A Venezia un “Farnace” a prova di islamofobia
di Andrea Zepponi
13 Lug 2021 - Commenti classica
Una edizione quella del Farnace di Vivaldi al Teatro Malibran di Venezia caratterizzata da soluzioni registiche discutibili e troppo “invasive”. Non al top le voci maschili, meglio quelle femminili. Spiccano le prove di Lucia Cirillo e del maestroDiego Fasolis, interprete autentico dello spirito vivaldiano.
(Photo ©Michele Crosera)
Non si capisce perché un melodramma di Antonio Vivaldi come il Farnace (1727) di tematica storica ambientata al tempo delle guerre Mitridatiche di Pompeo Magno dovrebbe “sembrare al passo con i tempi ed essere assimilato a una “serie di Netflix” come pretende il regista del Farnace vivaldiano, andato in scena a Venezia il 4 luglio scorso al Teatro Malibran, nella versione adattata da Andrea Marchiol. Il discorso programmatico del regista Christophe Gayral parte dal presupposto di dare alla storia del Farnace una interpretazione “basata sul significato del testo, ma libera allo stesso tempo (sic!)”, “ semplice e complicata” (sic!); il suddetto trova inoltre strano (come da programma di sala) che in un’opera di primo ‘700 le battaglie durino musicalmente un minuto, che ci siano incostanze nella condotta dei personaggi, ecc., e allora cerca di ripristinare una “decenza” narrativa in tutto questo coacervo per lui incomprensibile e che neppure il pubblico, capra ignorante per definizione, capirebbe, invocando espressioni quali “l’atteggiamento nei confronti della musica e la sua interpretazione erano molto più aperti e liberi” nel 700, ed “erano molto meno classici e tradizionalisti di quanto lo siamo noi oggi nel XXI secolo”. Questo cadere dalle nuvole, evidente frutto di noncuranza della storia della musica e dell’opera italiana barocca, in cui non esistevano intenti realistici nel libretto e tantomeno nella musica, si traduce per la regia in una presunzione e una volontà assolute di “tirare fuori il meglio dall’opera […] con l’obiettivo di trovare una logica vera nel dispiegamento della vicenda e quindi trovare (ancora!) una nuova drammaturgia coerente” e di rimettere le cose “a posto” per una storia definita con tale penetrante e coerente perspicacia drammaturgica delle note di regia: “atemporale, universale e contemporanea (?!)”. Un regista che si improvvisa musicologo può anche scrivere che “la musica di qualche aria è stranamente, a volte, non completamente in relazione con la narrazione (la musica è leggera mentre la situazione è drammatica)” ribadendo la sua ignoranza in fatto di belcanto barocco dove la musica, concepita con la suddetta astrattezza, non era già più da un bel pezzo, dopo il recitar cantando, una parafrasi del testo librettistico. E in base a quali schemi il “leggero” non sarebbe associabile al “drammatico” dopo la lezione di uno Stravinsky prima e l’esperienza di uno Sciarrino poi? In nome della tipica consuetudine dell’interscambio di morceaux favoris all’interno dei melodrammi vivaldiani e della flessibilità consueta nel mondo barocco del melodramma il regista si permette allora di trattare il libretto con le categorie odierne di una telenovela o di una saga familiare all’interno di un film di guerra e di stravolgere bellamente il finale originario ispirato a principi della clemenza, della civiltà, della conciliazione in vista della pace incruenta, consoni all’età illuministica, trasformandolo in un grand guignol dove tutti alla fine vengono sgozzati e fatti fuori per far trionfare la bandiera verde con la mezzaluna e innalzare agli onori del trono come legittimi regnanti Farnace e Selinda, mentre invece nel libretto avviene tutt’altro, proprio il contrario. Questi sono i frutti di una “nouvelle regie” cui è permesso di tutto tranne che osservare, e magari approfondire, l’assunto originale, con la giustificante che la trama non corrisponde a nessuna verità storica, eccetto il fatto che il protagonista titolare, riottoso contro Roma, venne messo a capo di un regno satellite per opera di Gneo Pompeo Magno. A questo si aggiunge l’arbitrio di sostituire alcuni personaggi ad altri cui certe battute di recitativo sarebbero destinate. I rapporti di forza e di violenza, tanto stigmatizzati nelle note di sala per giustificare lo strampalato e ideologico finale appioppato dalla regia, sono invece gli stessi usati nel testo originale per affermare la clemenza, la civiltà, il rispetto per i rapporti familiari e la pace tra i popoli dove