Ascanio Celestini e la sua magia della figurazione
di Cecilia Giampaoli
18 Lug 2017 - Commenti teatro
Sabato 8 Luglio 2017, Rocca Costanza, Pesaro. Sembra di sentirlo il battito ritmato di piedi degli indiani Pueblo che chiamano la pioggia.
È una calda serata di luglio. Uno spaccato geometrico di cielo si staglia sopra il cortile di Rocca Costanza come un giardino di stelle protetto da un recinto di mura. Chi vive qui ha ancora in testa il rumore dei piccoli aerei antincendio che da due giorni ronzano sulla città e scivolano sull’orizzonte del mare per ingoiare acqua e scaricarla nei vicini boschi, in fiamme. Non piove da queste parti, ancora non piove.
Sul palco due scrivanie d’epoca, due lampade da tavolo, due sedie. Non serve altro alla scenografia perché anche ciò che c’è, scomparirà comunque a breve. Il monologo inizia ed ecco la pioggia estiva: parole e suoni cadono sul pubblico e sulle cose intorno, finché tutto lentamente si immerge e si sottrae alla coscienza di chi ascolta.
Resta la magia della figurazione, attitudine speciale dei cantastorie, quelli bravi. Celestini racconta: voci, volti, movimenti e profumi; finché pare che personaggi immaginari appaiano lì, a mezz’aria, fra la platea e il palco.
“Fra un guardone e un poeta c’è una differenza”, spiega l’autore: il primo, osserva le persone per sapere come vivono, il secondo invece, le persone le osserva per inventarne la storia. È subito chiaro che questa differenza è sostanziale, quasi fosse la chiave di lettura dello spettacolo.
Attraverso i vetri di una finestra immaginaria, Celestini osserva i protagonisti del suo spettacolo, ricerca fra i dettagli delle vite degli uomini, quelli più fragili e, attraverso la prosa, li mette in poesia. Presenta al pubblico un flusso narrativo serrato e costante sul quale rotolano storie, a metà fra una realtà possible e la fantasia, che in quanto fantasia possibile lo è sempre.
Nessuno, fra noi del pubblico, fa ormai più caso alle scrivanie, lo spazio scenico è diventato un supermercato, luogo spersonalizzante che delinea tuttavia l’identità dei protagonisti, diventando, reciprocamente, teatro delle loro vite.
L’autore modella i personaggi attraverso un testo teatrale a tratti descrittivo, a tratti visionario, li stratifica, dall’esterno all’interno, dall’apparenza all’intimità. Esistenze semplici, a prima vista facili da abitare e dunque da liquidare, alle quali viene restituito lo spessore della propria commovente complessità.
Questa è la storia di un giorno di pioggia.
Questa è la storia di una barbona che non chiede l’elemosina
e di uno zingaro di otto anni, della barista che guadagna con le slot machine
e di un facchino africano, ma anche di un vecchio che chiamano Giobbe.
Questa è la storia del Cinese, di una madre che fa la zuppa liofilizzata
e di un paio di padri che non conosco il nome.
Questa è la storia di una giovane donna che fa la cassiera al supermercato e delle persone che incontra.
Quando a fine spettacolo, a piovere sono gli applausi, e i fari si accendono sulla platea, arriva pungente l’idea che fossimo noi spettatori, al di là dei vetri della finestra immaginaria, osservati e reinventati al modo dei poeti.
Imponenti masse d’acqua che si spostano sulla superficie del mare provocano onde sismiche che vanno a incrociarsi con i movimenti delle profondità marine. Questo incontro scatena un fenomeno straordinario: un suono planetario senza fine che è facile ascoltare se stai dalle parti delle fasce di Van Allen, a 20mila chilometri dalla superficie terrestre. Così come lo sentono gli indiani Pueblo che scendono dalle finestre delle loro case. Battono i piedi sulla terra e arrivano i nonni, così chiamano le nuvole. E comincia a piovere. E l’acqua gira tra il cielo e la terra facendola vibrare come una gigantesca campana che corre nello spazio a 100mila chilometri all’ora.