“Aureliano” e il fortepiano al ROF


di Andrea Zepponi

17 Ago 2023 - Commenti classica

Regia di Mario Martone, direzione dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini di Georghios Petrou, cantanti tutti in grazia, hanno fatto, di questa Aureliano in Palmira, al Rossini Opera Festival, una rappresentazione di grande suggestione e foriera di nuove interessanti soluzioni per il teatro lirico.

(Ph Amati Bacciardi)

Figuriamoci se non è consono allo statuto interiore di noi melomani vedere uno strumento musicale sul palcoscenico che diventa parte della scenografia. Fosse per me, visto l’attuale panorama “scenoregistico”, metterei sul palco l’intera orchestra, gli interpreti con i loro costumi di scena, tutti allineati in un allestimento essenziale in una forma semiscenica, anzi di concerto.

La regia di Mario Martone, allestita alla Vitrifrigo Arena il 12 agosto alle ore 20, ha riproposto il suo apparato per l’Aureliano in Palmira del 2014, ma questa volta, al posto del “clavicembalo”, segnato ancora come tale nelle sue note di regia, c’era un fortepiano e la fortista Hana Lee si produceva in alcune movenze sceniche di contorno, quando non era impegnata allo strumento per i recitativi. Questo, anziché confondere il pubblico, – finalmente, o numi, un po’ di chiarezza! – lo induceva a una riflessione, anzi a una deduzione che ha del sillogistico: se uno strumentista può diventare personaggio, chissà quanto ne guadagnerebbe la scena lirica facendo salire tutti gli strumentisti sulla scena per configurare quanto avviene nella vicenda narrata del libretto resa “palpitante dalla musica e dal canto”. Mutatis mutandis lo fece Ronconi nel suo Viaggio a Reims del 1984 quando pose accanto a Samuel Ramey un flautista virtuoso: ma allora protagonista era sempre la musica. La centralità dei recitativi per un regista che vuole trattare un’opera lirica seria di Rossini sull’aulico libretto di Felice Romani come il teatro di Shakespeare con la sua scenografia verbale, veniva così sottolineata per rappresentare “la fusione di tutti gli elementi dell’opera”: secondo questa linea di pensiero l’attinenza con il prismatico drammaturgo inglese andrebbe scorta, secondo le anticipazioni del regista in videoconferenza alle ore 12 al Teatro Rossini, nel fatto che la sinfonia dell’Aureliano è la stessa del Barbiere di Siviglia e ciò farebbe colare quella sfumatura ambivalente di comico e di tragico che si ravvisa in certo teatro di prosa elisabettiano. Ma la sinfonia è suonata dall’orchestra, il Barbiere nel 1813 non esisteva ancora e la musica rossiniana è astratta per natura ed elezione. Di qui a vedere nel recitativo, il momento dinamico propulsore dell’azione che più ricorda la prosa, il passo è breve, tanto da indurre la “scenoregia” a scollare il fortepiano dalla compagine strumentale. Insomma, se tanto mi dà tanto, quasi un incitamento alla forma di concerto corroborato dalla nuda essenzialità delle scene allusive di Sergio Tramonti che, sull’ampio palcoscenico della Vitrifrigo, presentavano uno sfondo di proiezioni con vaghi paesaggi desertici, qualche sagometta di palmizio nel second’atto e allusioni ai diversi ambienti indotte da tendine color sabbia opportunamente calate a finger nel pensiero parvenze perimetrali di tempio, labirinto, prigione, antico castello, vaste stanze sotterrane e reggia: scena fissa insomma; per l’amena collina sulle sponde dell’Eufrate è bastato ritirare il tutto e far entrare “magiche” capre, come le definisce il regista, predilette nei suoi lavori fin dal cortometraggio Pastorale cilentana a Capri-Revolution. In fondo per Martone la sostanza dell’opera consiste in ciò che i personaggi pensano intimamente nei loro rapporti privati. Cromaticamente pareva di stare dentro una tazza di thè con filtri che venivano a tratti immersi, a tratti ritirati; se non fosse stato per i costumi di Ursula Patzak, che davano una sferzata di colori e di forme identitarie, senza attualizzazioni troppo evidenti – ma i pastori con scope e pattumiere odierne, i soldati romani con anfibi?-, si sarebbe detto che solo alla centralità del fortepiano come oggetto scenico venisse demandato il simbolismo dell’“azione concettuale”; e invece no. La sontuosità fors’anche retorica dei costumi e la loro più o meno osservata pertinenza all’epoca richiesta dal libretto riaffermavano l’essenzialità del canto e degli interpreti nella esecuzione, per cui ci si chiede se questa edizione, al di là del suo portato ideologico sulla difesa dei valori di un Oriente oppresso, non intenda ricollocare anche concettualmente al loro posto i cantanti sulla scena e restituire alla loro piena dignità gli esecutori musicali. Non si rinuncia neppure al teatro classico (rivisitato in chiave ecologicamente corretta) esibendo il sacrificio di un agnello sgozzato nella prima scena del tempio, colpa tragica che così giustifica la sconfitta dei palmireni; passi pure il discorso finale di riaffermare la verità storica per cui Zenobia non si sottomise mai al potere di Roma contrariamente al finale dell’opera in cui ella lo fa per amore di Arsace, anche se Rossini e Romani non volevano fare certo storiografia; insopportabile e irritante è invece una scenografia che si impone come didascalia: quanto di più antiprofessionale può esserci per una scenoregia, il cui compito è rappresentare tramite gestualità e oggetti – che potrebbero avere una valenza antifrastica rispetto al libretto – pretendere d’istruire il pubblico (pensato sempre come ignorante) con una serie di scritte proiettate sul telone calato per coprire lo sfondo e incombente sul finale statario.

