Ancora sulle celebrazioni pergolesiane


Alberto Pellegrino

6 Lug 2010 - Commenti classica

<b<JESI. Nel quadro delle celebrazioni per il terzo centenario della nascita di Gian Battista Pergolesi, il Pergolesi Festival di Primavera si è aperto il 4 giugno con Il Flaminio, una commedia per musica , scritta da Gennarantonio Federico (autore nel 1732 del libretto de Lu frate nnammurato), che costituisce una assoluta novità per la scena jesina. Questa opera, composta da Pergolesi nel 1735 a pochi mesi dalla morte, costituisce la conclusione di una frenetica vita artistica bruciatasi nell'arco di pochi anni, ma sufficiente per creare il mito Pergolesi . Scritta in stretto napoletano, secondo la tradizione della commedia partenopea che aveva limitata circolazione fuori dall'ambiente napoletano, l'opera viene rivista con l'introduzione di alcune parti in lingua toscana per consentire la sua fruibilità a un pubblico più vasto. Per i caratteri dei personaggi e per le situazioni, essa preannuncia l'opera buffa del secondo Settecento, dato che proprio in quegli anni la commedia musicale sta conquistando una propria dignità espressiva rispetto al dramma per musica, puntando sulla semplicità , sull'umorismo e sul realismo. Pergolesi riesce a mettere insieme gli influssi della commedia dell'arte, con i suoi intrecci amorosi, i travestimenti, le doppie personalità a cominciare dal protagonista Flaminio/Giulio, ingredienti che innestano una girandola di scontri ed equivoci sentimentali tra diverse coppie, tutte appartenenti al mondo borghese, dal quale sono estranei i giochi amorosi, genuini e sensuali, della coppia dei domestici. La stessa partitura segue con compiacimento i momenti parodistici della vicenda, alternandoli con le grandi arie del melodramma e, proprio grazie a queste contaminazioni, l'autore riesce a dare spessore umano a personaggi di sicura estrazione borghese, per cui questa commedia si presenta come un melodramma borghese dominato dal sentimento più che dal buffo. Da questo continuo processo di contaminazione stilistica viene al Flaminio il suo singolare carattere composito, sempre a mezzo tra verità e finzione, sentimento e ironia, toni tragici e lazzi plebei, tenerezza arcadica, realismo, sogno e disincanto . Considerata una delle più alte espressioni del teatro musicale del primo Settecento, l'edizione jesina si è avvantaggiata dell'ottima direzione del M Ottavio Dantone, degli spiritosi costumi fine Ottocento di Klaudia Konieczny, della brillante scenografia di Benito Leonori che ha saputo sfruttare in alto e in basso tutti gli spazi del Teatro Moriconi (una ex chiesa) consentendo al regista Michal Znaniecki di movimentare l'azione sia nei suoi passaggi comici, sia nei suoi momenti di sospirose pene d'amore, inserendo passaggi ispirati alla comicità della Commedia dell'arte e della danza popolare.
à stata poi ripresa nel Teatro comunale l'opera <b<Adriano in Siria (1734), andata in scena nel 2007 con la regia dello spagnolo Ignacio Garcia, il quale ha collocato questo dramma di passioni amorose e di odi, di congiure di palazzo in un ambiente carico di tenebrose atmosfere e di lugubri segnali di morte, quasi a voler ricordare che il potere tende a dominare il mondo con la violenza e il terrore, il carcere e la morte, ma poi finisce per scoprire che l'esistenza umana è segnata dal vento delle passioni, dall'angoscia dei sentimenti, dall'anelito alla libertà e di slanci di generosità , per cui anche un imperatore può scoprire che l'amore può travalicare la politica e che la dignità di un grande uomo può essere esaltata dalla magnanimità . Dice il regista Garcia: Questo Adriano in Siria è la storia di un uomo e di un impero che credono nella guerra, nelle carceri e nella distruzione come mezzo per ottenere un mondo più giusto e in armonia con se stesso. Ma il protagonista scopre che sul campo di battaglia non ci sono solo vincitori e vinti: ci sono solo vittime La rovina, la polvere, il dolore e l'assurdità di un essere umano che uccide, imprigiona o vendica affiorano nei personaggi attraverso le musiche meravigliose, afflitte e psicologicamente profonde di Pergolesi, capaci di racchiudere la tristezza dei prigionieri, la falsa giustizia dei vincitori e la vendetta dei vinti. Attraverso il canto tutti urlano il proprio dolore, violento o compresso, aggressivo o sublimato. La scena è il campo di battaglia dei sentimenti, delle frustrazioni e delle aspirazioni. Tra il carcere e le gabbie, tra le catene e gli uccelli imprigionati, i personaggi si scoprono a se stessi, combattono, amano e arrivano tutti alla stessa conclusione: la guerra può essere bella soltanto per coloro che non la vivono mai .
