Proiezioni d’artista a Firenze: “Van Gogh Alive”
di Samantha Monaldi
24 Mar 2015 - Altre Arti, Eventi e..., Arti Visive
FIRENZE (Marzo 2015) – A due passi da Ponte Vecchio, è in corso una mostra suggestiva e sui generis, allestita nella Chiesa sconsacrata di Santo Stefano al Ponte, offre un modo originale di vivere e conoscere l’arte figurativa, attraverso una fruizione di tipo multimediale. I capolavori di Van Gogh prendono vita mediante giochi di animazioni, un trionfo di luci, colori vividi e musiche. In particolare, si tratta di una serie di proiezioni realizzate con l’innovativo sistema SENSORY4 della Grande Exhibitions, applicato a ben quaranta proiettori disposti in tutto l’ambiente, permettendo una grafica multicanale e un suono surround proprio come quello del cinema. In questo modo viene composto un museo impossibile, in cui le opere dell’artista si stagliano innanzi agli spettatori su pannelli giganti, sulle pareti della Chiesa, sul pavimento e sulle nicchie, ricalcandone esattamente i profili architettonici. Ne deriva un’esperienza davvero unica, coinvolgente ed affascinante. Oltre tremila immagini proiettate ad alta definizione offrono la possibilità di viaggiare nel mondo intenso e creativo di Van Gogh, consentendo anche una visione ravvicinata dei dettagli delle opere e della straordinaria tecnica utilizzata. Il ritmo della mostra è scandito da diversi momenti che segnano i passaggi cruciali dell’evoluzione artistica ed esistenziale del pittore, il tutto arricchito sia dalla proiezione dei disegni delle opere, che rappresentano gli studi precedenti ai capolavori e ne segnalano la genesi, sia dalla proiezione delle lettere scritte dal pittore per il fratello Theo e per gli amici, in cui egli narra i propri vissuti legati al lavoro di pittura e quelli relativi alla tragicità della sua vita interiore. È proprio quest’ultimo aspetto, la dimensione della follia psichica, che forse colpisce maggiormente, quando si entra in contatto con le meravigliose opere di Van Gogh. Ciò che più coinvolge e sconvolge è l’evidenza di un’apparente paradossalità tra la consapevolezza che abbiamo della genialità creativa dell’artista e la doverosa accettazione del fatto che essa si unisce alla consapevolezza della follia psichica che colpì il pittore, come anche accaduto a molte altre figure importanti sul piano artistico ed intellettuale del passato. Pensiamo a Friedrich Nietzsche o anche a pittori come Edvard Munch, affetto da una sindrome schizoide; Francisco Goya che sviluppò una encefalopatia a seguito di un’intossicazione da piombo, allora contenuto nei pigmenti dei colori, che gli provocò sordità e disturbi della personalità; Jackson Pollock, il cui talento spiccò nonostante l’altalena tra gravi problemi di alcolismo e intense cure a base di psicofarmaci. Volendo spaziare in ulteriori ambiti, vengono alla mente tutti quegli indimenticabili musicisti che, provenendo da un passato difficile, oscillando tra un eccesso e l’altro ed entrando nel turbinìo mortifero della tossicodipendenza, hanno, nonostante ciò, fatto la storia della musica rock internazionale. Primo fra tutti: Jim Morrison, e la sua band, The Doors, che trasse il nome, dall’opera di Aldous Huxley, The doors of perception (Le porte della percezione), del 1954, in cui l’autore descrive la particolare esperienza che si vive dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti, ponendo l’attenzione sulla vivificazione dei colori. Dunque, si capisce come in determinate persone l’alterazione della personalità e dell’integrità psichica, che sia dovuta all’insorgenza di un disturbo mentale o che sia provocata dall’assunzione di droghe, abbia come risultato l’apertura delle porte della percezione, ovverossia il dischiudersi di mondi altri, della capacità di percepire l’ambiente circostante in maniera diversa, inconsueta, nuova, attraverso una modalità che va al di là dei significati socialmente condivisi. In particolare, quando ciò si rileva in personalità geniali come le sopracitate, viene il dubbio di dove sia realmente collocata la linea di separazione tra normalità e patologia. Karl Jaspers, un importante filosofo e psichiatra tedesco, si occupò della questione già nel 1919, nelle sue riflessioni sulle visioni del mondo. Egli affermava che l’alienazione psichica non necessariamente dev’essere pensata come un elemento disturbatore dell’esistenza e come causa di malattia, e nemmeno come un vissuto incomprensibile, piuttosto essa può considerarsi come uno dei tanti modi con cui l’esistenza umana può declinarsi nel mondo. Allora l’arte diventa una sorta di chiave metafisica in grado di svelare l’essenza nascosta dietro le varie possibilità di essere.