Per venire ai cantanti, la sera della prima, erano tutti in grazia e il successo c’è stato eccome. Il tenore Alexey Tatarintsev (Aureliano) non ha quella che si dice in genere una vocalità eroica, ma la zona medio grave eloquente e l’assottigliamento acuminato di quella alta denotano un consapevole stile rossiniano e un sapiente uso dei registri; sicuro nella gestualità vocale ha onorato la presenza tenorile nell’opera accanto a tanta dovizia di virtuosismo belcantistico rappresentata da Zenobia e Arsace; notevole presenza vocale e scenica quella del tenore Sunnyboy Dladla (Oraspe) come secondo tenore dalla grana vocale più robusta; il basso Alessandro Abis (Gran Sacerdote) ben timbrato e incisivo nella sua faticosa aria di sortita Stava, dirà la terra; amatissime dal pubblico il soprano Sara Blanch in Zenobia e il mezzo Raffaella Lupinacci nel ruolo en travesti di Arsace, hanno conquistato la platea con un affiatamento vocale e teatrale di rara intimità: i duetti amorosi innestavano un crescendo di quella tenerezza vocale tanto cara all’estetica del primo Rossini che culminava nel Mille sospiri e lacrime del second’atto; nessun appunto sull’espediente tecnico impiegato dalla Blanch di una ben gestita “intubazione” per produrre suoni medio gravi senza forzare la zona di petto – figura e voce ricordano leggermente la Lucia Aliberti – e per avere risorse pronte negli acuti fluviali e correnti che lampeggiavano ogni tanto per ricordare la regina guerriera. La Lupinacci stupisce per la facilità e potenza negli acuti – un Falcon dietro l’angolo? –  e per l’equilibrio tra registro grave e medio sempre sorvegliato in una parte dove la grande estensione è la cifra più in vista della parte scritta in origine per un evirato: la varietà di fraseggio dinamico nella grande scena pastorale del secondo atto Dolci silvestri orrori ha convinto ulteriormente sulla duttilità e saldezza delle qualità ben dirette e proiettate. All’altezza dei vertici belcantistici dei protagonisti erano le parti di fila: il mezzo Marta Pluda (Publia) con la sua floreale emissione nell’aria di sorbetto Non mi lagno che il mio bene, ha fatto culminare un’ottima presenza scenica e vocale protrattasi per tutta l’opera, il basso Davide Giangregorio, un ben pronunciato Licinio, e il baritono Elcin Adil (un Pastore) si conferma come preziosa risorsa del festival rossiniano.

La direzione del M° Georghios Petrou sul podio dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini ha privilegiato, come da sue dichiarazioni fatte durante l’incontro al Teatro Rossini il giorno stesso alle 12, i tempi elegiaci e chopiniani dell’opera, ammorbidendo la concitazione dei crescendo e della tempistica più frenetica: il tono pastorale, favorito dalla scenografia, ha contagiato l’impasto orchestrale muovendo l’esposizione dei timbri dei fiati, mentre l’efficacia dei momenti d’assieme non mancava di quella magniloquenza richiesta da un’opera seria: soprattutto nel finale del primo atto e nei terzetti dove qualche imprecisione si è fatta sentire, mentre nella sinfonia si attribuiva alle percussioni il compito di sottolineare il clangore dovuto al genere serio. La pastoralità e l’elemento bucolico sbucano dalla tessitura librettistica nella scena quinta del second’atto con il coro di pastorelle e pastori sulle sponde dell’Eufrate, L’Asia è in volta: è un momento corale profetico e antesignano del Va pensiero di Verdi, dove però la visione della libertà e bontà campestre sa ancora troppo di naturalismo francese, acuito dalle presenze caprine. Ottima, specie in questo punto di effusione corale, la gestione impeccabile del Coro del Teatro della Fortuna da parte delMaestro Mirca Rosciani.  

Non molto altro da dire sulle luci di Pasquale Mari se non che assecondavano le tinte aride del paesaggio desertico su cui si svolgeva lo scontro-incontro dei popoli e quello umbratile labirintico della trama di palpitanti affetti privati.

Alla fine, gli ingenti applausi per gli interpreti sono andati implicitamente anche agli artefici di uno spettacolo (Martone assente) le cui intenzioni registiche sono comunque gravide di nuove soluzioni per il teatro lirico indipendentemente da come esse siano state realizzate. 


Vitrifrigo Arena – 12, 15, 18 e 21 agosto, ore 20.00

Aureliano in Palmira

  • Dramma serio per musica in due atti di Giuseppe Felice Romani
  • Musica di Gioachino Rossini
  • Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Daniele Carnini e Will Crutchfield.
  • Direttore GEORGE PETROU
  • Regia MARIO MARTONE
  • Scene SERGIO TRAMONTI
  • Costumi URSULA PATZAK
  • Luci PASQUALE MARI

Interpreti

  • Aureliano ALEXEY TATARINTSEV
  • Zenobia SARA BLANCH
  • Arsace RAFFAELLA LUPINACCI
  • Publia MARTA PLUDA
  • Oraspe SUNNYBOY DLADLA
  • Licinio DAVIDE GIANGREGORIO
  • Gran Sacerdote ALESSANDRO ABIS
  • Un Pastore ELCIN ADIL
  • CORO DEL TEATRO DELLA FORTUNA
  • Maestro del Coro MIRCA ROSCIANI
  • ORCHESTRA SINFONICA G. ROSSINI

Produzione 2014, riallestimento

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