“Parsifal” a Bologna
di Giosetta Guerra
20 Gen 2014 - Commenti classica, Musica classica
Bologna 16.01.2014 – Dopo cento anni dalla prima rappresentazione in Italia, avvenuta proprio a Bologna il 1 gennaio 1914, torna al Teatro Comunale Parsifal, l’ultimo dramma musicale di Richard Wagner che aveva debuttato a Bayreuth il 26 luglio 1882. L’opera, che attinge a Perceval li Gallois del troubadour Chrétien de Troyes, segna il ritorno di Wagner al tema del Graal, già affrontato molti anni prima in Lohengrin ed è un groviglio di contrasti tra bene e male, santità e magia nera, castità e tentazione, cristianesimo e paganesimo e perfino buddismo, elementi che si concretizzano in persone, animali e cose, non facili da mettere in scena. Il regista Romeo Castellucci, che firma anche scene, costumi e luci di questo spettacolo creato per il Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, ha quindi messo in evidenza l’essenza di tali elementi anche affidandosi alla simbologia.
L’allestimento è intrigante, perché stimola a decifrare il significato dei simboli, perché colpisce l’occhio e la mente per l’elaborata e differenziata costruzione delle scene (intricata la prima, asettica la seconda, possente la terza), che però hanno poco in comune con gli ambienti descritti dal libretto.
Nel primo atto il palcoscenico accoglie una buia radura boscosa con alberi ad alto fusto che si piegano e cespugli frondosi che si spostano, in mezzo si celano mimetizzati i cavalieri vestiti di foglie a guardia del Graal, il calice con cui Cristo bevve nell’Ultima Cena, e della Lancia Sacra che ferì il Salvatore sulla Croce, custoditi nel monastero appositamente fondato dal vecchio Titurel. Nulla si distingue, se non a tratti, quando la luce del giorno appare fioca e quando le foglie si punteggiano di luci, l’illusione della foresta in movimento è data da piccoli zampilli luminosi che si rincorrono come le lucine dell’albero di Natale. Alcuni si spogliano e si raggruppano a dorso nudo con movimenti coreografici continui e lenti. Il serpe rimane sospeso per un po’, sul fondo una donna è evidenziata dalla luce come uno spettro, è Kundry che porta il balsamo per la ferita di Amfortas e si presenta coperta da una giacca bianca con cappuccio sopra una gonna stretta al ginocchio, uno strano essere le si struscia addosso. Giunge anche Parsifal che scopre lo scheletro del cigno e non ricorda di averlo ucciso. Sembra il bosco degli orrori popolato da losche figure in agguato e, quando questo si apre, compare il coro sotto una forte luce al neon. Titurel canta dal loggione e suo figlio Amfortas mostra la ferita del costato. A Parsifal viene dato un grande disco, che dovrebbe essere uno specchio, al quale rimane agganciato di spalle per più di quindici minuti, poi lo lascia volare. Scende una corda rossa che turba Parsifal. Boh! La regia è molto statica.
Durante l’energica introduzione orchestrale al secondo atto viene proiettato su un velatino l’elenco delle sostanze nocive che avvelenano il mondo. Dietro niente palazzo arabo né giardino magico, ma un ambiente algido e asettico di un biancore accecante quasi maniacale, con corpi umani a terra e frammenti sospesi, poi i corpi prendono vita, sono donne nude con parruccone bionde che vengono legate e appese a testa in giù come bestie macellate; i carnefici sono Klingsor e un suo assistente, entrambi col frac e un grembiulone da macellaro. Niente ragazze fiore, che si rincorrono allegramente giocando con Parsifal, ma ballerine nude, alcune contorsioniste in pose terrificanti, che Parsifal velato e tutto bianco nemmeno se lo filano e lui non le guarda affatto, anzi si copre le orecchie, forse come Ulisse per non sentire il canto delle sirene (coriste). Una di loro si posiziona a gambe aperte su un cubo e lì resta coi genitali in bella mostra per tutto l’atto, finché non le vengono chiuse le gambe e legate con un filo rosso. Una lunghissima scena corale e aerobica nella quale s’inserisce Kundry vestita da sposa e col pitone albino al collo che instaura con Parsifal un dialogo freddo e distaccato anche fisicamente; la scena di seduzione, sostenuta da una musica lentissima e pacata, è algida nella realtà, perché i due sono freddi statici e lontani, ma è focosa nella fantasia e, quando i due si avvicinano e si baciano, gli vien proiettata addosso in trasparenza l’immagine di un loro amplesso lungo e pieno di passione (ovviamente girato durante le prove, perché erano proprio loro due).
Nel terzo torna il buio, ricompare il cane, Kundry si lamenta distesa a terra vestita da boscaiola; l’immobilità statuaria dei cantanti si scioglie quando il vuoto viene via via riempito dal popolo che entra e dà forma ad una marcia silenziosa e compatta guidata da Parsifal e Gurnemanz, una marcia lunga ed estenuante (le prime due file camminano per circa un’ora su un tapis roulant, quindi non possono mai riposarsi) che ricorda il film Novecento di Bertolucci o Il Quarto potere di Pellizza da Volpedo. Scena di una potenza schiacciante.
