Alle Muse una “Carmen” discontinua ma per certi versi affascinante
di Alberto Pellegrino
30 Set 2017 - Commenti classica, Musica classica
Ancona 22.09.2017 – La Stagione Lirica 2017 di Ancona si è aperta il 22/24 settembre con l’opera Carmen di Georges Bizet in una nuova produzione della Fondazione Teatro delle Muse. Si è trattato di un allestimento che ha voluto riportare sulla scena l’originaria natura di opèra-comique, dove le parti cantate si alternano dialoghi parlati. Il direttore artistico della Stagione Lirica Vincenzo De Vivo ha tenuto a precisare che non si trattato di un’edizione critica, ma di “un’interpretazione che, avvalendosi di più fonti, intende restituire all’opera il suo spirito originario”. A sua volta il M° Guillaume Tourniaire, cui è stata affidata la direzione dell’Orchestra Sinfonica “G. Rossini”, ha dichiarato di non aver voluto fare “concessioni a interpretazioni veriste o folcloristiche, alimentate dai molti rimaneggiamenti subiti nel tempo dalla scrittura originaria dopo la morte del compositore, ma una lettura in grado di restituire alla partitura tutte le sue sfaccettature, anche avvalendosi del ritrovato manoscritto del suggeritore di scena di allora». Ne è venuta fuori un’interpretazione musicale elegante e raffinata, abbastanza lontana dalle esecuzioni alquanto folcloristiche che siamo stati abituati ad ascoltare negli ultimi anni. Bene hanno fatto anche il Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini” diretto dal M° Carlo Morganti e il Coro Piccoli Cantori / Ass.ne Kairos Eventi Ancona diretto dal M° Giorgia Cingolani.
Francesco Saponaro, affermato regista di prosa alla sua terza prova nel campo dell’opera lirica, ha dichiarato di aver voluto rappresentare una Carmen che “incarna il bisogno e la necessità della libertà, rappresenta l’idea di un femminile che non vuole abdicare”. Per la sua messa in scena ha deciso di puntare sul carattere libertario e ribelle del personaggio abbandonando oppure riducendo al minimo la chiave interpretativa della sensualità, rischiando di far perdere una parte del fascino affabulatorio di questa ormai “mitica” protagonista.
Per quanto riguarda le scene, Saponaro ha deciso di realizzarle “come quelle di un set cinematografico che rimanda agli anni della guerra civile spagnola e che, attraverso un viaggio simbolico-artistico nel Novecento, approda alla contemporaneità, evidenziandone i conflitti sociali e interpersonali”, ottenendo risultati apprezzabili.
Per quanto riguarda la regia ci sentiamo di dire che si è trattata di un’opera in progress con un primo atto decisamente sotto tono, abbastanza statico e poco coinvolgente sotto il profilo emotivo, con i due protagonisti alquanto incerti e bloccati. Le cose sono andate meglio nel secondo atto, dove ha preso vita una movimenta taverna di Lillas Pastia, anche se in questo caso, nonostante Martina Belli sia dotata di una grande voce e sia molto bella, Carmen è apparsa abbastanza frenata nei movimenti e nell’interpretazione (ah! la mancata seduzione del duetto con Don José) con un costume di scena fuori cifra, perché è sembrata non una zingara ma una signora dell’alta società capitata nella taverna in cerca di avventure.
Bello invece il terzo atto con la scena che ha trasportato l’azione dall’esterno della montagna all’interno di una grotta con due aperture simili a grandi occhi spalancati sul blu della notte, quasi la metafora di un teschio ad anticipare e sottolineare l’atmosfera di morte che circola in tutto l’atto. L’azione inizia con la lettura delle carte da parte di Carmen cui viene annunciato un destino di morte e con una Martina Belli (ancora una contrabbandiera troppo elegante) che ha evidenziato con grande efficacia la cifra tragica della scena. Queste intense atmosfere sono continuate con il violento scontro tra Escamillo e Don José, con i drammatici colloqui di Don José e Carmen, che respinge il suo amante in nome della libertà e di un nuovo amore, tra Don Jose e Micaela che convince il giovane a fare ritorno da sua madre.
Molto bello il quarto atto dove la regia ha creato le giuste atmosfere per concludere la tragedia dei due amanti a cominciare a grande dal recipiente pieno di arance e posto sul proscenio, una macchia di colore a sottolineare la mediterraneità del contesto. Suggestivo è apparso il gioco di ombre della vestizione di Escamillo, mentre due danzatori hanno mimato sulla scena il futuro scontro con il toro, per arrivare alla lotta finale tra i due amanti, sottolineata da un affascinante gioco delle luci di Michele Cimadomo. Qui i due interpreti hanno dato il meglio di sé con Carmen (completamente fasciata di nero, il colore della morte) tesa a rivendicare la sua indipendenza, la sua voglia di libertà, il suo coraggio di fronte a una morte annunciata, con un Don José completamente distrutto da una passione non corrisposta, portatore di tutta la violenza di un disperato senza più un futuro, capace solo di dare la morte e di cercare la morte per sé stesso.
Martina Belli, al debutto in questa difficile parte, ha iniziato in maniera alquanto incerta per mostrare maggiore padronanza vocale nel secondo atto e risultare assolutamente convincente nel terzo e nel quarto. Francesco Pio Galasso, nei panni di Don José, ha seguito lo stesso percorso interpretativo con un inizio sotto tono che è andato in crescendo fino a raggiungere il massimo della drammaticità nel finale dell’opera.
Ottima l’interpretazione di Micaëla da parte di Francesca Sassu, mentre Laurent Kubla è stato un apprezzabile Escamillo; buone sono state le interpretazioni di Gloria Giurgola (Frasquita), Cristina Alunno (Mercédès), Davide Bartolucci (Le Dancaïre), Andrea Schifaudo (Le Remendado), Laurence Meikle (Zuniga), Tommaso Barea, (Moralès).