VERDI A MILANO: LA MOSTRA
Gianluva Verlingieri
20 Mar 2001 - Commenti classica
MILANO, Marzo 2001 Non fu certo il caso a spingere Pablo Picasso nel 1951 a scegliere la sala delle Cariatidi di Palazzo Reale quale unica sede espositiva italiana per il suo Guernica: un medesimo spettro di umana follia aleggiava tanto nel quadro ispirato ai bombardamenti nazifascismi dell'omonimo villaggio spagnolo in piena guerra civile quanto nei drammatici sfregi patiti dalla sala nobiliare milanese durante la pioggia di ordigni alleati del 15 agosto 1943.
Al caso non si è affidato nemmeno Pier Luigi Pizzi, scegliendo cinquant'anni dopo Picasso quella stessa sala (sapientemente restaurata insieme a tutto il piano nobile della reggia meneghina, ma con le statue lasciate volutamente mutilate per non cancellare i segni della storia) per farne l'autentico centro emozionale della retrospettiva Giuseppe Verdi. L'uomo, l'opera, il mito, recentemente conclusasi nel capoluogo lombardo.
Da uomo di teatro qual è (sarà possibile apprezzarne il talento di regista e scenografo ne Il trovatore in programma al Maggio Musicale Fiorentino) Pizzi si è tolto la soddisfazione di riempire le imponenti volumetrie della sala delle Cariatidi con una spettacolare ricostruzione a grandezza naturale del palcoscenico e del boccascena della Scala come apparsero l'8 febbraio 1872 agli spettatori della prima italiana dell'Aida, con tanto di copie fedeli dei costumi e delle scenografie originali di Girolamo Magnani per la scena del Trionfo.
Non dimentichiamo che per Verdi la messa in scena era essenziale ricorda lo stesso Pizzi in un'intervista pre-vernissage al Corriere della Sera qui non c'è teatro ma solo la sua rappresentazione. Quello che volevo evitare era il rischio di una mostra ad alto tasso cartaceo. Documenti, lettere, manoscritti sono necessari dal punto di vista storico, ma per far rivivere un uomo, soprattutto uno come Verdi, la cui musica e la cui vita sono intrise di grandi passioni, c'era bisogno di qualcosa in più: un'emozione . Ed è l'emozione della ricostruzione di ambienti il vero leitmotiv trasversale dell'esposizione che affianca il filo conduttore tradizionale della mostra: alcune sale dedicate all'uomo Verdi, altre alla sua opera e altre ancora ad uomo e opera nei loro contorni ormai sbiaditi dall'ascensione alle più alte regioni del mito.
Emozionante è cogliere l'uomo Verdi nella dimensione di alcuni luoghi simbolo della sua esistenza fedelmente ricostruiti: dalla facciata dell'umile casa natale delle Roncole di Busseto (che funge inoltre da scrigno ad un feticcio museale del calibro della spinetta su cui vennero strimpellate le prime note) sino alla stanza dell'Hotel de Milan dove Il Maestro si spense nel silenzio ovattato delle strade coperte di fieno affinchè il passaggio delle carrozze non arrecasse disturbo. Non poteva mancare la stanza da letto della villa di S. Agata di Busseto, rifugio verdiano dopo i cosiddetti anni di galera in cui il nostro sfornava più di un'opera all'anno ed era costantemente in viaggio per l'Italia e per l'Europa: accanto al letto a baldacchino campeggiano il gran coda Erard e quell'imponente quanto eccentrico scrittoio assurti a fucina di capolavori dagli anni Cinquanta dell'Ottocento.
Emozionante a dire il vero è anche il fruire di certi documenti incrementanti ciò che Pizzi ha definito il tasso cartaceo della mostra, a partire dal verbale dell'infelice esame di ammissione al Conservatorio di Milano sostenuto dal giovane Verdi nel 1832 (per la commissione 19 anni erano davvero troppi per rimediare ad una errata impostazione della mano) e finendo con certi versi dei libretti in primis quello de La traviata caduti sotto gli strali della censura: spontaneo abbozzare un sorriso scoprendo che il celeberrimo Libiam ne' dolci fremiti che suscita l'amore altro non è che la versione epurata dell'originario Libiam ne' dolci fremiti che suscita il licore .
Non lasciano indifferenti al pari della quadreria di Francesco Hayez (alla cui pittura storica di soggetto spesso affine ai melodrammi verdiani è dedicata un'intera sala) o della nutrita collezione di bozzetti di scena e figurini per le prime rappresentazioni nemmeno le storiche copertine de La Domenica del Corriere con la morte e i funerali di Verdi mirabilmente illustrati da Achille Beltrame. Del resto già in apertura del percorso espositivo ci s'imbatteva in una gigantografia delle esequie del Maestro, teleologica prefigurazione di quella dimensione mitica oggetto della terza ed ultima sezione della mostra.
In queste rimanenti sale l'attenzione del visitatore è calamitata dall'ennesima ricostruzione spettacolare: un modello in scala del monumento realizzato a Parma in occasione del primo centenario della nascita di Verdi (1913). Ma se capitate da quelle parti non pensate di poter visitare l'originale: quest'ampio emiciclo a doppie arcate unite in centro da un arco trionfale e contornato da ventotto statue simboleggianti ciascuna opera verdiana non c'è più, anch'esso vittima di quel bellico orrore moderno emblematicamente reso dalle picassiane forme spasmodiche di Guernica.
(Gianluva Verlingieri)