le minacce di morte e di ritorsioni tra Farnace, Berenice, Pompeo e Tamiri, riconducono alla pacificazione e alla ragione gli sdegni reciproci grazie al cedimento della regina Berenice che, con la sua improvvisa clemenza, spezza l’escalation di violenza, ma per la mente di un regista come Gayral tutto questo non può e non deve avvenire. Così Berenice, secondo una palese eterogenesi dei fini, è la prima ad essere tolta di mezzo, poi, uno a uno, vengono falcidiati Pompeo (il quale nella verità storica muore in Egitto per mano di Tolomeo), Aquilio, Gilade e Tamiri così alla fine il pubblico, dopo il coro finale, viene costretto ad applaudire un tableau vivant che inneggia al trionfo del terrorismo islamico con tanto di gigantesca bandiera verde a mezzaluna gialla ostentata alle spalle di un Farnace dalle fattezze di Bin Laden e di una Selinda ricoperta di ampio mantello regale rosso bordato e screziato di ermellino, sebbene in regime di piena attualizzazione che vuole rendere “al passo con i tempi” la resa scenica di un capolavoro vivaldiano. Non si capisce come certe regie che tanto aborriscono le ambientazioni temporali prescritte dal libretto e ritagliano impietosamente arie e recitativi per obbedire alla spocchia ricreatrice del regista, abbiano poi bisogno di certi antiquati orpelli per far quadrare i conti. Però, dall’alto della propria cabina registica, si giudicano incoerenti i personaggi di un melodramma scambiando per incoerenza la normale distribuzione delle arie destinate a esprimere diversi affetti il che costituisce una precisa struttura sintattica musicale. L’impressione, già avuta nel Faust alla Fenice, che le attuali mire registiche puntano ad apparire come osservanti i valori del testo per sferrare solo alla fine i loro colpi in modo subdolo quanto inaspettato al tessuto narrativo-concettuale dell’opera e affermare così la propria visione ideologica, che si risolve spesso in un coacervo di contraddizioni peggiore di quello attribuito all’originale, è la stessa ricevuta dal Farnace al Malibran dove l’ambientazione in un medio oriente occupato da truppe americane e vessato dalla dissidenza terroristica islamica, può benissimo raffigurare la situazione di Farnace che si oppone alla presenza romana appoggiata da Berenice, madre della sua consorte Tamiri da cui ha avuto un figlio: niente da dire su una attualizzazione che ha, a tutta prima, azzeccato la trasposizione in tempi moderni di una vicenda analoga con risvolti similari alla ben nota odierna situazione mediorientale in Siria e paesi arabi; centrata anche la somiglianza del dissidente Farnace a un rappresentante di Al Qaida che si ammanta patriotticamente della bandiera islamica per affermare i suoi diritti al potere, pertinente perfino la scena della copula tra Selinda e Gilade (che ha precisi agganci nella trama), come diversi momenti in cui si realizzavano analogie interessanti, calzanti e frutto di una combinazione bene lambiccata, che purtroppo ha lasciato al finale il compito di vanificare ogni tentativo di riportare la pace da parte di Pompeo dando arbitrario compimento tragico ai complotti di Gilade contro Berenice e di Aquilio contro Pompeo. Anche le scene di Rudy Sabounghi e i costumidi Elena Cicorella avevano un loro analogico perché in cui, mutatis mutandis, alle truppe romane corrispondevano le divise carrozzate della forza americana, di cui anche Berenice assumeva la mise militaresca, e ai soggetti orientali i consueti hijhab con il tipico velame islamico per le donne, e tenute da mujaheddin con turbanti e anfibi per le truppe maschili jihadiste tra cui Farnace ammantato di bandiera islamica; strutture a forma di postazioni da tiro fortificate in cemento armato costituivano una scenografia pertinentemente suggestiva non priva di valori polisemici perché dalle forme colossali e abnormi dei bunker si ritagliavano spazi e ambiti di diversa valenza: il carcere di Selinda, il mausoleo del re del Ponto dove si nasconde il figlio di Tamiri e Farnace, l’alcova approntata nel rifugio militare per gli amori furtivi tra Selinda e Gilade, il podio del trionfo. Non si vede però quale attinenza millantata dalla regia potessero avere il troncone di bunker e il monumento funebre di Antonio Canova alla Basilica dei Frari.
Le luci disegnateda Giuseppe Di Iorio incidevanonella drammaticità dell’azione dell’opera vivaldiana, che risente del retorico gusto napoletano, più per sottrazione che per addizione.
