Aterforum 2004 cuore e pietre di Folksongs
Athos Tromboni
30 Lug 2004 - Commenti classica
FERRARA – C'è un Paese delle pietre che urlano (l'Armenia, la cui diaspora secolare e il genocidio perpetrato dai turchi ottomani tra il 1914 e il 1923, danno il segno di un'antica sofferenza che scuote le montagne) e c'è una città delle pietre che risuonano (Ferrara). Aterforum 2004 è tutto qui: musica di confine fra il colto e il popolare e sei serate suddivise in due fine-settimana. Una buona metà dei concerti erano dedicati al folklore armeno, alla sua musica, al maggior compositore vivente (Tigran Mansurian) e a quel popolo eurasiatico disperso agli angoli del mondo. Poi i Folksongs proponevano il samba brasileiro, le percussioni di Sicilia, il pop inglese e la musica classica. Più che mai risuonavano, perciò, le pietre del cotto rosso terragno nei due edifici monumentali, Casa Romei e Palazzo Ludovico il Moro, dove si sono svolti i concerti. Cristina Zavalloni, eclettica artista lirica, eclettica jazzista, eclettica attrice dalla figurina esile e dalla voce ben impostata ha offerto quattro canzoni popolari di Luciano Berio e altra musica mutuata al rango “colto” da Ravel, Milhaud, De Falla, Stravinskij, Andriessen: eppure la forzatura si sentiva, non tanto nelle interpretazioni della cantante (pianista Andrea Rebaudengo) quanto nella cerebralità dentro cui sono ingabbiate le note. Meglio l'originale, il popolare tout-court, piuttosto che il suo scimiottamento accademico. Il popolare vero lo ha offerto invece Alfio Antico, nella seconda parte, con i suoi tamburi tratti dalle pelli di capra di cui rimandano vibrazioni e odori, impastati col suono scuro e ammonente del contrabbasso di Amedeo Ronga (“Viaggio in Sicilia” era intitolata la performance); loro, eredi dei pastori, hanno fatto sembrare lontano, no, anzi, fuori luogo, quanto udito precedentemente dall'incolpevole Zavalloni. Le pietre ferraresi sono tornate a risuonare miracolose la sera successiva, da Ludovico il Moro, sul tessuto della saudade armonizzata sulla chitarra acustica e sul pianoforte da Egberto Gismonti, inimitabile trovatore venuto dal Brasile. Poi il pop britannico, ancora la sera appresso, dalle due chitarre di John Renbourn e Clive Carrol: il primo è riflessivo, appassionato, dolcissimo, seducente; il secondo è gioioso, effervescente, talentuoso da far rabbia, più rock che pop, più ironia che amore. Strana coppia e soprattutto strano che riescano a elidere la diversità abissale degli stili e delle aspirazioni musicali. Un tocco di poesia è riaffiorato dalle pietre con la performance successiva, dove papà Martin Carthy (chitarra acustica) e la giovane Eliza Carthy (violino e canto) assieme agli organetti di Chris Parkinson hanno evocato il popolare davvero, proposto ad un pubblico plaudente che ha tirato notte per stare ad ascoltarli. Pausa di alcuni giorni ed ecco il secondo fine-settimana: Aldo Brizzi, italiano piemontese trapiantato in Brasile da una dozzina d'anni, vi è diventato celebrante ricercato e raffinato di quella cultura musicale originale (cioè, dunque, popolare); le sue musiche non profumano solo di foreste tropicali, sanno anche di salsedine mediterranea, in una strana commistione d'umori che diventa intrigante e bellissima, affidata alla voce timbrata e politimbrica di Graà a Reis e all'accompagnamento degli Aà o do Aà à car. Le pietre che urlano dentro le pietre che risuonano son tornate la sera appresso, alla Casa Romei, per il violoncello di Anja Lechner e il piano di Vassilis Tsabropoulos (seconda parte) e per l'oboe intagliato nel legno d'albicocco di Gevorg Dabaghyan e dei due compari, Grigor Takushyan e Kamo Khachatryan (prima parte del concerto). Le pietre urlano soprattutto dentro la cassa armonica del cello di Anja (musiche di Mansurian, ma anche di Gurdjieff e dello stesso Tsabropoulos) capace di catturare con l'arco l'espressione cruda e poetica che fa da leit-motiv alla rassegna, trasmutandola in suono puro, questo sì colto e popolare insieme, non cerebrale, non forzato, non accademico. Ultimo appuntamento infine, la sera successiva, con gli urli veri e lancinanti di Diamanda Galas, americana, donna bella e truce che s'interessa di storia armena contemporanea e la stilla di sangue martire dentro il proprio spettacolo (nel teatro Comunale, stavolta, non pietre che risuonano, ma velluti rossi come l'emoglobina che smorzano). Uno spettacolo metalirico, metafisico, metastasico, quale può essere solo un prodotto della maledizione: Defixiones, will and testament non è tanto un titolo-manifesto, quanto soprattutto un dire che toglie il sorriso, il fiato e la speranza; è un canto che coltiva gli incubi, incubandoli nella nostra memoria dove giaceranno latenti forse per sempre, forse no.
(per gentile concessione “Gli Amici della Musica.net)
(Athos Tromboni)