“Aida” coraggiosa e “Tosca” discutibile allo Sferisterio
di Alberto Pellegrino
4 Ago 2014 - Commenti classica, Musica classica
AIDA
MACERATA. Francesco Micheli appartiene a quella che possiamo definire la nouvelle vague del melodramma, una generazione di registi che comprende Damiano Micheletto, Roberta Torre, Emma Dante, Serena Senigallia, Arnaud Bernard, Francisco Negrin, i quali si propongono di ammodernare attraverso la ricerca il linguaggio e la messa in scena dell’opera lirica, pur nel pieno rispetto della tradizione. Su questa linea si colloca Micheli che debutta allo Sferisterio con un’Aida che si collega stilisticamente con il suo Otello andato in scenanel 2013 all’interno del Cortile del Palazzo Ducale di Venezia. In una sua intervista di quell’anno Micheli, al quale si chiedeva se era per l’innovazione o per la tradizione, ha detto: “Il concetto di tradizione e innovazione di cui ultimamente si fa tanto sfoggio non ha molto senso per chi fa ricerca. Io cerco di entrare nel testo musicale e librettistico di un’opera…provo a capire le motivazioni, le urgenze degli autori, il perché artisti di tanto tempo fa vollero raccontare una determinata storia con un nuova musica al pubblico del loro tempo…Il pubblico per il quale l’opera era stata scritta non c’è più, ce n’è uno nuovo…che oggi va a teatro, al di là del piacere di ascoltare della bella musica, (per) vedere un bello spettacolo. Io sento imprescindibile l’urgenza di tradurre il linguaggio teatrale e le intenzioni spirituali ed estetiche di quegli artisti oggi. Ne consegue che il mio spettacolo è tra il passato e il presente, né vecchio né nuovo. È un dialogo tra genitori e figli”.
Micheli persegue per questa sua Aida un progetto molto preciso, sfrondandola di tutti gli elementi che ricordano il grand opera e trasformando il melodramma in una “opera da camera”, deciso ad accettare con coraggio la sfida che gli lancia il grande palcoscenico dello Sferisterio: colloca i protagonisti entro il rettangolo orizzontale di un grande computer aperto, facendoli muovere secondo un preciso codice prossemico indicato da segni direzionali che guidano i movimenti dei personaggi verso i luoghi deputati segnati dai precisi confini delle luci, mentre continue variazioni di colore (dal rosa al rosso, all’arancio, dall’indaco al viola, al blu notte) segnano il mutare dei sentimenti dei tre personaggi fondamentali (Aida, Amneris e Radames) che formano il classico triangolo tragico, destinato a evolvere verso un quadrilatero quando entra pesantemente nella vicenda il re etiope Amonastro. Scompaiono dalla scena i figuranti di ogni tipo (guerrieri e sacerdoti, prigionieri e schiave, danzatrici e popolani); scompare la falsa negritudine; scompare l’intera scena del trionfo, sostituita da una danza di guerrieri tecnologici e futuribili (forse l’invenzione meno felice). Lo stesso coro si schiera ai lati della zona principale, recuperando la sua funzione classica destinata a commentare le azioni dei protagonisti con la voce e con pochi gesti essenziali dei coristi che solo raramente aprono i loro abiti bianchi, agitandoli ritmicamente come grandi farfalle. Tutti i personaggi indossano abiti bianchi e argento con pochi segni distintivi della loro condizione e solo Aida indossa un abito nero a marcare la sua diversità etnica.
Sullo schermo verticale del computer si avvicendano cieli azzurri segnati dal sole, notti trapuntate di stelle, i nomi dei protagonisti e alcune parole-chiave (gloria, fortuna, eroi), mentre la parete dello Sferisterio diventa un megaschermo su cui scorre lento il Nilo, si avvicendano forme stilizzate di guerrieri in parata o schierati in battaglia, campi disseminati di cadaveri, lunghe file di prigionieri incatenati a raccontare quanto avviene al di fuori di quel rettangolo destinato allo scontro delle passioni individuali. Quando tutto è consumato e per Aida e Radames rimane solo un destino di morte, il grande computer si chiude come una tomba sormontata dalla tragica e solitaria figura di Amneris.
Questo allestimento scenico non ha influito negativamente sulla prova degli interpreti quasi tutti di alto livello a cominciare da Fiorenza Cedolins che ha dato spessore drammatico al
personaggio di Aida, padroneggiandolo con la sua grande tecnica; al suo fianco una bravissima Sonia Ganassi (Amneris) e una validissimo Elia Fabbian (Amonastro), mentre il tenore Sergio Escobar (Radames), pur dotato di grandi mezzi vocali, ha rivelato una tecnica non ancora affinata, preferendo dare spazio alla potenza piuttosto che all’interpretazione.
TOSCA
Una Tosca veramente pregevole sotto il profilo dell’esecuzione grazie alla presenza di Susanna Branchini, un soprano lirico spinto che è entrata con autorità nelle vesti della protagonista con una grande presenza scenica e una forte dose di drammaticità, mettendo in evidenza una vocalità particolarmente efficace per estensione, potenza, agilità e colore, con quella passionalità che le deriva dalla metà di sangue caraibico che circola nelle sue vene. Al sua fianco non ha sfigurato Luciano Ganci, un giovane tenore (l’avevamo ascoltato ad Amandola-FM qualche anno fa ospite al “Canto Festival”, fresco premio come miglior tenore giovane italiano) già dotato di buoni mezzi vocali e con ottime probabilità di ulteriore maturazione; è stato un Cavaradossi convincente e appassionato che ha saputo dare il meglio di sé soprattutto nel terzo atto. Ha completato il trio dei protagonisti il baritono Marco Vratogna, un giovane interprete che altre volte ha affrontato il difficile personaggio del Barone Scarpia e che anche in questa edizione maceratese ha mostrato di possedere una bella voce dal timbro profondo e di avere una presenza scenica di forte impatto, rendendo credibile questo personaggio negativo (una drammatica incarnazione del Male), senza renderlo repellente come è accaduto in altre occasioni.
Purtroppo i pregi di questa edizione sono stati inficiati da una più che discutibile regia di Franco Ripa di Meana che, evidentemente a corto d’idee, ha rispolverato il progetto di una triplice collocazione spazio-temporale della vicenda già realizzata in modo geniale nello Sferisterio da Ken Russell con la sua mitica Bohème del 1984. Il primo atto si svolge nel rispetto dei tempi dettati dal libretto: è il 14 giugno 1800 e tutta Roma attende il risultato della battaglia che sta avvenendo a Marengo tra l’esercito di Napoleone Bonaparte e l’esercito austriaco guidato dal generale Meles.
Sulla destra del palcoscenico compare l’Albero della Libertà con tutti i simboli repubblicani della Rivoluzione: la Repubblica Romana, nata il 15 febbraio 1798, è stata soppressa nel settembre 1799 e ci si chiede come sia potuto sopravvivere questo simbolo in piena repressione clericale, un mistero giustificabile solo come un flash back, ma questo non coincide con la scena conclusiva dell’atto quando una schiera di preti neri come la pece e muniti di fiaccole danno fuoco dopo nove mesi ai simboli repubblicani dell’Albero, mentre cantano il Te Deum. Non siamo forse dentro la Chiesa di Sant’Andrea? E dov’è andato a finire lo splendido contrasto tra una massa di prelati in pompa magna che canta il Te Deum per la (presunta) vittoria di Marengo e l’inno sacrilego con cui Scarpia esprime tutta la sua libido per Tosca nel segno del satanismo e del piacere proibito? Ma le incongruenze non finiscono qui, perché sulla sinistra del palcoscenico la Chiesa di Sant’Andrea è rappresentata da alcune file di banchi in mezzo ai quali si perde una statua della Madonna, mentre sullo sfondo c’è un grande fondale con delle rovine romane e il Colosseo. Dove è finito l’intimismo pucciniano con Cavaradossi costretto a cantare “Recondite armonie” sfogliando un libriccino di appunti? Perché annacquare le atmosfere del bellissimo duetto d’amore dei due protagonisti obbligati a cantare mentre torve schiere di preti attraversano la scena senza alcuno motivo apparente?
Nel secondo atto appare sullo sfondo un grande stemma del Primo Console repubblicano, affiancato da una sezione del colonnato del Vittoriano con la scritta “Vittorio Emanuele II, Padre della Patria”; sulla scena ci sono solo un divano, una poltroncina e un pianoforte a coda, sul quale è stata apparecchiata la cena del povero Scarpia che in tempi di spending review non può permettersi nemmeno un tavolo. In mezzo a due schiere di prigionieri torturati Sciarrone arriva con la notizia che Napoleone ha vinto a Marengo, mentre Cavaradossi canta “Vittoria! Vittoria! Libertà sorge, crollano tirannidi”, facendo passare il messaggio che il nostro Padre della Patria, Vittorio Emanuele II, è un tiranno e torturatore di patrioti. Sarebbe stato sufficiente scorrere un semplice manuale di storia, volendo continuare con l’idea dello scorrimento temporale, per trovare una collocazione più idonea: bastava far indossare a Scarpia la divisa di un ufficiale austriaco per ricordare la tortura e la condanna a morte dei Martiri di Belfiore, avvenuta a Mantova nel 1852 nel momento della più feroce repressione messa in atto dal Maresciallo Radetzky, questo sì che era un vero tiranno. Da segnalare anche l’idea di trasformare Tosca in una specie di Emanuelle e Scarpia in un sadico con guanti neri e frustino che ammanetta la donna per torturarla prima di essere abbattuto a colpi di pistola.
Il terzo atto è forse il più coerente (anche se l’idea non è certo originale) perché siamo in piena Roma fascista, come ricorda un grande e nero fascio littorio che incombe sulla scena, dove si aggirano torvi ufficiali e militi armati di mitra e manganello della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. Torme di prigionieri vengono picchiati e trascinati sulla scena per essere poi fucilati in massa (una citazione delle Fosse Ardeatine?) insieme al povero Cavaradossi. Questa è l’unico atto che ha una sua linearità storica e razionale, che viene però rovinata dall’ingiustificata invasione del palcoscenico da uno stuolo di turisti di oggi, tra i quali Tosca s’aggira frastornata, chiedendosi come mai sia capitata in abito da sera in mezzo a questa massa festante e rumorosa.
(Le foto a corredo sono di Alfredo Tabocchini)