Ahmed El Badawi in mostra a Roma


di Flavia Orsati

30 Gen 2025 - Arti Visive

A Roma, presso l’Accademia d’Egitto, è allestita la mostra “Kemet”, prima personale in Italia del pittore egiziano Ahmed El Badawi.

Io soffierò l’aria dolce
che viene dalla mia bocca,
la mia preghiera è che io possa
contemplare ogni giorno la tua bellezza,
che io possa ascoltare la tua dolce voce
che viene con il vento del Nord.
Iscrizione del sarcofago di Smenkhkara

Il 24 gennaio è stata inaugurata, presso la sala espositiva dell’Accademia d’Egitto a Roma, la personale di Ahmed El Badawi dal titolo “Kemet”, visitabile liberamente dal lunedì al venerdì, dalle ore 10 alle ore 16. L’inaugurazione è stata preceduta dal concerto “La musica oltre il buio. Eco di perseveranza” dell’orchestra Al-Nour Wal Amal, con le soliste Basma Ahmed (flauto), Mariz Makram (fagotto) e il direttore Tamer Fahmy. Presente all’evento, oltre che la direttrice dell’Accademia Rania Yehia, anche l’ambasciatore della Repubblica Araba d’Egitto in Italia, S. E. Bassam Rady.

Ahmed El Badawi è un artista cairota, che ha deciso di intitolare la sua prima personale in Italia “Kemet”, termine che letteralmente significa “terra nera”. I Faraoni, anticamente, attribuivano questo toponimo alla terra da loro governata, alludendo al terreno fertile e scuro intorno al Nilo, in contrapposizione alla terra riarsa e rossa delle zone desertiche, chiamate “Desheret”. L’Egitto attribuisce, perciò, da sempre, alla fertilità e alla fecondità della terra un significato salvifico, anche se il dio egizio corrispondente era Geb, divinità maschile.

La pittura di El Badawi, prendendo le mosse da un forte legame con la sua terra, e continuerei ad utilizzare tale termine, anche a rischio di sembrare ridondante, per intendersi un complesso di tradizioni e culture legate ad un ambiente ben specifico, quello Nilotico, tramandato nel corso dei secoli e dei millenni, è strettamente connessa all’immagine – anche fotografica, estrapolata perciò da un dato reale e immanente – e alla percezione che egli ha dell’Egitto. Una terra ancestrale, antica, madre e, per certi versi, matrigna, ma che tra le sabbie del deserto può celare tesori di indicibile bellezza, fisica e metafisica.

Oltre ai paesaggi e alle vedute, rese con precisione lenticolare, densi di un’aura malinconica ed intrisa di vissuto, soggetto privilegiato delle sue tele è il femminile, incarnato nei corpi delle donne che egli ama raffigurare. Le sue sono figure aurorali, epifaniche e salvifiche, che, come le antiche sacerdotesse o Sibille del Mediterraneo, spingono l’uomo ai limiti del proprio essere, vaticinando, avvolte nel loro silenzio criptico, ciò che è, ciò che è stato e ciò che sarà.

La resa dei corpi è volumetrica ed essenziale, procede per modulazioni di forme curve ed asciutte che, giustapposte, ricreano un’unità armoniosa. Nei volti di queste donne si avverte un pacato ma tenace rigore, un tacito e cosciente abbandono al proprio destino. Le vesti bianche spingono l’ontologia ai limiti del sacro e della visione mistica, come se fossero delle nuove Caterina d’Alessandria destinate al martirio e, in virtù di ciò, strumento di redenzione e di salvezza, con forti echi che ricordano la tradizione europea, dallo Stilnovismo Medievale alla sua ripresa, in chiave iconografica, Preraffaellita.