Pietro Metastasio, autore del libretto, si è ispirato alla grande drammaturgia del Seicento ed ha sostituito gli eroi e gli dei della mitologia con personaggi storici e pertanto animati di autentici sentimenti umani, portatori di uno scontro tra vizi e virtù . Metastasio, da autentico uomo di teatro, ha introdotto una ulteriore innovazione, coniugando la tragedia classica con la sensibilità settecentesca, unendo il linguaggio poetico a quello musicale e liberando lo spettatore dal traumatico impatto del tragico esito finale, che viene sostituito da un più accattivante lieto fine che ristabilisce la giustizia in mondo squilibrato dalla violenza. L'Adriano in Siria diventa pertanto un mirabile esempio di tragedia lirica, con i recitativi che reggono l'azione drammatica, mentre le arie, annunciate sempre da un'introduzione orchestrale, hanno il compito di stemperare la furia delle passioni, esaltare le virtù minacciate, rappresentare i tormenti amorosi dei personaggi. Pergolesi interpreta con grande sensibilità lo spirito di un testo poetico che riflette una visione illuminata e aristocratica del mondo, dove i sentimenti sono forti ma non devastanti, segnando il ritorno ad un ordine turbato dalle umane passioni. Pur conservando il gusto per gli arditi virtuosismi canori, questo melodramma apre la strada all'opera lirica del secondo Settecento, dove lo sfarzo e la spettacolarità della corte si uniranno al gusto popolare per il meraviglioso e per il reale.
Questa ripresa è stata ancora diretta dal M Ottavio Dantone che guidato in modo egregio l'Accademia Bizantina e i bravissimi interpreti: il contralto Marina Comparato (Adriano), il mezzosoprano Lucia Cirillo (la principessa Erimena), il soprano Annamaria Dell'Oste (il principe dei Parti Faraspe), il soprano Nicole Heaston (promessa sposa di Adriano), il tenore Stefano Ferrari (il re dei Parti Osroa), Francesca Lombardi (il tribuno Aquilio innamorato di Sabina).
La seconda novità di queste celebrazioni pergolesiane è stata l'inserimento (secondo tradizione) dell'intermezzo Livietta e Tracollo (1734) nei due intervalli dell'Adriano, sempre sotto la direzione del M Ottavia Dantone e con la regia di Ignacio Garzia che ha allestito uno spettacolo molto divertente, approfittando anche della scenografia di Zulima Memba del Olmo e dei costumi di Patricia Toffolutti, entrambi segnati da una forte carica di humor. Questo intermezzo, che segue di un anno la celebre Serva padrona, presenta tutti gli ingredienti tipici dell'opera buffa: il travestimento, l'inganno, la burla e l'immancabile lieto fine. La stesura del libretto, carica di lazzi e battibecchi, rievoca la commedia dell'arte e si presta ai giochi musicale di Pergolesi che, con una partitura brillante e ricca di spunti comici, anticipa per certi versi il Rossini comico, per cui questo intermezzo, senza raggiungere la perfezione della Serva padrona, ha sempre suscitato l'ammirazione dei contemporanei tanto che Goldoni ne ha tratto l'ispirazione per scrivere due intermezzi molto simili (Il finto pazzo e Amor fa l'uomo cieco). Il gioco dell'inganno burlesco è svelato fin dall'inizio, quando il ladruncolo Tracollo, travestito da donna polacca gravida , tenta di rubare i gioielli indossati da un'amica di Livietta appostata per sorprendere il malfattore. La ragazza si presenta travestita da uomo con un abito alla francese, dando luogo a un comico dialogo tra la finta polacca e il finto francese, fino a quando Tracollo viene smascherato e spogliato degli abiti femminili. Per salvarsi il giovane propone di sposarlo a Livietta, che invece lo consegna alla giustizia. Per sfuggire ala carcere Tracollo, travestito da astrologo, si finge pazzo; a sua volta Livietta, fingendosi moribonda, induce Tracollo a confessare il suo amore per la bella contadina che finalmente accetta di sposarlo.
Il Festival si è concluso con l'allestimento dell'Oratorio sacro La Fenice sul rogo ovvero La morte di S. Giuseppe che venne commissionato a Pergolesi nel 1731. L'argomento non era certamente vicino alla sensibilità artistica di un giovane di 21 anni, ma egli seppe sublimare i contenuti del libretto e trasfigurare lo spartito in una meditazione sulla luce e sulla gioia, esaltando il significato più profondo del trapasso secondo la fede cristiana. Il libretto di Antonio Maria Paolucci, oltre a mostrare una certa debolezza poetica, fa ricorso a metafore e similitudini che mescolano languori arcadici e contorsioni barocche. Tipicamente settecentesca appare la fondamentale simbologia della Fenice usata per rappresentare metaforicamente il trapasso di S. Giuseppe che muore per risorgere dalle proprie ceneri nella luce gloriosa del Paradiso. Ispirato all'apocrifa e molto popolare Storia di San Giuseppe falegname che si conclude con al trapasso del santo assistito da Gesù, dalla Madonna e dagli Arcangeli Gabriele e Michele, per cui il santo diventa il protettore della buona morte che viene invocato affinchè essa sia dolce e preziosa , Placida e soave . Secondo lo stile dell'oratorio non c'è azione, i personaggi sono di numero limitato (Amore Divino, Sam Michele Arcangelo, Maria Santissima e San Giuseppe) e non fanno altro che trattare il medesimo tema ognuno dalla propria angolazione. Spetta al genio musicale del giovane Pergolesi rivestire questo testo di note gioiose e palpitanti che devono anticipare la suprema felicità paradisiaca. Naturalmente nella composizione non vi sono soltanto momenti di estasi musicale che esprimono l'ebbrezza celeste, ma anche passaggi di umanità che rappresentano la fragilità e smarrimento di Giuseppe al momento del distacco terreno, con toni intimi e patetici che sarebbero diventati tratti distintivi dello stile pergolesiano.
(Alberto Pellegrino)


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