“Apriti cielo”, l’ultimo disco di Alessandro Mannarino
di Alberto Pellegrino
23 Feb 2017 - Dischi
“A tutti i vagabondi delle stelle, a chi viaggia alla leggera, a chi viaggia da solo”, questa è la dedica che Alessandro Mannarino mette nel suo ultimo disco uscito alla fine del 2016 e intitolato Apriti cielo, frutto di un suo viaggio fatto in Brasile, Perù e Colombia alla ricerca di nuove ispirazioni rispetto alle sue radici etniche e culturali rigorosamente romane, un viaggio all’interno di musiche lontane da ogni riferimento nordamericano, ma ispirate alla salsa, alla bossa nova e al samba.
Mannarino dice di essere stato influenzato da una frase di Vinicio De Moraes che diceva: “Il samba è una tristezza che balla” e nel suo particolare momento esistenziale il cantautore romano ha cercato qualcosa che coniugasse la sua “rabbia” interiore alla bellezza e alla semplicità di una musica che affonda le proprie radici in una straordinaria tradizione popolare. Con i suoi primi lavori Mannarino si era conquistato un posto tra i cantautori della scuola romana, proponendosi in senso antropologico, sociologico, poetico e musicale come il nuovo portabandiera della romanità, con lo stile ruvido e sincero, ironico e graffiante, appassionato e umano di un autentico cantastorie che trae ispirazione dalla strada e dalla gente in mezzo alla quale vive. In seguito era nata in lui questa voglia di uscire dalla città e di mettersi in viaggio senza interrompere i legami con il passato.
Apriti cielo rappresenta la prima tappa verso nuove avventure culturali e musicali pur restando fedele al suo stile, perché Mannarino nel profondo dell’anima è rimasto legato alla Roma delle borgate e dei vicoli, a quei i colori che ritornano puntualmente, ma in maniera più sfumata nei suoi testi anche durante il suo viaggio in Sud America, dove ha scoperto nuove radici con la tradizione popolare. Mannarino non rinnega quella sua vena poetico-musicale dichiaratamente anarchica e rimane un cantante nazionalpopolare capace di arrivare direttamente alla gente. Non bisogna tuttavia farsi ingannare dalla prima lettura dei lavori di questo autore che ha solide radici culturali e un solidissimo modo di scrivere e di comporre, dal quale traspare, da un lato, un immaginario con una precisa componente folk, dall’altro una ricerca post-folk di tipo colto e sperimentale. Infatti, in questo disco di Mannarino è possibile ascoltare una musica pop che si fonde con la tradizione popolare con una sapienza di suoni e una scrittura non consuete, con una voglia di raccontare sempre storie, vicine al teatro-canzone, che toccano i sentimenti più intimi dell’uomo, impiegando ancora una volta un mix tra la lingua italiana e il dialetto romano, in cui la parola si fonde con il consueto tessuto musicale fatto di rabbia e passione, di quella genuina bellezza che l’autore raccoglie per le strade per esprimere un’intensa, a volte sprezzante verità.