Tali figure sono in grado di trascendere l’illusione cosmica e, seppur immerse in scenari che appaiono naturali, ma che potrebbero al contempo essere proiezioni della coscienza e dello spirito, sublimati a partire dal dato fenomenico, sono portatrici di una forza archetipale prediscorsiva che, grazie alla potenza del simbolo, travalica l’esistenza individuale e la sua negazione, in quanto materializzazione dell’archetipo della Sposa Celeste. Gli ambienti dove le donne sono immerse, infatti, possono rivelare tratti familiari, o ricordare gli interni di abitazioni, fino ad allargare la percezione spaziale alle sacre e rocciose alture del Sinai o alle profonde acque del Nilo, per, infine, smaterializzarsi in pura luce e colore, fusi con l’abito della giovane, ad indicare il suo ruolo epifanico e radiante nei confronti del divino. La donna è, perciò, in El Badawi, athanor, vaso alchemico di perfezionamento che racchiude, in sé, una potenza atta a dispiegarsi in atto, se e quando Lei lo riterrà opportuno.

I manti e i panneggi avvolgono i corpi, svelando come, quindi, le figure femminili, sebbene incarnate, corrispondano ad una precisa metafisica e soteriologia, a quella forza naturale e vivificatrice che bagna la terra di Kemet e, dal primo volgere di Ra, all’alba dei tempi, la rende fertile e latrice di vita.

Queste Dame Celesti incarnano l’essenza dell’Egitto, di ieri e di oggi, di una terra ricca di tradizioni artistiche, oggi più che mai viva, tra molteplici anime e contraddizioni, nutrite di tenui impasti cromatici resi immateriali dall’abbacinante Sole che illumina il fiume più sacro di tutti i tempi. Non è da stupirsi, allora, che la ierofania celeste sia affidata a queste incarnazioni del Femminino Sacro, dense di grazia e ieraticità. Il lato femminile è presente in tutti gli esseri umani, a prescindere dal dato biologico e corporeo, e riconoscerlo non fa altro che porre in alta consonanza con tutto ciò che ci circonda.

Con la sua forza del sacrificio e anche del martirio, per chiudere il cerchio tornando alla santa egiziana per eccellenza, la donna, in quanto figurazione archetipale, è compendio della natura stessa, ordine, Maat, e, come scrive Elèmire Zolla ne L’amante invisibile, “ […] irraggiungibile ma onnipresente, Lei, Natura sempre mutevole, intelligente in modi a noi preclusi, rigorosa e dissipatrice, che ci impone di fremere di desiderio, di illuderci, e che, se proviamo a disingannarci, ci punisce, in noi non tollera la tiepidezza. In una donna mortale si può incarnare, offrendoci la sua pace, che include la trepidazione e il dolore”. Non solo in una donna mortale, ma anche in una donna immaginale, sognata, esperita, dipinta. Perciò, coerentemente alla potenza del simbolo geroglifico, creata.

“Kemet” by Ahmed El Badawi in Rome at the Academy of Egypt

I will blow the sweet air
that comes from my mouth,
my prayer is that I may
contemplate your beauty every day,
that I may listen to your sweet voice
that comes with the north wind.
Inscription from the sarcophagus of Smenkhkara

On 24 January, Ahmed El Badawi‘s exhibition entitled “Kemet” was inaugurated at the exhibition hall of the Egyptian Academy in Rome. It can be visited freely from Monday to Friday, from 10 a.m. to 4 p.m. The inauguration was preceded by a concert entitled “Music beyond darkness. Echoes of Perseverance” by the Al-Nour Wal Amal orchestra, with soloists Basma Ahmed (flute), Mariz Makram (bassoon) and conductor Tamer Fahmy. Present at the event, in addition to Academy director Rania Yehia, was the Ambassador of the Arab Republic of Egypt to Italy, H.E. Bassam Rady.

Ahmed El Badawi is a Cairo-based artist who decided to name his first solo exhibition in Italy “Kemet”, a term that literally means “black land”. The Pharaohs, in ancient times, attributed this toponym to the land they ruled, alluding to the fertile and dark soil around the Nile, as opposed to the parched and red earth of the desert areas, called “Desheret”. Egypt has therefore always attributed a salvific significance to the fertility and fecundity of the earth, even though the corresponding Egyptian god was Geb, a male deity.

