Vinicio Capossela e il suo nuovo disco “Le Canzoni della Cupa”
di Alberto Pellegrino
22 Ago 2016 - Dischi
Vinicio Capossela ha scritto un’epopea popolare calitrana contenuta nel disco Le Canzoni della cupa, un’opera visionaria che affonda le sue radici nella cultura contadina dell’Irpinia, perché Calitri è il piccolo paese dove è nata la famiglia del cantautore da dove è poi partita per stabilitasi a Hannover, luogo di nascita di Vinicio. Si tratta di un disco monumentale composto di due cd intitolati Polvere e Ombra, nato con tutti i presupposti per non avere alcun successo secondo le leggi non scritte dell’industria discografica, invece il disco è stato per buona parte dell’estate ai vertici delle classifiche ed è stato recensito in maniera più che positiva dalla rivista mensile Mojo, la bibbia inglese della musica.
In dieci anni di duro lavoro Capossela ha in gran parte tradotto in lingua e modernizzato sotto il profilo musicale le canzoni del cantautore foggiano Matteo Salvatore, il quale ha raccontato la fame e la rassegnazione del Sud, l’ingiustizia e la sopraffazione del mondo del latifondo meridionale; ha fatto ricorso ai suoi ricordi personali soprattutto legati al mondo contadino e a quella piccola costellazione di figure umane e animali che ruotavano intorno a esso; è andato alla riscoperta delle radici del patrimonio musicale popolare tramandato dalla tradizione orale, dando a esso una nuova dignità culturale, ricollegandosi a quel lavoro importantissimo fatto negli anni Settanta da Roberto Leydi e Giovanna Marini, dal Nuovo Canzoniere Italiano e da altri gruppi di ricercatori ed esecutori musicali.
La differenza sta nel fatto che, mentre quei personaggi del passato facevano una riscoperta e una interpretazione filologica di quei canti, Capossela ha riproposto queste composizioni senza ambizioni filologiche, ma inseguendo e ridando vita a storie del passato come del resto aveva già fatto con il Ballo dei tarantolati, in cui si avvertivano gli influssi della Terra del rimorso di De Martino, Furore di Steinbeck e i Tarantolati del Salento.
Del resto, questo bisogno di andare alla ricerca delle proprie radici non ha mai abbandonato il cantautore che ha saputo andare alla scoperta del mito in Ovunque proteggi (2006), un disco dove si avverte il riuscito tentativo di coniugare il mito alla contemporaneità come si avverte, per esempio, nel brano Brucia Troia che è un incipit tratto da Edipo Re. Questa ricerca è poi continuata con Marinai, profeti e balene (2001), un disco profondamente legato alle grandi tradizioni arcaiche nate intorno al Mare Mediterraneo perché, come afferma Capossela, “nella cultura mediterranea non abbiamo i grandi spazi ma la grande profondità sì. L’arcaico convive in noi, nelle radici delle nostre parole, è un pozzo, si scava: un po’ di terriccio e c’è la civiltà contadina, scavi ancora un po’ ed è la nostra infanzia del mondo”.
Capossela non sa tuttavia stare fermo, non rimane immobile a gustarsi il successo e mentre i due dischi suddetti stavano scalando le classifiche, ha lavorato in silenzio a questa opera monumentale, sostenendo che è necessario stare sempre in movimento e scavare dentro di noi con i nostri dubbi, certezze e contraddizioni come di dice nella sua canzone-manifesto: “È il tempo per partire, il tempo per restare, il tempo di lasciare, il tempo di abbracciare. In ricchezza e in fortuna, in pena e in povertà, nella gioia e nel clamore, nel lutto e nel dolore, nel freddo e nel sole, nel sonno e nell’amore. Ovunque proteggi, proteggimi dal male. Ovunque proteggi la grazia del mio cuore”.
Capossela ha affermato che questo disco parla di “un’epoca in cui quando incontravi altri esseri non si poteva sapere con certezza se fossero animali, demoni o dei” e che in queste canzoni sono presenti le creature della Cupa che “non puoi vedere né toccare ma loro vedono e toccano te”; si tratta di ombre misteriose che emergono dal passato e che è possibile incontrare lungo queste strade polverose dove s’intrecciano il passato e il presente.
