Al via nel migliore dei modi il ROF 2018 con “Ricciardo e Zoraide”


di Andrea Zepponi

18 Ago 2018 - Commenti classica, Musica classica

PESARO 11 agosto 2018. Un’opera, due grandi anniversari per la prima del ROF 2018: i centocinquant’anni dalla morte di Rossini e i duecento anni dalla prima di Ricciardo e Zoraide (San Carlo di Napoli, 4 dicembre 2018) possono ben costituire un appuntamento da non perdere. All’Adriatic Arena di Pesaro il nuovo allestimento dell’opera napoletana del Gioachino nazionale meno celebrata ma non meno interessante è andata in scena secondo la visione registica e scenografica di Marshall Pynkosky e di Gerard Gauci che, a mio dire, hanno reso più lineare ed intelligibile la strana trama fatta di diversi topoi melodrammatici e complicata da un gioco delle parti inaspettato al limite della ambiguità dove il nemico si finge amico e viceversa: un genere di soggetto che è per di più una pièce à sauvetage diversa dal tipo Gazza ladra perché manca sostanzialmente il mezzo carattere ed è invece allineato con una dimensione eroica che, dopo la Restaurazione,  riparava alle tentazioni di ripercorrere la via della denuncia delle differenze sociali dal tono moraleggiante (se non politicheggiante) aperta dalla natura del mezzo carattere stesso con personaggi tratti dal mondo medio-borghese che subiscono l’affronto amorale dell’aristocrazia. L’ostentato ottocentismo della messa in scena di Gauci, in cui costumi, ambienti,  frequenti presenze coreografiche esornative e non sempre espressive esibivano un marcato gusto ottocentesco, ha giocato sull’immaginario basico del manierismo operistico conferendo al Ricciardo e Zoraide quella ironia espunta nel libretto di  Berio di Salsa e invece presente nel testo originario, il Ricciardetto del pistoiese Niccolò Forteguerri (1674-1735) da cui è tratto l’argomento. Invano si cercherebbe la verosimiglianza in un melodramma eroico dove la musica rossiniana è astratta per definizione dello stesso autore. Tanto vale apprezzare le convenzioni sceniche codificate da una tradizione ormai lontana dal gusto attuale – non però assente dall’inconscio estetico del pubblico – che almeno era ed è, se riproposta come in questo caso, rispettosa della dignità dei cantanti e dei valori testuali, schematica per amor di chiarezza e votata allo sfoggio di stoffe, gesti, simmetrie dal taglio oleografico e movenze di danza. Il duplice merito di questo allestimento è quello di offrire una specola sulla bellezza dell’opera come convenzionale momento estetico e di far emergere valori sottesi alla musica rossiniana che, come si sa bene, eludono il mero portato verbale del testo librettistico. Parlerei di controtendenza rispetto al dominio dal pensiero unico anche nel mondo operistico, per la sceno-regia di Gauci-Pynkosky, che pure ha scelto di ambientare la vicenda in un medio oriente fiabesco alla Mille e una notte o al cinematografico Sindbad il marinaio, ma ha osservato almeno formalmente la contrapposizione tra musulmani e cristiani nella figura di Ernesto visto come un alto prelato cristiano con la croce al collo che gli viene strappata via e gettata a terra con spregio da Agorante. Un tratto che dimostra quanto il ROF sia ancora libero da certi condizionamenti (come invece abbiamo temuto con Le siège de Corinthe di un anno fa) e aperto alle prospettive più diverse. A questa chiarezza di intenti registici e scenici corrispondevano le luci ben dosate di Michelle Ramsay, i gradevolissimi policromatici costumi di Michael Gianfrancesco e le impeccabili coreografie di Jeannette Lajeunesse Zingg. La perfezione dell’apparato musicale ha onorato la partitura con trasparenza scandendo il linguaggio rossiniano a partire dalla ouverture con i suoi dialoghi strumentali e la presenza della banda fuori scena che suscita gli effetti ecoici dell’orchestra anche durante l’opera. Il direttore Giacomo Sagripanti alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, ha messo in gioco una chiarezza di gesto e di scansioni ritmiche funzionali al tessuto strumentale più che a