Per venire alle voci, tutto poteva essere tollerato, ma non la mancanza di stile e di tecnica del tenore nel ruolo titolare Christoph Strehl, dalle indubbie potenzialità canore,il quale ha sfoderato un‘agilità imprecisa, priva di controllo del fiato e della corretta proiezione del suono, tare che lo hanno affaticato soprattutto nelle agogiche veloci rendendone precaria la intonazione nei passaggi; fin dalla prima aria, Ricordati che sei, gli stacchi della voce calcati da impennate dinamiche di becero gusto, hanno aggravato il quadro che si è mitigato solo nel pacato momento dell’aria Gelido in ogni vena in cui il tenore ha dimostrato una certa padronanza in legato e omogeneità di timbro, ma nell’ultima aria di furore, Spogli pur l’ingiusta Roma, la voce, ormai alla frutta, arrancava, dispiace dirlo, raschiando nel barile. Avremo il piacere di risentire il cantante dopo un buon annetto di studio. Gli altri due tenori David Ferri Dur in Aquilioe Valentino Buzza in Pompeo hanno messo in campo una tenuta maggiore seppure con un colore vocale discutibile: la distribuzione destina a Pompeo una delle più belle arie già collaudate in altri melodrammi, Sorge l’irato nembo,la famosa e virtuosa aria di tempesta in cui il Buzza ha riscosso diversi applausi. Il controtenore Kangmin Justin Kim nella parte di Gilade ha progressivamente sistemato la propria resa vocale dopo la prima aria Nell’intimo del petto, in cui era sovrastato dall’orchestra, e poi è stato più convincente per l’apparente naturalezza di emissione e la presenza scenica dinamica e accattivante. Decisamente migliore la compagine femminile, ha messo in campo una Sonia Prina in un ruolo femminile, Tamiri, senza il consueto sfoggio di agilità rutilanti, che spesso ne mascherano la vera natura sopranile, e le ha permesso di esercitare la tenuta del legato e una ricerca di omogeneità nei registri con qualche affondo molto bello nella zona grave risultando assai più convincente in questa parte di carattere patetico e affettuoso che in altri ruoli eroici ed eclatanti en travesti. La palma va alla Berenice diLucia Cirillo mezzosoprano versatile dalla vocalità duttile ed eclatante e in seconda battuta alla Selinda diRosa Bove, dall’ampiezza mezzosopranile meno malleabile ma ben spesa nell’equilibrio tra esibizione vocale e scenica. Il plauso maggiore della serata è comunque andato al maestro concertatore e direttore Diego Fasolis che si è posto come interprete autentico dello spirito vivaldiano, il cui linguaggio impiega l’unisono orchestrale e la complessità della costruzione melodica, con rigore e scioltezza enunciando tempi funzionali alla densità della concertazione e alle diverse voci. Alla fine gli applausi sono scrosciati sul coro diretto da Claudio Marino Moretti e sul grande stendardo islamico fatto trionfare dalla regia dopo la strage della clemenza, del perdono e della civiltà.
Farnace
- dramma per musica in tre atti RV 711-A
- libretto di Antonio Maria Lucchini
- musica di Antonio Vivaldi
- prima rappresentazione assoluta:
- Venezia, Teatro Sant’Angelo, 10 febbraio 1727
- versione adattata da Andrea Marchiol
personaggi e interpreti
- Farnace, re di Ponto Christoph Strehl
- Berenice, regina di Cappadocia, madre di Tamiri Lucia Cirillo
- Tamiri, regina sposa di Farnace Sonia Prina
- Selinda, sorella di Farnace Rosa Bove
- Pompeo, proconsole romano nell’Asia Valentino Buzza
- Gilade, principe del sangue reale e capitano di Berenice Kangmin Justin Kim
- Aquilio, prefetto delle legioni romane David Ferri Dur
- Un fanciullo, figlio di Farnace e Tamiri Pietro Moretti / Beatrice Zorzi
- maestro concertatore e direttore Diego Fasolis
- regia Christophe Gayral
- scene Rudy Sabounghi
- costumi Elena Cicorella
- light designer Giuseppe Di Iorio
- Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
- maestro del Coro Claudio Marino Moretti
- continuo Fabio Grandesso
- fagotto barocco Andrea Marchiol
- cembalo Francesco Tomasi
- tiorba Alessandro Zanardi violoncello
Con sopratitoli in italiano, nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice