Bellissima “Antigone” di Sofocle ad Ascoli Piceno per TAU
di Flavia Orsati
1 Ago 2020 - Commenti teatro
La storia di Antigone – favola in musica per cornacchie, cani selvatici, maledizioni, tiranni, sepolcri & fanciulle in fiore – è andata in scena per TAU – Teatri Antichi Uniti, nel Teatro Romano di Ascoli Piceno.
La tragedia di Antigone, scritta da Sofocle e portata in scena per la prima volta nel 442 aC, continua a riecheggiare e a porre interrogativi anche all’uomo moderno. Definita “donna sola contro il potere” o “donna sola contro la tirannide”, la storia destò l’interesse, tra gli altri, di Hegel e della scrittrice scozzese Ali Smith, che decise di farne una riscrittura in forma di “favola canzonatoria”, scegliendo come narratrice d’eccezione una cornacchia che, appollaiata su una delle sette porte di Tebe, assiste impassibile e divertita alle annose vicende umane.
Il personaggio di Antigone incarna il conflitto tra leggi divine e leggi umane, la lotta alla tirannide e, per certi versi, l’ineluttabilità del fato. Tale opposizione è stata portata in scena, ancora una volta, il 23 e 24 luglio ad Ascoli Piceno, nella cornice del Teatro Romano per il TAU – Teatri Antichi Uniti, su regia di Roberto Tarasco, voce narrante di Anita Caprioli e musiche di Didie Caria, forse in alcuni momenti eccessivamente contemporanee e tese a stemperare un’atmosfera, di per sé già ironica, che si innesta sulla magnificenza e sull’immortalità del mito classico.
Man mano che la voce di Anita Caprioli riferisce ciò che la cornacchia vede sotto di sé, si sbroglia l’antefatto della vicenda: Antigone è la figlia del celebre e sfortunato Edipo, abbandonato in tenera età dai suoi genitori poiché un indovino predisse loro che il figlio avrebbe sposato la madre Giocasta e ucciso il padre Laio. Tuttavia, i greci lo sapevano bene, il volere degli dei è ineluttabile, e in effetti la profezia si avvera: Edipo viene a sapere del nefasto vaticinio e, per allontanarsi dai suoi genitori che risiedevano a Corinto, si reca a Tebe. Durante il viaggio, per un diverbio, uccide il padre, non conoscendo ovviamente la sua identità. Giunto a Tebe, riesce a salvare la città dall’ira della Sfinge risolvendo il famoso indovinello; il re Creonte, in segno di riconoscenza, gli concede in sposa sua sorella: Giocasta. Da questo matrimonio incestuoso nasceranno quattro figli, due maschi e due femmine: Eteocle e Polinice e Antigone e Ismene. La catena di morti sembra inarrestabile perché Giocasta, una volta scoperta la verità, si uccide per la vergogna ed Edipo, strappandosi gli occhi, si reca in esilio. Eteocle e Polinice si contendono il trono, uccidendosi a vicenda in un duello con la spada.
Creonte diviene nuovamente re e decide di lasciare il corpo dell’usurpatore Polinice (il fratello minore) a marcire, alla mercé delle intemperie e degli animali selvatici, non concedendogli giusta sepoltura. Fatti strani da comprendere, per una cornacchia, che contempla dall’alto, distaccata dalle vicende umane, la battaglia fratricida appena terminata. Ecco, però, che spuntano due bambine, ben vestite: “Apparterranno sicuramente alla famiglia reale”, pensa tra sé il pennuto, poco prima di riconoscerle: sono Antigone e Ismene. Antigone vuole seppellire degnamente suo fratello, non riuscendo però a convincere la timorosa sorella Ismene, che non vuole disobbedire a suo zio, al re e, soprattutto, alla legge. Antigone è irremovibile: “Meglio morta che sottomessa a questa legge!” e decide così di intraprendere l’impresa da sola. Frattanto, gli anziani di Tebe sono sconvolti dalla decisione di Creonte e una guardia, forse non troppo ligia al suo dovere, riferisce che qualcuno ha riversato della terra, del vino e dei petali di fiori sul corpo di Polinice: un chiaro tentativo di rito funebre.
Ovviamente Creonte, dal canto suo, non accetta che quella ragazzina, che non rinnega il suo gesto, non si sottometta al suo volere: la incatena e decide che patirà, insieme a sua sorella Ismene, la peggiore delle morti. Antigone è ferma sulle sue decisioni, convinta che l’umano non possa avere valore nei confronti del divino: “Non sei un dio. Quel che dici non ha valore quando si tratta dei morti. Sono disposta a morire per mio fratello morto”, così come sa che la città è, in fondo, dalla sua parte: “Tutti qui sanno che hai torto, solo che hanno troppa paura a dirlo”. Ora, anche una cornacchia riesce ad evincere come la legge degli uomini sia fallace e relativa: “Era un traditore, non era un fratello quello!”, incalza Creonte; “Era mio fratello, per te era un traditore!”, ribatte lei. E i paradossi continuano anche nel dialogo tra il re e il figlio Emone, promesso sposo di Antigone, che, al venire a conoscenza dell’accaduto, appare calmo: “Sei mio padre. Farò sempre ciò che tu dici. Ma è possibile che ci siano anche altri modi di vedere le cose, e può essere che quei modi siano giusti”. Creonte, destabilizzato per la pacata risposta del figlio, precisa che non la sposerà mai viva: “Bene, la sposerò morta allora. Perché se la uccidi, la sua morte porterà altre morti. Lei sarà morta e tu all’inferno”.
Il tiranno allora, su consiglio degli anziani, decide di risparmiare Ismene e, riguardo Antigone, di non ucciderla direttamente ma di rinchiuderla in una grotta, lasciandola perire di inedia senza macchiarsi le mani di sangue. Gli orribili fatti che seguiranno vengono profetizzati dalla ragazza stessa: “Io non avevo altri fratelli che Eteocle e Polinice. Ora non mi sposerò mai e non avrò mai figli. Ma va bene così. Se questo non è però giusto auguro agli altri la mia stessa sorte”. La processione verso la rovina inizia e, sulla terra ormai desolata, la cornacchia vede qualcosa: un pezzo di stoffa rosa che Ismene aveva dato ad Antigone da infilare tra il polso e la catena per non farla ferire, “davvero un’ottima imbottitura per il mio nido!”, pensa l’uccello.
Poco dopo, la stessa processione è di ritorno ma senza la giovane donna. Tiresia, l’indovino, facendosi interprete del volere degli dei, annunciato da una nube di neri corvi, entra in scena vaticinando terribili catastrofi per questo atto contro natura: tende la mano e la cornacchia sa precisamente cosa fare, planandoci sopra, nero contro bianco. A questo punto, gli anziani pregano Creonte di ascoltare il vaticinio e di ripristinare il normale ordine delle cose, liberando la ragazza e mettendo il morto a dormire. Il sovrano, sempre più vacillante, permette a Emone di andare a liberare Antigone. È troppo tardi: la donna si è uccisa e il suo suicidio dà avvio a un’ulteriore catena di morti. Il ragazzo si toglie la vita e lo stesso fa Euridice, madre di Emone e moglie di Creonte. Il re, alla fine della tragedia, rimane totalmente solo e disperato, punito ferocemente per la sua hybris. Antigone, nata da un’unione contro natura, porta su di sé il peso del destino avverso che le hanno lasciato in eredità i suoi genitori. Ma, del resto, sono cose troppo prive di senso per una cornacchia che chiosa, rivolgendosi ai suoi piccoli: “e morirono tutti felici e contenti”.