quello vocale in un’opera che vive soprattutto di grandi momenti di insieme. Straordinario il momento corale e strumentale della marcia funebre nel secondo atto Qual giorno, aimè! d’orror! dallo stile elevato con carattere larmoyant dovuto alla rarità del sauvetage innestato in opera seria. Sul lato canoro la presenza di Juan Diego Florez in Ricciardo, attesissimo nella spettacolare esibizione belcantistica di Qual sarà mai la gioia, ha mantenuto intatta la sua corona tenorile, ma il pubblico ha anche avuto modo di apprezzare il profilo vocale e scenico di Sergey Romanovsky in Agorante e la straordinaria ampiezza e pienezza timbrica del giovane Xabier Anduaga in Ernesto, due tenori che hanno rappresentato termini di confronto notevoli con il peruviano: il primo, dal timbro più brunito, ha sfoggiato affondi al registro basso, volendo, più che potendo, attingere al rango di baritenore, ma ha generosamente ben sciorinato tutte le risorse virtuosistiche del ruolo a partire dall’ottimo biglietto da visita presentato con l’aria di sortita Popoli della Nubia; il secondo è un artista che va seguito attentamente per le evidenti qualità come i tanti che hanno avuto il loro lancio nella fucina di talenti lirici che è il ROF ormai da quasi mezzo secolo. Il basso Nicola Ulivieri in Ircano ha aderito vocalmente ad una parte non estesa neppure scenicamente giocando il tutto sul timbro, come richiede un personaggio che basa il suo fascino tra il mistero dell’identità nascosta – combatte come campione ignoto per salvare sua figlia dalle grinfie di Agorante, suo acerrimo nemico- e la atipicità di un ruolo (pressoché un unicum in Rossini che è forse l’esatto contrario di Orbassano nel Tancredi) nel durare lo spazio di poche scene prima dell’ultima, ma ha una sua parità gerarchica con i protagonisti. Sul coté femminile del cast la Zoraide di Pretty Yende ha un carisma tutto esotico e la capacità di far risplendere la zona acuta in immagini vocali di grande bellezza ed eleganza anche grazie ad una regia che la faceva muovere in modo espressivo e pertinente all’azione, così la Zamora di Victoria Yarovaya, nel ruolo della perfida rivale, finta aiutante di Zoraide e poi della coppia, ha avuto la sua adeguata caratterizzazione cromatica nel timbro vocale e nel costume: senza scendere mai platealmente di petto nel registro di mezzosoprano, ha messo in gioco qualità notevoli di presenza vocale in un’aria considerata “di sorbetto”, che richiede un notevole valore belcantistico ed ha significato per l’interprete un bel riscontro da parte del pubblico. Sofia Mchedlishvili in Fatima e Martiniana Antonie in Elmira, hanno offerto un ottimo contorno scenico-vocale fatto di movenze intonate con il pregevole quanto dichiarato manierismo registico e con loro Ruzil Gatin dalla personalità spiccata in Zamorre. Il Coro del Teatro Ventidio Basso diretto dal M. Giovanni Farina ha assolto alla dialettica tra situazioni sceniche e musica in modo egregio, valorizzato anch’esso da una regia che ha ripristinato prossemiche tradizionaliste ma rispettose di una gerarchia di valori ineludibile. L’avvio del ROF edizione 2018, non poteva essere più soddisfacente come un pubblico plaudente ha dimostrato la sera della prima.

RICCIARDO E ZORAIDE
ADRIATIC ARENA
11, 14, 17 E 20 AGOSTO 2018, ORE 20.00
Dramma serio per musica in due atti di Francesco Berio di Salsa
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Federico Agostinelli e Gabriele Gravagna

Direttore GIACOMO SAGRIPANTI
Regia MARSHALL PYNKOSKI
Coreografie JEANNETTE LAJEUNESSE ZINGG
Scene GERARD GAUCI
Costumi MICHAEL GIANFRANCESCO
Luci MICHELLE RAMSAY

Interpreti
Agorante SERGEY ROMANOVSKY
Zoraide PRETTY YENDE
Ricciardo JUAN DIEGO FLÓREZ
Ircano NICOLA ULIVIERI
Zomira VICTORIA YAROVAYA
Ernesto XABIER ANDUAGA
Fatima SOFIA MCHEDLISHVILI
Elmira MARTINIANA ANTONIE
Zamorre RUZIL GATIN

CORO DEL TEATRO VENTIDIO BASSO
Maestro del Coro GIOVANNI FARINA
ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE DELLA RAI
Nuova produzione

 

 

 

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