La prima canzone Roma è un omaggio d’amore dell’autore alla sua città, senza nascondere nello stesso tempo quello stato di decadenza che la caratterizza: la città nasconde la pistola sotto “lo scettro e la corona, la tonaca e la stola”, la città un tempo “giovane e ribelle” è stata violentata dalla “bandiera co le stelle/sul letto de battaja delle sette sorelle”. Ora l’autore si chiede come sia potuto nascere questo suo “amore all’incontrario”, dato che “eri giovane e ridevi della vita, poi hai creduto alla bucia de un mercante forestiero e der magnaccia de la compagnia”. Persino la protesta è soffocata dalle campane che “sonano a morte”, ma “tu che rimani strilla più forte”. Apriti cielo è una delle canzoni più belle scritte da Mannarino; è l’inizio di un viaggio dello spirito, un’immersione nell’avventura e nelle dolorose realtà dell’oggi, un appuntamento con la vita per vincere la solitudine dell’uomo contemporaneo: “Apriti cielo/sulla frontiera/sulla rotta nera…/per chi non ha bandiera/per chi non ha preghiera…e manda un po’ di sole/su chi non ha nulla/su chi non ha ragione”, per superare le barriere della notte e poter camminare tra milioni di persone. Nella terza canzone, Arca di Noè, la biblica nave diventa la metafora di un mondo che va alla deriva, di un mare dove l’uomo si smarrisce condannato a vagare per l’eternità. Nella canzone Vivo si mescolano tristezza e allegria (“Vivo senza un motivo/vivo anche solo per sentirmi vivo”), perché la vita è una galera dalla quale si esce per ballare e per andare in cerca di sogni e di donne, per aggrapparsi alla vita e alla poesia, portando “scavata sulla fronte una poesia bellissima/riga su riga l’ho scritta ridendo piangendo, vivendo la vita/riga su riga l’ho scritta me ne andrò senza averla capita”. Gandhi è un lungo blues che contiene il malinconico ricordo dei raduni nelle piazze, quando si andava in cerca di un nuovo modo di vivere, di una nuova civiltà. Mannarino, con doloroso sarcasmo e ironia, ci ricorda che è stato tutto inutile, perché ora siamo tutti in fila con i polmoni inquinati per andare dal droghiere o nei grandi magazzini intitolati a Gandhi, per ascoltare una lezione sui discorsi di Gandhi, per vedere intitolate al Mahatma le scuole di borgata e gli istituti tecnici, per imporre il suo nome alle lavatrici, mentre si va nelle fabbriche e nelle carceri a parlare di Gandhi, si sfruttano le persone nelle fabbriche cinesi, nei campi calabresi, per la raccolta dei pomodori nel Sud. Così Pulcinella (il simbolo della nostra Italia) si toglie la maschera e vestito di bianco prende l’aperitivo senza ricordare che nel mondo “c’è chi fa lo sciopero della fame e chi sciopera perché ha fame”, con l’immancabile arrivo della polizia che non ha mai letto nemmeno un libro di Gandhi, il quale diventa una figura da usare per tutto e il contrario di tutto, secondo l’imperante ambiguità del nostro tempo. Babalù, con i suoi ritmi tribali e il samba, appare come un rito esorcistico contro la violenza e il dolore, contro il mostro della modernizzazione occidentale. Le rane sono un ritorno alla memoria del passato, alla propria casa, alle tradizioni familiari, perché nel vivere una nuova avventura ti accorgi che “dove sei arrivato c’è solo spazzatura/ti scaldi con il fiato e c’è da aver paura”. La frontiera è un’intensa ballata accompagnata da una bella melodia, dove si racconta una storia ambientata durante il fascismo, “quando una voce più forte dell’altra parlò dal balcone/Una folla più grossa dell’altra decise il da fare”. Due ballerini di colore sono stati catturati, picchiati e trascinati su un campo di neve, dove i soldati videro che avevano il sangue simile al loro. Di fronte al plotone d’esecuzione la donna volle fare l’amore, dicendo che “vedano gli esseri umani come son nati”. Il soldato miope prese la mira, il soldato sciancato si preparò a sparare, ma il soldato più silenzioso ordinò di abbassare i fucili e disse: “Guardateli bene, si lamentano uno con l’altro, son/tutti contorti, ecco che cadono a terra, guardate, son morti”. Allora i soldati se ne andarono, non sapendo che quei due, grazie all’amore, erano “appena rinati”. Il disco si chiude con Un’estate, una canzone ancora dedicata alla memoria e alla paura della guerra, quando “i maestri elementari/cercavano nelle case popolari/futuri manovali e ballerine”, le donne sembravano rifiorire a primavera, i giovani tenevano lontana “quella voglia di morire”, rifugiandosi in un albergo a ore senza mai pensare che quello fosse amore, mentre fuori i soldati marciavano a tempo e si materializzavano mostri terreni pronti a colpire giovani fratelli più sfortunati.