, i danzatori in scena sono Adil Bousbara, Mohammed Elhilali, Zakaria Ghezal, Bendehiba Maamar, Mourad Messaoud, Houssni Mijem ed El houssaini Zahid, mentre la musica è di Diana Ross, Oum e canti tradizionali russi. La creazione musicale è firmata da Stéphane Fromentin, gli arrangiamenti da Guillaume Gabriel, le luci da Lionel Buzonie e i costumi da Guillaume Gabriel.