Le Canzoni della Cupa nascono per raccontare quella parte del Mezzogiorno lontana dal mare, senza grandi città, con i paesi arroccati sopra le rocce come a voler difendersi dai pericoli del mondo. “Polvere – scrive Capossela – è la schiuma della terra, terra seccata dal sole, dal vento, dal tempo. Ma polvere è anche humus, umano, la polvere che ci ha originato e a cui torneremo. Polvere sono le radici, effimere, che ci legano alla terra. Queste canzoni sono esposte al secco, al lavoro della polvere, ma sono anche la terra in cui affondano le radici di questi canti”.
Capossela manifesta la sua vena di narratore con storie che hanno un forte contenuto esistenziale e hanno come protagonisti uomini e donne che un tempo abitavano questi luoghi di sole e di sudore: il disco si apre con Femmine, un canto di lavoro delle “tabacchine” che accompagnava il loro duro impegno lavorativo; La padrona mia è dedicata a una signora della masseria che colpiva la fantasia maschile per la sua femminilità dirompente ma inaccessibile; Dagarola del Carpato è una povera donna con la mente sconvolta per la morte del suo uomo, la quale passa per le vie del paese rasente ai muri e prega in chiesa nascosta negli angoli più bui; L’acqua chiara della fontana è una specie di ballata trobadorica nella quale si racconta la storia di una fanciulla che, accanto all’acqua limpida di una fonte, viene adescata da un nobile cavaliere con la proposta di donarle molti marenghi d’oro in cambio del suo corpo e sarà la madre a convincere la giovane ad accettare la generosa offerta che servirà per farsi la dote, ma all’alba il cavaliere piange perché deve partire e abbandonare questa fanciulla, anche se lei gli dice che “su questo petto mio se vuoi ti puoi attardar”; Zompa la rondinella è una ballata dedicata a Filomena, una giovane nata nel Picone e innamorata di uno strano prete soprannominato Pescatamonte; Franceschina la ciarlatana è una specie di Bocca di rosa del Sud che, durante la costruzione della ferrovia subito dopo l’Unità d’Italia, dispensava i suoi favori a ingegneri e assistenti, mentre i poveri manovali rimanevano a guardare; Sonetti è il doloroso canto d’amore di un uomo che si è allontanato dalla sua donna, la quale ora non lo vuole più (“Mannaggia il giorno e l’ora che/da te mi allontanai ora/vorrei tornare ancora, ma/non riesco a tornare mai”); Faccia di Corno e L’aggiunta sono due canzoni che hanno il taglio della “serenata a dispetto”, nella quale si passa dall’esaltazione all’ingiuria, dal dolore per un sentimento amoroso in crisi alla consapevolezza che tutto sia finito (“Dal mio cuore ora, per sempre tu, te ne sei uscita”); Petterossa è l’omaggio a una donna che mette in mostra la generosità del suo petto che ha il colore del pettirosso.
Le altre canzoni sono più legate ai sentimenti e alla vita di tutti i giorni: Il lamento dei mendicanti è un blues della fame e della sete che parla di quei vagabondi coperti di stracci impegnati a cercare in qualche modo di sopravvivere alla loro stessa miseria; Nachecici è un canto rurale esistenzialista che invita a godersi la vita infischiandosene della morte: “Chi more/chi campa campa/e nu’ piattu de maccaruni con’ la carna”; Lu furastiero tratteggia la figura di un vagabondo che dorme sull’aia, al fresco e sotto le stelle; Rapatatumpa ripete il rullo del tamburo del banditore quando nei caldi pomeriggi estivi ricorda alla gente alla gente, come in un lugubre canto funebre, i tormenti della fame, la durezza del lavoro e soprattutto il dramma della morte (“La vecchia non vuole morire/il giovane vuole campare/la morte se ne frega/chi tocca tocca l’adda acchiappà”); La lontananza ricorda la dura vita dei pastori che vivono soli con il loro gregge senza avare paura del tuono o della tempesta, del vento o della fame, ma che soffrono a stare lontani dal proprio amore, che è “un filo teso chi amiamo e chi ama”; il primo disco si chiude con La notte è bella da soli, appassionato canto notturno di un solitario cantore che si aggira per le strade del paese abbandonato da tutti, che ha per compagni solo il suono dei passi, il gocciolare delle fontane, le lotte fra cani e gatti, l’ululato lugubre del lupo mannaro.
