A Parigi uno splendido Simon Boccanegra
di Alma Torretta
18 Mar 2024 - Commenti classica
All’Opéra Bastille di Parigi è andato in scena il “Simon Boccanegra” di Verdi. Nei ruoli principali Ludovic Tézier e Nicole Car, sul podio il maestro Hengelbrock, la regia è quella di Bieito. Uno spettacolo da non perdere.
(Foto @vincent.pontet – OnP)
Da non perdere in questi giorni a Parigi, sino al 3 aprile all’Opéra Bastille, la riproposizione dell’allestimento di Calixto Bieito del Simon Boccanegra, opera di Verdi che raramente viene così ben messa in valore come merita. Qui tutto concorre a farne un’edizione memorabile: la nota idea registica di base che ammoderna la vicenda con un visuale avveniristica che funziona bene, è arricchita da ottime voci, in primis quelle di Ludovic Tézier e Nicole Car, con soprattutto grandi capacità di farne personaggi d’oggi, ma tutto il cast è ottimo; e poi c’è un direttore d’orchestra, il tedesco Thomas Hengelbrock che, pur non essendo strettamente uno specialista di Verdi, fa il miracolo di farlo suonare dall’orchestra come raramente si sente oggi interpretare Verdi, senza eccessive enfasi o romanticismi, con i giusti ritmi e accenti, con suoni netti e puliti che regalano, come la scenografia, una interpretazione molto moderna, di lucente chiarezza, della scrittura musicale di Verdi.
Le scene di Susanne Gschwender sono la sezione del bulbo di una enorme nave grigia, l’unico riferimento a Genova e al suo mare, bulbo e scafo che girano su se stessi scoprendo un interno a più piani che si fanno palazzi, con ripetitività degli elementi costruttivi che indicano, come vie di fuga, le profondità innanzitutto dell’animo umano, ed in tali cornici dell’inconscio appare sovente Maria, la donna amata da Boccanegra che di tale amore è morta, che gli ha dato una figlia che porta lo stesso nome, ma da tutti conosciuta come Amelia.
Che Ludovic Tézier è un grande interprete della parte si sapeva già avendo cantato il ruolo con successo già al momento della creazione dell’allestimento nel 2018, baritono dall’indole notoriamente verdiana, dall’interpretazione da grande attore, che soprattutto negli ultimi due atti riesce davvero a commuovere e a suscitare l’entusiasmo del pubblico che lo applaude a scena aperta.
Debutto nel ruolo di Amelia/Maria invece per il soprano australiano Nicole Car: che è brava anche di lei già si sapeva, ma qui davvero perfetta per la parte, esattamente in linea con il taglio moderno dato all’opera dal regista perché il suo non è un personaggio sdolcinato ma quello di una giovane donna d’oggi decisa e consapevole e la sua voce luminosa ma forte contribuisce assai in questa direzione.
Al suo fianco Gabriele Adorno, il giovane nemico del padre che ella ama, è interpretato dal tenore americano Charles Castronovo che darà prova di bravura e sfoggerà il suo bel timbro morbido nelle sue arie solistiche.
Molto bene anche il baritono Étienne Dupuis, voce ben impostata e sonora, nella parte del cattivo Paolo Albiani, e il basso finlandese Mika Kares come Jacopo Fiesco, il nemico di sempre di Simone.
I costumi di Ingo Krügleri non fanno distinguere bene i personaggi e le diverse fazioni, riuscito veramente solo il passaggio di Simone da corsaro a doge, per il resto solo i soliti doppiopetto. Qualche appunto negativo anche sui continui primi piani proiettati, soprattutto di Boccanegra, che ormai annoiano; così come il ricorso all’immagine di Maria morta, che probabilmente è vero che era sempre nei pensieri del Boccanegra, ma qui appare decisamente troppo presente e inopportuna, non si capisce bene cosa c’entri a volte con gli avvenimenti in corso (ma molto brava la danzatrice che la interpreta); ed infine c’è il coro che purtroppo è poco incisivo sia a volte perché poco chiaro, sia perché a volte canta volutamente troppo forte con effetto di altrettanta spiacevole sfocatezza. Peccato davvero perché il coro è il popolo, un altro personaggio sempre fondamentale in Verdi. Ma nel complesso l’allestimento di Calixto Bieito non ha perso nulla negli anni della sua potenza visuale essenziale ed evocatrice, che esalta la ricercatezza del libretto così come perfezionato da Arrigo Boito partendo da quello di Francesco Maria Piave, ed il fatto che non ci siano quasi oggetti di scena, se non una specie di secchio da cui Simone beve il veleno che lo ucciderà, ma che invece tutto è mimato e vengono solo lasciati immaginare le porte quanto le spade, contribuisce alla raffinatezza della messa in scena, mai didascalica, con quasi un pudore di sentimenti che non fa mai veramente abbracciare Simone e Maria, come invece indica il libretto, eppure funziona, bastano le parole.