Coerenza, estro e bravura nella“Clemenza di Tito” a Reggio Emilia
di Andrea Zepponi
26 Feb 2014 - Commenti classica, Musica classica
Reggio Emilia – Non c’è ragione di essere contrari alle attualizzazioni delle regie d’opera né alle trasposizioni temporali di scene e costumi: tutto è possibile a teatro e soprattutto nel melodramma (che ha già tutti i crismi dell’astrattezza), a condizione che ci sia coerenza, estro e bravura. È ciò che è successo al Teatro Valli di Reggio Emilia domenica 16 febbraio 2014 ore 15.30 dove la magistrale realizzazione della Clemenza di Tito (1791) di W. A. Mozart ha valorizzato le potenzialità della partitura e dell’immaginario sotteso con una scenografia impeccabile e pertinente in stile impero reinterpretando in modo efficace ed esemplare storiche interpretazioni scenografiche del passato. Che la Clemenza di Mozart sia un’opera riferita all’attualità di Mozart – incoronazione di Leopoldo II, celebrazione dell’imperialismo illuminato austriaco, visione paternalistica del potere, idealità di fratellanza di ascendenza massonica connessa al concetto di una figura superiore e sovrana ecc. – è ovvio ed evidente, ma anche l’attribuirle una visione del potere imperiale di stile napoleonico è plausibile e soprattutto consono all’ambiente romano del libretto. La bellezza della scena, dovuta ad un’idea potente che ha reso funzionale a più livelli la struttura scenografica, era declinata sul modello della volta a cassettoni del Pantheon rovesciata e sovrastata da un alto colonnato corinzio semicircolare; l’impressione era notevole nel vedere la scena lignea che poteva alludere alla chiglia di nave, metafora della nave-stato guidata dal gubernator – Tito, le cui centine sostenevano gli spicchi a cassettoni della cupola che a volte si aprivano e rendevano la struttura penetrabile da più ingressi in vario modo; anche il momento dell’incendio alla fine del primo atto, rappresentato con dei fumogeni, era reso più vero e presente dalla materia lignea di tutta la struttura: infatti nel secondo atto la scena si presentava reduce da un incendio, una delle colonne spezzata e ampi veli-vele pendenti, laceri e anneriti dal fuoco. L’occhio della cupola rovesciata, un esiguo spazio circolare al centro del pavimento del palcoscenico era il punto più basso della scena cosparso di cenere e sabbia in cui ad esempio si posizionava l’umile pastorello evocato da Tito nel recitativo E’ pur di chi regna infelice il destino e dove Vitellia umiliava se stessa nell’aria finale Non più di fiori, mentre la sommità della cupola era il praticabile su cui sfilava il coro e che riproduceva una disposizione di abside chiesastica con un chiaro rimando alla contaminazione con la musica sacra presente nel coro finale Che del ciel, che degli dei, il cui incipit somiglia al Rex tremendae maiestatis del coevo Requiem mozartiano; insomma il portato simbolico dei diversi punti della scena: alto-basso, centrale-laterale era sfruttato fino in fondo, ne è un esempio il finale dell’opera in cui Tito, posizionato al centro della cavea della cupola-anfiteatro, si atteggiava a direttore con tanto di bacchetta del coro sopraelevato come dovrebbe esserlo un popolo al culmine dei pensieri di un sovrano che pure lo regola e dirige. La regia di Walter Pagliaro con le scene e costumi di Luigi Perego, per anni fra gli autori di punta del Piccolo Teatro di Milano, hanno interpretato al meglio lo spirito neoclassico dell’opera mozartiana dimostrando di essere fra i più raffinati e originali artisti del teatro italiano. Lo spettacolo riprendeva un allestimento del 2007 della Fondazione Lirico-Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari. In questo contesto scenico, che valorizzava al massimo anche i livelli sonori presenti sul palco, i cantanti hanno onorato la partitura con le loro vocalità tutte perfettamente adeguate allo spessore richiesto dalla strumentazione, prima fra tutte il soprano Teresa Romano in Vitellia, che con la sua presenza scenica e vocale dominante, ha dato il giusto spessore alle frequenti incursioni nella zona medio grave di recitativi ed arie realizzando in pieno il lato drammatico del personaggio e il suo fondo assetato di potere; la vocalità di ascendenza verdiana della Romano è emersa anche nella zona acuta che non è risultata proprio a fuoco solo nel sovracuto conclusivo del concitato terzetto Vengo…aspettate…Sesto! Benissimo invece l’aria finale di Vitellia. Ottima voce di tenore dal preciso colore mozartiano e dotato di una bella dizione, Paolo Fanale in Tito Vespasiano ha brillato soprattutto nei recitativi e nel fraseggio melodico e avremmo voluto ascoltarlo con una agilità più sciolta e flessibile nell’aria Se all’impero, amici dei. Notevole eloquenza timbrica quella del basso Valeriu Caradja in Publio che ha restituito al ruolo il suo carattere deciso, solenne e nel contempo confidenziale soprattutto nell’aria Tardi s’avvede. Gabriella Sborgi in Sesto, mezzosoprano ben timbrato e con ampiezza notevole, ha interpretato il personaggio con grande rispondenza al fraseggio e alle dinamiche ritagliando tuttavia il momento belcantistico dell’aria Parto, ma tu ben mio in modo un po’ caotico e sconnesso – troppe incursioni di petto nella zona grave tolgono flessibilità nella zona acuta – mentre grande stile ed efficace recitazione nell’aria Deh, per questo istante solo dove non ci sono prove di agilità e coloratura. Vocalità netta e fornita di uguaglianza su tutta la gamma era quella di Aurora Faggioli in Annio che ha brillato per equilibrio e precisione proprio come la Servilia di Ruzan Mantashyan, soprano dal colore sensibile e presente espressivamente in particolare nell’aria di carattere patetico S’altro che lacrime dove ha reso evidente tutto l’umile e nobile risentimento di Servilia di fronte all’egoismo di Vitellia. Giovani interpreti tutti e dalla bella presenza scenica ben diretta e ben collocata dalla regia di Pagliaro; le loro figure erano valorizzate anche dalle luci di Andrea Ricci che è ricorso anche all’effetto di illuminare tutta la sala del Teatro Valli durante i momenti di riflessione monologante di Tito. Al direttore dell’esecuzione, M° Eric Hull alla testa dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, spetta il merito di aver restituito il suo nitore classico alla partitura e di aver conferito alla scansione dei tempi una vitale solennità nel rispetto della levigatezza strumentale di un’opera che Mozart seppe animare di uno straordinario realismo sentimentale. A tale contesto di buona gestione dei vari piani sonori va ascritto anche il Maestro del coro, Stefano Colò, che ha istruito il valoroso Coro Lirico Amadeus-Fondazione Teatro Comunale di Modena.
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Allestimento della Fondazione Lirico-Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari.
Intervista al regista: