“Attila” al Teatro delle Muse di Ancona
di Alberto Pellegrino
10 Ott 2022 - Commenti classica
Con l’Attila di Verdi si celebrano i venti anni di rinascita dell’anconetano Teatro delle Muse. Ottimo il cast musicale. Buona intuizione della regia ma discontinua.
(Fotografie di Giorgio Pergolini)
Il 30 settembre e il 2 ottobre 2022 è andata in scena l’opera Attila di Giuseppe Verdi con un allestimento che, per quanto riguarda l’esecuzione musicale e il canto, è stato all’altezza della nobile tradizione del Teatro delle Muse di Ancona. Il direttore Marco Guidarini, che ha mostrato di avere un’approfondita conoscenza delle opere giovanili di Verdi, ha precisato che l’Attila presenta “una partitura intensa, magmatica e misteriosa. La sua drammaturgia musicale si rivela attraverso un lavoro in profondità, nel contatto quotidiano con gli interpreti, nel confronto con le emozioni di ciascuno. Un’opera sorprendentemente moderna”. Fedele a quelle idee-guida, ha diretto l’Orchestra Sinfonica “G. Rossini” che ha risposto con grande professionalità alle sue indicazioni, per cui il maestro ha saputo esaltare l’impeto musicale del giovane Verdi senza mai sovrastare il canto e ha sottolineato quei primi passaggi lirico-melodici che preannunciano una nuova stagione verdiana anticipata nel 1847 dalla presenza di due importanti melodrammi come I Masnadieri e Macbeth.
Tutto il cast, formato da giovani cantanti d’indubbio valore e con una notevole esperienza internazionale alle spalle, ha fornito una interpretazione di alto livello a cominciare dal basso Alessio Cacciamani (Attila)e dal giovane soprano marchigiano Marta Torbidoni (Odabella), già consacrata come cantante verdiana per avere recentemente interpretato I Masnadieri sul non facile palcoscenico del Teatro Regio di Parma, la quale ha retto con autorità il ruolo della protagonista femminile, mostrando limpidezza di emissione e notevoli capacità tecniche (non a caso è una allieva di Mariella Devia). Forse per un colpo di fortuna, oppure per una “machiavellica” intuizione del direttore artistico Vincenzo De Vivo, si sono trovati a lavorare fianco a fianco nelle vesti di avversari-alleati il baritono ucraino Vitaliy Bilyy (Ezio), che fa parte del Teatro dell’Opera di Odessa, e il tenore russo Sergey Radchenko (Foresto), i quali durante la conferenza stampa hanno voluto sottolineare come l’arte, la musica e la cultura siano lo strumento più efficace per ritrovare la pace, mentre l’attuale conflitto russo-ucraino rende incerto e preoccupante il futuro dell’Europa e il loro stesso avvenire, per cui hanno manifestato la loro speranza che questa terribile situazione possa finire al più presto. Il direttore De Vivo ha poi aggiunto che Attila è “un’opera piena di fuoco e di grandi sentimenti, ma si tratta anche di un’opera che parla di noi contemporanei, di guerre, di profughi, di stragi, di coppie e di famiglie separate dagli eventi come quelli che stanno accadendo adesso in Europa, ma con una speranza: perché dall’incendio di Aquileia nascerà Venezia”.
Un melodramma complesso che nasce nel segno di una tragedia romantica.
Attila assume un carattere particolare perché, da un lato, risente del climax risorgimentale già ampiamente presente in Nabucco, I lombardi alla prima crociata ed Ernani; dall’altro, è caratterizzata dal bisogno del compositore di dare maggiore spessore psicologico ai personaggi, di conciliare la componente storica con l’esaltazione dei sentimenti umani sotto la spinta ormai dominante del Romanticismo. Siamo quindi di fronte a un’opera di passaggio che preannuncia il prossima “esplosione” della creatività verdiana nonostante in mezzo vi siano Il corsaro e La battaglia di Legnano, prove d’autore non certo esaltanti.
Non è certamente un caso che la scelta per scrivere il libretto ricada su Attila, Konig der Hunnen, una tragedia di Zacharias Werner (1768-1823) oggi quasi del tutto dimenticata e sopravvissuta nel ricordo solo grazie a Verdi. L’autore è stato un esponente minore della corrente Sturm und Drang e nel 1808 ha scritto un’opera che ha suscitato addirittura l’ammirazione di Madame de Stael, la quale giudica questo dramma “assai bello e originale” e lo fa conoscere a Verdi attraverso sei fitte pagine a stampa, dove riassume in modo esauriente la trama dell’opera: Attila vi appare come un supereroe feroce e generoso, un barbaro coraggioso e leale alla parola data, che insegue il potere ma disdegna le ricchezze. Al suo fianco vi è Hildegonde, una principessa della Borgogna promessa sposa del re, la quale finge di amarlo ma in realtà è decisa a ucciderlo, una specie di dea della guerra bionda e bellissima che vuole vendicare la morte del padre e del fidanzato.
Nella trama rientrano l’imbelle imperatore Valentiniano, il generale Azzio e il Papa Leone che affronterà Attila inducendolo a ritirarsi da Roma. Vi appaiono anche la principessa Onoria, protetta dal papa e segretamente innamorata di Attila e Gualtiero, un guerriero innamorato di Hildegonde che l’ha seguita per uccidere il tiranno. Addirittura il papa, secondo l’inesorabile legge dell’amore romantico, conduce Onoria nell’accampamento di Attila che nel frattempo ha sposato Hildegonde, ma la fanciulla ha ucciso lo sposo durante la prima notte di nozze per consumare la sua vendetta, per cui a Onoria e al pontefice non rimane che pregare per l’anima del re (in realtà Attila muore in Pannonia all’età di 56 anni dopo la prima notte di nozze con la giovanissima principessa germanica Hilde a causa di una grave epistassi).
Un tormentato percorso creativo
Verdi, evidentemente attratto da questo “polpettone” storico, si affida al poeta e germanista Andrea Maffei, il quale sulla base del testo originale fornisce una trama dettagliata da cui Francesco Maria Piave dovrà ricavare il libretto. Secondo il suo costume, Verdi scrive una lunga lettera dove fissa con precisione i passaggi-chiave della trama e il rilievo da dare ai personaggi, soprattutto ad Attila e a Hildegonde. Passato da Piave a Temistocle Solera (già autore di Oberto, Nabucco, I lombardi e Giovanna d’Arco), il libretto prende un altro indirizzo e viene “italianizzato”: la vicenda è ambientata ad Aquileia conquistata e distrutta da Attila, per cui i suoi abitanti sono costretti a rifugiarsi nella laguna veneta; Azzio diventa Ezio, un ambizioso, intrigante e valoroso generale romano; Hildegonde prende il nome di Odabella, una eroina italica animata da un “santo di patria indefinito amore” e decisa a uccidere il tiranno per vendicare la morte del padre signore di Aquileia; Gualtiero si trasforma in Foresto, condottiero e guida spirituale degli italici, innamorato di Odabella ma anche della “cara patria, già madre e reina/di possenti magnanimi figli”.
A questo punto Verdi respinge la regola teatrale che vuole i buoni contrapposti ai cattivi e impone che il personaggio di Attila rimanga quello tratteggiato da Werner: un barbaro violento ma eroico, giusto e leale, che respinge il compromesso che gli propone Ezio (“Avrai tu l’Universo/resti l’Italia a me”). Attila è anche un uomo generoso che salva la vita di Odabella e la sposa; perdona Foresto che ha tentato di avvelenarlo; rimane sbalordito e sgomento di fronte alla congiura ordita contro di lui: “Tu rea donna, già schiava, or mia sposa. Tu, fellon, cui la vita ho donata. Tu, romano, per Roma salvata. Congiurate tuttor contro me?”. Muore infine pugnalato da Odabella come Cesare e la penultima battuta è “E tu pure, Odabella?” che riecheggia il celebre “Tu quoque Brute fili mi?”.