Nella fattispecie, Van Gogh è stato un uomo dal carattere difficile, particolare e sensibile. Ciò rappresentò il terreno fertile per lo sviluppo della sua follia. La spiccata sensibilità rende più attenti ai dettagli del mondo e alla sostanzialità dell’esistenza umana, porta a scrutare l’abisso e apre porte che non possono più essere chiuse. I flussi di pensiero che da qui in poi circolano attraverso tali porte, possono sospingere gli animi più inclini verso la follia. Questa si manifesta, però, in maniera sempre diversa, e nei talenti rappresenta, paradossalmente, il passe-partout per la creazione di capolavori. L’evoluzione artistica di Van Gogh procede di pari passo con l’evoluzione del suo processo morboso. Il percorso della mostra multimediale “Van Gogh Alive” prova a ripercorrere le tappe fondamentali di questa binomiale evoluzione. Fino all’inizio del 1887, il pittore si dedica a nature morte e scene tratte dalla vita contadina, evidenziando gli influssi del naturalismo e dell’impressionismo (Mangiatori di patate, 1885). Circa a metà del 1887, le pennellate cambiano, iniziano a scomporre l’unità del quadro (Autoritratto, 1887). Nel 1888, con l’inizio della malattia, egli sente un vero e proprio furore creativo: le pennellate si susseguono freneticamente, le idee si moltiplicano nella mente, i colori diventano più vivi, appassionati, violenti. Egli scrive: «Ho cercato di esprimere attraverso il rosso e il verde le passioni terribili dell’umanità. […] Il girasole mi appartiene in un certo senso. […] Quando sento un bisogno fortissimo di religiosità, esco e dipingo le stelle» (La camera da letto di Vincent ad Arles, La terrazza del caffè, Dodici girasoli, Notte stellata sul Reno, 1888). Dopo il primo forte accesso psicotico, la produzione pittorica aumenta e denota al tempo stesso i cambiamenti psichici in corso. Il tratto è più dinamico: linee, semicerchi, spirali. I quadri iniziano a riempirsi di movimenti inquietanti, la terra vive, si alza e si abbassa in vere onde, gli alberi diventano fiamme, tutto si torce e si tormenta, i colori non sono solo vividi, ma ardono. Le tele mostrano deformazioni, come in Campo di grano con cipressi (1889) e in Cascinali a Cordeville (1890). Con il passare del tempo tutto tende a degradarsi, la vita psichica del pittore, così come l’unità complessiva dei quadri. La frammentazione interiore si riflette tutta nel lavoro pittorico, così i colori, sempre più cattivi, sfociano nella devastazione, nel terrore e nella disperazione. L’ultimo quadro, Campo di grano con corvi, del 1890, prodotto poco prima della morte per suicidio, porta con sé il più feroce grido di dolore e solitudine.
In ultima analisi, la psicosi sembra, dunque, rappresentare per il genio una condizione per la produzione delle sue opere. Ma non tutti gli schizofrenici sono dei Van Gogh. Il talento è qualcosa che sta prima della malattia psichica, ma che non possiede di per sé una sufficiente potenza. In questo tipo di persone, la schizofrenia è la condizione perché le capacità creative sboccino in modo florido e geniale. Tutto questo ci interroga, allora, sul dove sia e sul se ci sia un vero e proprio punto di separazione tra il bene e il male, tra il giusto e lo sbagliato, tra il normale e l’anormale, esattamente nel momento in cui persone come Vincent Van Gogh ci dimostrano che la bellezza può trovarsi in perfetto equilibrio tra le suddette antinomie.
«Così come la perla nasce dal difetto della conchiglia, la schizofrenia può far nascere opere incomparabili. E come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale di un’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era condizione della sua nascita» (Jaspers, 1922).
Info: http://www.vangoghalive.it/