Ad Ascoli Piceno “l’infinita ricerca della bellezza”
di Flavia Orsati
24 Giu 2021 - Altre Arti, Eventi e..., Arti Visive
Inaugurata ad Ascoli Piceno la mostra “La ricerca della bellezza. La collezione Cavallini-Sgarbi. Da Lotto a Morandi”, presso le sale espositive del Palazzo dei Capitani di Piazza del Popolo.
Solo i tuoi occhi. E i miei. Altro non serviva. (Giuseppe Sgarbi)
Dal 12 giugno al 30 settembre 2021 ad Ascoli Piceno sarà possibile visitare, presso le sale espositive del Palazzo dei Capitani di Piazza del Popolo, la mostra “La ricerca della bellezza. La collezione Cavallini-Sgarbi. Da Lotto a Morandi”. Il tema della mostra è quello della ricerca della bellezza e del bello, la storia di una collezione personale che diventa appassionata caccia e amorosa recherche.
Come Vittorio Sgarbi stesso ha sottolineato, un collezione d’arte privata equivale alla manifestazione fenomenica di un sistema di valori e di simboli di chi quella collezione l’ha creata e messa pazientemente insieme, vedendosela materializzare davanti, pezzo per pezzo, andando a intessere un dialogo tra secoli e tra soggetti e mano pittoriche simili e diverse, che hanno, tuttavia, sempre una costante: le opere acquisite, a volte frutto di scelte intime, meditate, talvolta improvvise e sofferte, creano un fil rouge tra correnti e artisti apparentemente lontani ma che narrano tutte la stessa storia, una storia di amore e di bellezza. La mostra ascolana è il compendio di un percorso lungo quattro secoli, che parte dal Quattrocento e termina, alcune eccezioni escluse, nel Settecento circa, esponendo al pubblico le migliori opere della collezione stessa. La queste è stata realizzata congiuntamente da Vittorio Sgarbi e da sua madre Rina Cavallini, grazie a un sistema di complicità, affinità e silenti corrispondenze ritrovate nei vari secoli, mettendo in dialogo opere d’arte apparentemente lontane ma che condividono sicuramente un aspetto: la ricerca inesausta di un irraggiungibile ideale di bellezza.
L’antologica illustra l’identità di una collezione idealmente senza confini, grazie a una attenta raccolta di opere straordinarie, con un focus particolare sulle scuole emiliane e sui pittori attivi nella zona di Ferrara (come Boccaccio Boccaccino, Nicolò Pisano, l’Ortolano, il Garofalo, Liberale da Verona, Jacopo da Valenza, Giovanni Agostino da Lodi), senza farsi mancare artisti di scuola romana, toscana, marchigiana. Chiude il percorso un pittore novecentesco che dialoga con gli antichi, cioè Giorgio Morandi, il quale ha saputo racchiudere mondi e macrocosmi in piccoli microcosmi domestici, che si fanno, tuttavia, simbolo ed epitome di universi interi.
Per leggere correttamente la mostra occorre pensare che nella casa di Ro Ferrarese, dove tutte queste opere sono disposte, o “semplicemente posate, appese, adagiate”, esse fanno parte a pieno titolo dell’atmosfera domestica, in un dialogo anche qui continuo con i membri della famiglia di adozione. Tutto questo si è realizzato attraverso una caccia senza regole e senza obiettivi specifici, poiché la ricerca della bellezza è un qualcosa di imprevedibile: “Non si trova quello che si cerca, si cerca quello che si trova. Talvolta molto oltre il desiderio e le aspettative”.
Il percorso della mostra si snoda cronologicamente, cambiando essenzialmente colore di epoca in epoca: dopo i rossi e sanguigni Quattrocento e Cinquecento, si passa al verde e speranzoso Seicento, approdando al blu ed etereo Settecento Barocco. Il tema religioso rimane preponderante per tutto il corso dell’esposizione e grande importanza è conferita al tema della Madonna con Bambino e all’elemento femminile in particolare, latore da sempre di bellezza e cifra stesso del concetto di bello. L’elemento religioso, ad ogni modo, è concettualmente colonna portante dell’antologica non per la sua etereità, ma come anelito al bello e all’infinito, storia della costante ricerca della bellezza che attraversa i secoli. Massima sintesi dell’esposizione, allora, è il meraviglioso dipinto di Guido Cagnacci del 1650 circa, l’Allegoria del Tempo (la vita umana), dove una bellissima giovane è immersa in uno scenario cupo, ammonitore, secondo gli schemi propri delle rappresentazioni della Vanitas seicentesca: questa sensualità latente pervade anche i quadri a soggetto sacro, come se la bellezza fosse il solo valore che riesce a procrastinare la fine imminente e improrogabile che tocca in sorte a tutti gli uomini. In un mondo sospeso tra sogno e realtà, c’è una specie di tragicità nella ricerca della bellezza, che si fa sempre effimera, caduca, immateriale: mentre noi agogniamo l’eternità, invochiamo il mito coraggioso dell’uroboro e dell’eterno ritorno, nel mondo fenomenico troviamo continuamente segni del malinconico e tragico sfiorire delle cose. La bellezza della rosa originaria, giovane e rifulgente, scomparirà, cedendo il passo al soffione, pronto ad essere spazzato via dal primo alito di vento e di morte, così come la fiamma vitale al freddo inizierà presto a vacillare, circondata e ammonita dal buio, dallo scorrere del tempo e della morte. In questo scenario, solo quanto c’è di bello è nostro, appunto perché indefinibile, poiché, come ha sottolineato il filosofo di Konigsberg nella sua terza critica, “il bello è ciò che piace universalmente senza concetto” e forse riesce a sfuggire anche alle gabbie concettuali delle categorie a-priori di tempo e spazio e quindi, per sineddoche, alla morte. La facoltà di conoscere ed apprezzare il bello è qualcosa di libero e disinteressato, è puro amore, protrae la vita verso un principio più alto e infinito, come sottolineato da Kant stesso: “il bello implica direttamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della vita”. Un percorso, dunque, alla ricerca di un valore universale e di una narrazione comune a tutta l’umanità e, al contempo, alla scoperta della storia di una singola famiglia, come sottolineato da Elisabetta Sgarbi: “Così ho inteso scrivere, a modo mio, nel solo modo che so, la storia della mia famiglia, Cavallini e Sgarbi”.