Temistocle Solera, che si trova in Spagna, avverte la debolezza di questo finale e propone a Verdi di chiudere con un inno che esalti il valore degli Italiani e ponga un sigillo finale chiaramente patriottico, ma il compositore gli ordina di apporre solo alcune eventuali correzioni al libretto, perché la parte musicale è già conclusa. Solera risponde allora in modo risentito: “Mio Verdi…non posso negarti il mio indefinibile dolore nel vedere chiuso in parodia un lavoro, del quale osava compiacermi. In che nodo non dovea riuscirti più ispiratore la solennità d’un Inno, che potea dalla tua immaginazione prendere tutto il carattere della novità? Nella chiusa che mi mandi non trovo che una parodia…Fiat voluntas tua: il calice che mi fai bevere è troppo doloroso; tu solo potevi ben bene farmi capire che il librettista non è più un mestiere per me”. In questo modo si chiude per sempre il rapporto tra Verdi e il suo primo librettista di fiducia.
Una regia discontinua e poco efficace
È sempre difficile fare una regia di un’opera, che è lo spettacolo più complesso del mondo, e in particolare è difficile affrontare un melodramma pieno di movimenti e di avvenimenti convulsi, dove viene completamente abbandonata la regola aristotelica dell’unità di tempo, luogo ed azione.
Il regista Mariano Bauduin, reduce da una fortunata produzione di Aida al Teatro Petruzzelli (in quell’occasione Andrea Zepponi lo aveva intervistato per il nostro magazine: https://www.musiculturaonline.it/nostra-intervista-a-mariano-bauduin-regista-di-aida-al-petruzzelli-di-bari/ n.d.r.), parte con il piede giusto quando mette in evidenza che “il forte interessamento di Verdi al teatro scespiriano non si limita alle opere chiaramente ispirate al Bardo, ma anche a quelle giovanili – tra cui Attila – in cui le aristoteliche regole di spazio e tempo sono abbandonate, proprio come avveniva nel teatro elisabettiano”. Quindi è sua intenzione di rispettare lo stile proprio dell’opera ottocentesca e la tradizione del dramma storico, ma operare anche sul piano dell’innovazione, inserendo elementi simbolici all’interno della narrazione.
Abbiamo visto così un’idea di teatro nel teatro con l’iniziale accensione dei lumini di boccascena e una struttura teatrale con continue aperture e chiusure di sipario, destinata a contenere il principale luogo deputato dell’azione. Oltre alla staticità delle masse corali, rimaste sempre ai margini dell’azione, si sono visti degli inserimenti simbolici non sempre chiari da decifrare: il panno bianco e il panno nero avvolti intorno alle spade di Odabella e di Foresto; l’apparizione abbastanza gratuita dei quattro autoflagellanti arrivati nella laguna di Rio Alta (ne abbiamo invano cercato traccia nel libretto), senza tenere conto che le Confraternite dei Disciplinati dediti alla fustigazione sacra nascono nella metà dei Duecento; il vecchio romano Leone che si delinea come un’ombra inquietante per poi apparire sulla scena come un santo vescovo con ricchi paramenti che esce da un quadro del Seicento; il bosco, che svolge un ruolo fondamentale nella vicenda, rappresento da due tronchi e da alcuni rami secchi che scendono dalla graticcia; i cerchi concentrici di corda costruiti sullo sfondo per simboleggiare le spire del complotto in atto nel finale. Insomma “i due piani narrativi, sincronici alle volte, altre volte completamente inseriti nella vicenda di Attila” in effetti non si sono mai completamente integrati con risultati discontinui e a volte un po’ naif. Purtroppo, le idee registiche possono risultare belle e affascinanti sulla carta, ma poi hanno bisogno di essere realizzate sulla scena. Eppure, in tempi di ristrettezze economiche, sarebbe stato a nostro avviso più efficace lasciare libero il palco, sfruttare al massimo la sua avanzata tecnologia, mantenere i costumi tradizionali dei personaggi e impiegare le infinite possibilità narrative offerte oggi dalle immagini (vedi l’Attila di Livermore alla Scala). Era sufficiente seguire fino in fondo la bella intuizione del quadro usato come sfondo nella tenda di Attila per avere tutto un altro spettacolo.