Alla Scala una “Turandot” di caratura internazionale
di Alberto Pellegrino
16 Mag 2015 - Commenti classica, Musica classica
Milano – Dopo la bella Carmen di Emma Dante, dopo un mediocre Don Giovanni e una pessima regia dell’ultima Traviata, finalmente ritorna alla Scala uno spettacolo di livello internazionale con questa Turandot voluta e magistralmente interpretata dal nuovo direttore musicale del teatro scaligero Riccardo Chailly che, oltre ad essere un raffinato musicista, è anche un grande e appassionato interprete di Puccini. Con la sua direzione egli ha dimostrato che questo compositore non è il liquidatore del melodramma ottocentesco, ma è il più grande operista del Novecento europeo, cosa che si avverte anche attraverso la sottolineatura delle citazioni da Debussy, Stravinsky e Bartok. Ci siamo trovati di fronte a uno spettacolo di straordinaria modernità accolto con dieci minuti di applausi finali, nel quale sono state eliminate tutto il “mieloso pucciniano” di maniera, sono state abolite tutte le “cineserie” di tipo circense. Infine è stato sempre Chailly a scegliere il finale del terzo atto composto da Luciano Berio e non quello tradizionale di Alfano; Berio nel 2001 ha ripreso 23 dei complessivi 30 appunti lasciati da Puccini prima della morte, combinandoli con una serie di rimandi a temi musicali già presenti nell’opera pucciniana. “La versione che eseguiremo – ha detto Chailly – esprime la grandezza del genio di Berio, un grandissimo autore che sapeva andare sotto pelle all’autore che avvicinava. Con lui Turandot nel giorno dell’Expo sarà un capolavoro” anche se è stato scelto tratta di un finale poco noto e poco eseguito, perché è molto difficile e impegnativo sotto il profilo musicale e vocale.
Tutti i vari interpreti sono stati all’altezza della situazione, accompagnati da un’orchestra scaligera e da un coro in grande forma. Molto bravo il soprano svedese Nina Stemme che appare una Turandot prima una inavvicinabile e terribile dea della morte, poi una donna-ragno pronta a divorare ogni maschio sospinta dal ricordo ancestrale della sua antenata violentata dai nemici della Cina, per diventare infine una donna libera da orpelli e tabù pronta a ricambiare l’amore di Calaf. Spettacolare si può definire l’interpretazione di Liù da parte del soprano italiano Maria Agresta, che ha disegnato con grande raffinatezza e intensità drammatica il suo difficile personaggio, ricevendo il più lungo applauso personale. Una citazione particolare meritano anche gli interpreti dei tre ministri Ping (Angelo Veccia), Pang (Roberto Covatta) e Pong (Blagoi Nacoski). Un discorso a parte spetta al tenore lettone Aleksandrs Antonenko: premesso che le mie preferenze vanno per i tenori di scuola italiana, non sopporto i tenori “urlatori” dalla emissione ingolata e dallo stile alquanto rozzo; nei panni di Calef egli ha iniziato e concluso l’opera senza un guizzo interpretativo, senza un briciolo di passione, in evidente difficoltà nel finale di Berio, dove bisognava “cantare” e non “urlare”. Nonostante le donne pucciniane sovrastino nettamente i personaggi maschili, Calaf è una figura abbastanza complessa: principe senza regno, metà avventuriero e metà vagabondo, in cerca di riconquistare la gloria e il potere sfidando la morte, entra in crisi di fronte al vecchio padre cieco e alla dolce Liù, per poi scoprire, di fronte all’esempio della schiava che lo ama fino al sacrificio della vita, che il sentimento più importante è l’amore, per cui nel terzo atto acquista un più alto e nobile spessore morale.
Naturalmente Antonenko non si accorge di tutto questo e procede senza sfaccettature, fatta forse eccezione per l’aria “Non piangere Liù”, dove riesce a trovare un minimo di calore umano.
Concludiamo con la bella messa in scena tutta di marca tedesca e soprattutto legata alla grande stagione figurativa dell’Espressionismo. Il regista Nikolaus Lehnhoff ha voluto sottolineare gli aspetti drammatici dell’opera suggeriti anche dal bellissimo dramma musicale di Giuseppe Adami e Renato Simoni, due notevoli personalità del teatro italiano del Novecento, che sono riusciti a porsi sulla scia dei grandi librettisti pucciniani (Luigi Illica, Giuseppe Giacosa, Gioacchino Forzano). La regia ha saputo guidare gli interpreti e muovere con efficacia le masse corali; è riuscita a creare un’atmosfera d’incombente tragedia che si è sciolta solo nel finale; ha messo in evidenza la natura e lo spessore psicologico di quasi tutti personaggi; ha introdotto la presenza in scena del cadavere di Liù fino al termine dell’opera, intorno al quale ruotano i due protagonisti che cercano di ritrovare una dimensione umana e sentimentale. Perfettamente in linea le scelte scenografiche di Raimund Bauer che ha costruito una Pechino claustrofobica chiusa tra le pareti rosse e nere, cupa come un carcere nel primo e secondo atto, quando si consumano la tragedia degli enigmi non risolti e la vittoria di Calaf. Nel terzo atto infine la luce inonda la scena attraverso una serie di finestre a sottolineare il cammino di Turandot verso la conquista della propria umanità. Completano lo spettacolo i bellissimi costumi di Andrea Schmidt-Futterer e le luci molto intense di Duane Schuler, tutte giocate sulle tonalità del blu e del rosso.