Al Regio di Parma una “Norma” senza tempo e senza spazio ma sublime per la parte musicale
di Andrea Zepponi
26 Mar 2022 - Commenti classica
Apprezzata molto la compagnia di canto e la direzione, come si trattasse di una esecuzione in forma semiscenica, meno le scelte scenoregistiche, per la Norma vista a Parma.
(Fotografie di Roberto Ricci)
La Norma belliniana vive di archetipi, di reminiscenze: siamo d’accordo che bloccarla in un tempo definito o perfino relegarla in un’epoca determinata da precise connotazioni storiche può essere riduttivo e limitante. La grandiosa concezione del personaggio che informa tutta l’opera e ne fa il capolavoro assoluto di tutto il melodramma italiano si nutre di figure mitiche rivisitate con una sensibilità neoclassica e preromantica che a sua volta ricrea un archetipo: Norma è una Medea tradita che però non uccide i suoi figli, i suoi parenti e i suoi rivali in amore, non viola la natura umana, pur attingendo al Walhalla celtico la sua autorità sovrannaturale e profetica, al contrario diviene una creatura umanissima ed esitante nel mettere in essere il delitto perché in lei si esprime quella pietas che non appartiene affatto alla maga levantina: Norma è la madre che risparmia i figli, si preoccupa della loro incolumità anche dopo la sua scomparsa dalla scena del mondo. E per questo riconduce il fedifrago Pollione all’ammirazione e all’amore per il suo sublime sacrificio dopo aver accusato se stessa al posto della innocente rivale. Moriamo insieme, ah sì moriamo: in questi versi si consuma la tragedia che dovrebbe aver luogo fuori scena, (secondo i precetti classici del libretto) nel rogo approntato dai Galli furenti e dolenti per aver perso la fede nella loro profetessa e la fiducia nella propria riscossa contro il nemico oppressore.
Questo allestimento della Norma di Vincenzo Bellini al Teatro Regio di Parma, visto il 20 marzo scorso in pomeridiana, doveva riproporre il vertice tragico dell’opera italiana, con un riadattamento dovuto alle regole sanitarie imposte dalla emergenza covid per cui il regista Nicola Berlotta, si affretta a rassicurare nelle note di sala di aver rispettato le regole sul distanziamento. Una excusatio non pentita puramente formale: i coristi cantavano mascherati e le prossemiche degli artisti non avevano alcunché di distanziato tranne la lunghezza dello spadone con cui Norma minacciava Pollione e con cui, alla fine, Oroveso lo sgozzava contravvenendo allo spirito dell’autore che non vuole questo (neppure le regole classiche rivitalizzate dal librettista Romani) mentre Norma scompariva in modo imprecisato nel delubro circondata dall’urlo gestuale del coro muliebre. Salvato così il politicamente corretto che vuole l’uomo sempre colpevole passibile di pena, la donna mai, nasce il corollario che, se, oggi come oggi, il mito di Medea è così difficile da rappresentare dato che è difatti un’assassina seriale e sterminatrice dei propri figli, anche per Norma, la quale è rea per il suo popolo, dall’attuale liquefazione della tradizione sgocciola qualche stilla di politicamente corretto: lei non può essere una colpevole da punire. Una donna per il monopensiero main stream è sempre e solo vittima dell’uomo. Il regista arriva perfino ideologicamente a negare l’evidenza dichiarando che “nessun processo l’attende”.
Comunque, l’ennesima mattanza della volontà degli autori dell’opera e del suo spirito si è consumata anche stavolta allorché il regista e lo scenografo Andrea Belli con la complicità dei costumi di Valeria Donata Bettella hanno combinato una improbabile trasposizione ottocentesca (guerra prussiana in Francia? Risorgimento italiano?), attraverso “un contenitore ottocentesco” neppure tanto allineato cronologicamente con l’anno di composizione dell’opera belliniana, il 1831, che proponeva una Norma più Madame Blavatsky che sacerdotessa druidica, illuminata da luci ideali di irenismo massonico durante la scena di Casta diva tanto permeata di Novus Ordo Seclorum, (altro che Irminsul) in cui ella arringava un coro di vecchi generali e militi mutilati claudicanti all’interno di “un palazzo ottocentesco incendiato e devastato”, una specie di corte dei miracoli, ultimo rifugio di un mondo in rovina.
