Boris Eifman a Venezia
di Marco Ranaldi
2 Apr 2011 - Commenti classica
VENEZIA. Nel gran calderone del Carnevale veneziano 2011, Il Teatro La Fenice ha ben pensato di riservare una serata alla danza, magnificandola con una rara presenza italiana, quella della compagnia del russo Boris Eilfman. Nella discreta cornice del Teatro Malibran, Eilfman presenta il suo personale Gala di Danza, che al contrario del classico galà , ci presenta tutta l’arte innovativa e contemporanea del maestro. Eilfman infatti, non è nuovo a stupire, a correggere il tiro di tanta prosopopea classicistica che nel mondo della danza è ancora così radicata. Il suo intento è proprio quello di scalfire la maestosità di quel mondo per provare ad usare linguaggi contemporanei, utili a restituire la credibilità di una forma d’arte. Eifman non incanta, colpisce, non racconta il romanticismo, lo stravolge, fa crollare il magnifico castello del principe per riportare il tutto nella realtà dei sentimenti, dalle angosce alle passioni più forti che sono alla base dei rapporti umani. Nel suo personale galà , la matrice è naturalmente quella classica, la base nasce dalla tradizione e, come tutti gli innovatori, decodifica messaggi, li arrangia per rendere il tutto inossidabile al cambiamento dei tempi. à sicuro che però ogni sua costruzione, muovendo dalla tecnica classica, utilizza come motore primario la musica di Caikovskij, l’immortalità dell’autore sovietico più contemporaneo che ci sia stato nei suoi tempi. D’altronde Caikovkij è alla base della musica sovietica, così come Bach lo è di quella occidentale. Da questa coscienza nascono i numeri del Galà , frammenti di spettacoli più grandi che donano l’idea di come sia progredita la creatività contemporanea. Proprio dalla semplicità delle difficoltà , dalla base di un lavoro fatto in sordina, senza una sede dove provare, distaccandosi dalla tradizione delle scuole, Eifman usa il suo Caikovskij per scandagliare l’animo umano, tanto da dedicargli un intero balletto, di cui a Venezia rappresenta una suite, intensa, forte, caduca. Reinventa il mito di Giselle, la colora di rosso, ideale e simbolico. Usa Beethoven (e non solo) per riportare il dramma dell’eterna domanda esistenziale, dell’essere o non essere, in un campo amletico, così come osa scannerizzare il mito del Don Chisciotte di Ludwig Minkus, caposaldo del balletto romantico: è un ospedale di pazzi, di folli quello in cui i vari personaggi si muovono, ironicamente. Ma il passo forte della tragedia umana, la magnificenza della coniugazione dei vari linguaggi, Eilfman la ottiene in due balletti chiave della sua opera, in due sintesi, quella dell’Onegin e quella della Anna Karenina, due icone sacre della letteratura sovietica. Bene, lui che viene dalla Siberia, che conosce la sofferenza e la continua presenza del dolore, riesce a rappresentare la forza dell’animo umano in tutte le sue sfaccettature: usa il corpo come pochi lo sanno fare, lo anestetizza, lo ipnotizza, crea un mostro che si muove come fosse una statua di ghiaccio, come se fosse un burattino. Inserisce elementi del rock, sfonda le scene con luci che non rassicurano, destabilizza con le forti passioni dei due protagonisti, la seconda, la Karenina, rappresentata nel suo gesto estremo del suicidio sotto un treno e la liberazione dell’anima, il colore bianco e il colore nero. Applausi lunghissimi, sentiti per la genialità di questo maestro del corpo, innovatore senza fasti e forte analista della specie umana, attento ad unire i sentimenti ai movimenti del corpo. La sua arte è contemporanea e salva quello che moltissime volte oggi sfugge a molti, cioè la ricerca della propria personalità e della propria spiritualità .