El Badawi’s painting, starting from a strong bond with his land, and I would continue to use this term, even at the risk of seeming redundant, to mean a complex of traditions and cultures linked to a very specific environment, the Nilotic one, handed down over centuries and millennia, is closely connected to the image – even photographic, therefore extrapolated from a real and immanent datum – and to the perception he has of Egypt. An ancestral, ancient, motherly and, in some ways, stepmotherly land, but which among the sands of the desert can conceal treasures of unspeakable beauty, both physical and metaphysical.

In addition to landscapes and views, rendered with lenticular precision, dense with a melancholic aura steeped in experience, the privileged subject of his canvases is the feminine, embodied in the bodies of the women he loves to portray. His are auroral, epiphanic and salvific figures who, like the ancient priestesses or Sybils of the Mediterranean, push man to the limits of his being, prophesying, shrouded in their cryptic silence, what is, what has been and what will be.

The rendering of the bodies is volumetric and essential, proceeding by modulations of curved and dry forms that, juxtaposed, recreate a harmonious unity. In the faces of these women one senses a calm but tenacious rigour, a tacit and conscious abandonment to their destiny. The white robes push the ontology to the limits of the sacred and mystical vision, as if they were new Catherine of Alexandrias destined for martyrdom and, by virtue of this, an instrument of redemption and salvation, with strong echoes reminiscent of the European tradition, from Medieval Stilnovism to its iconographic revival in a Pre-Raphaelite key.

Such figures are able to transcend the cosmic illusion and, although immersed in settings that appear natural, yet may at the same time be projections of consciousness and spirit, sublimated from the phenomenal datum, they are bearers of a pre-discursive archetypal force that, thanks to the power of the symbol, transcends individual existence and its negation, as a materialisation of the archetype of the Heavenly Bride. The environments in which the women are immersed may, in fact, reveal familiar traits, or recall the interiors of dwellings, until they broaden spatial perception to the sacred and rocky heights of Sinai or the deep waters of the Nile, and finally dematerialise into pure light and colour, merged with the dress of the young woman, indicating her epiphanic and radiant role in relation to the divine. The woman is, therefore, in El Badawi, athanor, an alchemical vessel of perfection that holds within itself a power capable of unfolding in action, if and when she sees fit.

The cloaks and draperies envelop the bodies, revealing how, therefore, the female figures, although embodied, correspond to a precise metaphysics and soteriology, to that natural and life-giving force that bathes the land of Kemet and, from the first turning of Ra, at the dawn of time, makes it fertile and life-giving.

These Celestial Dames embody the essence of Egypt, of yesterday and today, of a land rich in artistic traditions, alive today more than ever, amidst multiple souls and contradictions, nourished by tenuous chromatic mixtures rendered immaterial by the dazzling Sun that illuminates the most sacred river of all time. No wonder, then, that the celestial hierophany is entrusted to these incarnations of the Sacred Feminine, dense with grace and hieraticity. The feminine side is present in all human beings, irrespective of the biological and bodily datum, and recognising it only puts us in high consonance with everything around us.

With her power of sacrifice and even martyrdom, to close the circle by returning to the Egyptian saint par excellence, woman, as an archetypal figuration, is a compendium of nature itself, order, Maat, and, as Elèmire Zolla writes in “The Invisible Lover”, “ [… ] unattainable but omnipresent, She, Nature always changing, intelligent in ways that are precluded to us, rigorous and dissipating, who forces us to quiver with desire, to delude ourselves, and who, if we try to disillusion ourselves, punishes us, in us does not tolerate lukewarmness. In a mortal woman it can incarnate itself, offering us its peace, which includes trepidation and pain”. Not only in a mortal woman, but also in an imagined, dreamed, experienced, painted woman. Therefore, consistent with the power of the hieroglyphic symbol, created.

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