Norma è sempre stata opera di emblematici spazi aperti, ora la si delimita in un mondo circoscritto e asfittico. Il giovane morto ricoperto di verbene sull’altare alias catafalco andava nel computo dei richiami iconografici. Per gli interni invece la scenoregia tirava fuori dal sacco delle sue magre idee un angusto ambiente borghese che sembrava quello di una Traviata dei poveri con Clotilde-Annina e Pollione-Alfredo.
Il gioco della regia, attraverso la imperscrutabilità delle proprie idee di fronte al pubblico, è sempre quello di tentare verso un senso di privilegio elitario quello stesso pubblico che, per lo più incapace di cogliere le allusioni extratestuali del regista (anch’esse imperscrutabili, ça va sans dire, perché, se Norma è un archetipo, perché mai connotarla con la crinolina ottocentesca? Onde instaurare forse un richiamo alla devozione wagneriana per l’opera di Bellini?), straconfuso ma contento di credersi parte dell’evento artistico, perde di vista il fatto che l’opera italiana non è affatto un prodotto elitario, ma era ed è destinata alla fruizione, alla piena comprensione e pertanto al godimento estetico di tutti, anche del popolino che affluisce ora come allora nei loggioni. E questo una città come Parma lo sa benissimo, ecco perché il pubblico ha mostrato di apprezzare molto la compagnia di canto e la direzione proprio come si trattasse di una esecuzione in forma semiscenica.
Attualmente credo che poche interpreti possano affrontare la parte di Norma come può farlo il soprano Angela Mead la quale per doti naturali ben sfruttate e affinate sa economizzare l’immenso volume vocale e piegarlo alla profondità della lettura musicale della meravigliosa direzione del Mº Sesto Quatrini sul podio dell’Orchestra Filarmonica Italiana: sebbene l’edizione scelta dell’opera sia quella tradizionale – nessuna apertura dei tagli della ripresa delle cabalette Me protegge, me difende e Ah bello a me ritorna, rispettivamente di Pollione e della title-rôle – la condotta orchestrale del maestro concertatore è stata avvincente nella scansione inedita delle dinamiche, nella fruizione drammatica dello stesso tempo musicale, delle pause e perfino della durata dei silenzi tale da risultare il vero fulcro drammatico della intera tragedia lirica. La gestualità morbida e la trasparente qualità della concertazione ha sollevato ogni sedimento sovrastrutturale della partitura per una ermeneutica davvero profonda, intima e quindi nuova del sommo capolavoro belliniano fino a informare di sé il canto degli artisti, in primis quello di Carmela Remigio in una Adalgisa restituita al suo ruolo vocale di soprano che ha veramente incarnato la tensione morale del personaggio e il suo conflitto insanabile nel diverso colore conferito a ogni frase e a ogni parola rilevante che meritava accenti particolari come il dio Belcanto comanda. Allineata perfettamente ai volumi della Mead, la grande artista abruzzese ha dato, nell’arioso iniziale e nei vari duetti, al personaggio, quell’anima che manca spesso alle Adalgise impropriamente emule dello spessore di Norma risolvendo le note medio gravi della parte con quel suo straordinario registro scevro dalla voce di petto, eppure così eloquente che abbiamo ammirato qualche anno fa nella sua Adalgisa a Palermo a fianco della Devia. Senza fare paragoni impropri avremmo voluto ascoltare la stessa duttilità di espressione nei recitativi – importantissimi – della protagonista a partire dal fatidico Sediziose voci in cui è necessario che la