Nel secondo disco si parla ancora di questi paesi della “Cupa” che hanno ognuno un luogo meno battuto dal sole, dove l’immaginario collettivo ha collocato le figure e le leggende che sono più legate al patrimonio etnico-antropologico: “Ombra – scrive Capossela – è la fronda generata dalle radici, l’intreccio dei rami che quella polvere ha prodotto. Ed è anche ombra il lato delle creature che non si chiariscono allo sguardo, il lato dei presagi, degli uccelli che volano la notte, il lato del racconto che desta meraviglia e inquietudine. E ombra è anche quella che lasciamo sulla terra andandocene”.
Sono presenti tutte le Creature della Cupa, per cui si può sentire un fruscio che, come un’onda, passa in mezzo alle spighe: è la bestia del grano, un demone meridiano da cui il mietitore deve guardarsi con attenzione soprattutto “nell’ora della controra”, quando non si riesce a vedere la propria ombra; si può essere catturati dal richiamo del Pumminale che ti fa rotolare nel fango; è possibile essere assaliti dal Maranchino che ti fa sentire fiacco, che “ti rode la testa e non ti fa dormire”, oppure dalla Malombra che ti blocca il respiro e ti opprime il petto con un peso; si può avvertire la presenza del Mazzamurello che sposta i mobili della casa e nasconde le cose; infine, sotto la luce della luna, possono volare le Masciare che “ti guastano le ossa e attaccano al tetto/Non ti affacciare a vederle passare/per fare grasso ti possono bollire/lo spalmano nude, e come le gatte/dei loro versi riempiono la notte”.
Vi sono poi storie di gente comune come i mulattieri (Scorsa di mulo), che sono dei vagabondi e non dei “cavalieri”, sempre alle prese con animali cocciuti come asini e muli. Sono ricordate le ricorrenze religiose come la Notte di San Giovanni, quando le ragazze cercano di scoprire chi sarà il compagno della vita, mente nell’acqua del bacile le ombre di Salomè ed Erodiade si accusano per l’eternità; L’angelo della luce ossia la festa dell’arcangelo San Michele che, con la spada di fuoco in mano, guida in pellegrinaggio mendicanti e accattoni, guaritori e simoniaci, predicatorie e commercianti della fede. Nei Componidori si parla della festa pagana del carnevale, quando è lecito sovvertire l’ordine sociale costituito. In Maddalena la castellana si racconta la storia di un amore clandestino che sfocia in un aborto notturno dominato dalla nera figura della “vammana”.
Tre canzoni sono dedicate agli sposalizi che nella cultura contadina hanno costituito un evento di fondamentale importanza, sia il matrimonio venisse celebrato alla luce del sole con la partecipazione di tutta la comunità, sia fosse fatto di notte in clandestinità, senza festa e senza banchetto, con la consapevolezza di possedere l’amore come unico. Nello Sposalizio di Maloservizio le nozze risultano alquanto tormentate per colpa delle Masciare, per cui durante la notte un invisibile filo ha legato l’uscio di casa al cancello del camposanto, una metafora popolare che vuole ricordare come nel letto nuziale nasce la vita per poi sfociare nella morte.
La canzone, che chiude il secondo disco, s’intitola Il treno, una specie di demone che un giorno è arrivato e ha portato via con sé tutti gli abitanti del paese rimasto così deserto, poiché tutti hanno seguito il richiamo della sirena che ha suonato alla stazione quando “Il treno è arrivato una mattina/come un uccello dalla collina/sui binari ha aperto le ali/e dentro il petto se li è portati”, così tutti sono saliti su quel treno e sono partiti per terre sconosciute, compreso il padre del cantautore.