vocalità disegni diversi piani sonori e differenzi le intenzioni di quasi ogni lemma del testo. Tant’è, una voce che sappia far sentire tutte le note della grande scena del mistico rito musicale e riempire tutta la sala del Regio parmense con le lunghe note ribattute e le fluviali frasi della suprema vetta melodica italiana, non la si trova tutti i giorni, neppure quella che sappia compiere la suprema tirata virtuosistica Ah non tremare o perfido facendo sentire tutte le note discendenti fino al do centrale come nella cabaletta della scena di ingresso. Abilissima nella mezza voce, meno nel cambio di colore, la Mead ha trionfato proprio là dove Norma la si aspetta magniloquente e grandiosa, ma ha saputo affinare e intimizzare anche le frasi recitative della più ferrea tessitura del tipo Ei tornerà e infine muovere ad efficacia il crescendo nel finale a partire dalla straziante Deh non volerli vittima. Ottima presa vocale quella del tenore Stefan Pop con la sua dotta ricerca della vocalità tenorile belliniana già votata alla piena unione dei registri per un colore drammatico a fini realistici e ormai tanto lontana dal falsettone rossiniano di cui ha però dimostrato di avere cognizione in alcune sorprendenti mezze voci; non certo nell’aria Meco all’altar di Venere e nella conseguente cabaletta dove ha esibito i connotati più eclatanti dello statuto tenorile, ma in alcuni lacerti di recitativo con Adalgisa e nella scena finale. Altro trionfatore della serata il basso Michele Pertusi, non certo perché noto beniamino del pubblico parmense, ma per meriti innegabili e suffragati da prove sempre più evidenti del suo sovrano magistero vocale che unisce nobiltà di dizione e pienezza di timbro alle enormi capacità estensive ed espressive nell’aria Ah del Tebro al giogo indegno, ancor più esibite e messe a frutto nella catartica scena finale. Applauditissimo.
Come in ogni produzione lirica di grande livello anche la parte di fila di Clotilde era ben onorata da una vocalità di tutto rispetto, quella mezzosopranile di Mariangela Marini, di cui la regia ha valorizzato il profilo scenico facendola comparire alla fine per deporre i figli di Norma ai piedi di Oroveso nonché dimostrare al popolo gallico la colpa di colei che esso credeva casta e pura. Non da meno il Flavio del tenore John Matthew Myers. Ben diretto dal Mº Martino Faggiani, il Coro del Teatro Regio di Parma ha realizzato quello sfondo misterioso e dolente che costituisce l’anelito più romanticheggiante di Norma prima di emergere in primo piano nello sconvolgente (e attuale quanto mai) Guerra, guerra che le luci sanguigne di Marco Giusti hanno accentuato potentemente, lo stesso coro il quale ha sostanziato quella duplice immensa ondata sonora che sommerge come una immane assoluzione catartica le debolezze umane troppe umane di Norma e Pollione e li consegnano alle fiamme mondati di ogni colpa terrena.
Norma – Teatro Regio di Parma
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma, in coproduzione con Teatro Municipale di Piacenza, Teatro Comunale di Modena
- Norma: ANGELA MEADE
- Pollione: STEFAN POP
- Oroveso: MICHELE PERTUSI
- Adalgisa: CARMELA REMIGIO
- Flavio: JOHN MATTHEW MYERS
- Clotilde: MARIANGELA MARINI
- Maestro concertatore e direttore: SESTO QUATRINI
- Regia: NICOLA BERLOFFA
- Scene: ANDREA BELLI
- Costumi: VALERIA DONATA BETTELLA
- Luci: MARCO GIUSTI
- Collaboratore alle luci: GIORGIO VALERIO
- ORCHESTRA FILARMONICA ITALIANA
- CORO DEL TEATRO REGIO DI PARMA
- Maestro del coro: MARTINO FAGGIANI