Il regista Romeo Castellucci scrive sul programma di sala che per ideare questo allestimento ha completamente ignorato il testo, ha invece ascoltato e ascoltato e riascoltato la musica di Wagner fino ad avere delle visioni, delle sensazioni che ha poi concretizzato in quello che noi abbiamo visto. Beh, nulla di nuovo, è una vecchia tecnica che si praticava a scuola con i bambini: disegnare ascoltando musica classica, che non ha un testo narrativo, mentre l’opera ce l’ha e dimenticandosene si rischia di avere visioni sbagliate. Avrebbe fatto meglio il regista a spiegarci il significato della simbologia che noi invece abbiamo ricollegato alla storia. Lo scheletro del cigno era chiaro, Parsifal l’aveva ucciso, anche se era un po’ presto per essere diventato già scheletro; un pitone albino, vero a dimensioni naturali che si contorceva al collo di Kundry (sedato, spero) e in miniatura a mo’ d’orecchino all’orecchio di Nietzsche (nemico di Wagner, considerava Parsifal un’opera velenosa) proiettato di profilo sul sipario, forse simboleggiava l’insidia (ma l’insidia c’è in tante opere); presentare nude le ragazze fiore che cercano di sedurre Parsifal ci sta, farle esibire in difficili esercizi di contorsionismo è di grande effetto, ma perché legarle e appenderle al gancio come bestie macellate? Forse per rendere tangibile la crudeltà di Klingsor? E lasciarle penzoloni con la testa in giù….ma fa male….Con la testa in giù per tutto l’atto secondo che dura un’ora c’è stata anche la ragazza nuda distesa su un piedistallo a gambe larghe con la “natura” in bella vista e non depilata rivolta verso il pubblico, è la natura materna per il regista, col figlio che le girava attorno?…aiuto….! E, se il primo bacio è per Parsifal una benedizione materna, perché nell’immaginario c’è uno scatenato rapporto sessuale?… Aiuto aiuto…! Ma forse l’immaginario è quello della donna.
E l’oretta di marcia forzata sul tapis roulant delle prime due file del popolo nel terzo atto…un vero stress per tutti. Fortuna che Gurnemanz non è giunto a grave vecchiaia, come detta il libretto, ma è un aitante giovane forte e slanciato. Invece non si sono viste né la sacra coppa, né la sacra lancia, né il sacro lago, né la colomba. Comunque, nonostante i vari interrogativi e una regia estremamente statica, l’allestimento era bello.
La musica è quella di Wagner e ci inebria.
L’inizio largo dei violini per una musica ad ampio respiro, che dà l’idea dell’aurora, cui si uniscono archi, clarini e flauti con alleggerimenti sospesi, sfocia in un tutto orchestrale morbido e disteso, rinvigorito dalle trombe e dalle percussioni. La grande orchestra del Teatro Comunale di Bologna, diretta da Roberto Abbado, tiene tempi lenti fin dalla lunghissima Ouverture, che ha di per sé una musica dilatata e tormentosa. Una tinta ecclesiale subentra quando si parla del sacro graal, il suono si fa più denso e incalzante all’arrivo di Parsifal ed emerge nel groviglio indistinto della selva alternando sonorità piene e smorzature. Lunghe pagine orchestrali si alternano alle parti cantate. Roberto Abbado dirige senza bacchetta con gesto morbido questa musica meravigliosa sempre sospesa lungo una linea sonora eterea, rarefatta, sommessa, e anche solare, vibrante, energica, ma i tempi sono lentissimi.
Sul piano vocale il ruolo più lungo è quello del vecchio Gurnemanz, il più anziano tra i cavalieri di Monsalvato, qui interpretato da un bellissimo giovanotto ungherese che il regista non ha invecchiato, Gábor Bretz, un basso dalla voce splendida nel colore e nel modo di porgere, una voce vigorosa e ampia, timbrata e ben proiettata, con magnifiche sonorità rotonde e morbide, fluidità d’emissione, capacità di sostenere suoni lunghi e sospesi e anche di cantare con naturalezza per quasi tutto il primo atto che dura un’ora e quaranta minuti. A dire il vero il racconto dell’autocastrazione di Klingsor poteva essere un po’ più corta, caro Wagner. Comunque la maestosità vocale e scenica di Bretz l’ha resa meno pesante.
Nel ruolo di Parsifal torna il tenore della produzione di Bruxelles, l’americano Andrew Richards, già noto al pubblico del teatro comunale di Bologna per quel magnifico Sansone interpretato qualche anno fa. L’aspetto giovane e la faccia pulita, uniti ad un atteggiamento ingenuo e spaesato, servono a disegnare un Parsifal puro e lontano dalle contaminazioni della terra. “There’s something transcendental in this music” ha affermato il tenore, che, con un canto tutto interiore, la soavità delle mezze voci e la morbidezza d’emissione, riesce a dare espressione ad una musica difficile non orecchiabile, sul piano tecnico la voce pulita e duttile passa con sicurezza dai consistenti appoggi gravi alle belle espansioni acute, l’accento è incisivo, il suono rotondo, le vocali scandite.
La parte di Kundry, scritta per soprano, è appannaggio di Anna Larsson, mezzosoprano svedese, piuttosto chiaro ma con gravi di spessore, voce vigorosa e di bel colore, che la cantante gestisce bene anche stando distesa.
Bravo interprete nel ruolo del mago Klingsor, nemico del Santo Graal, Lucio Gallo esibisce una bella vocalità di basso, possente e ben proiettata. Il basso armeno Arutjun Kotchinian (Titurel antico Re, padre di Amfortas) esibisce voce densa di bella pasta. Il baritono tedesco Detlef Roth (Amfortas sovrano del regno del Graal) canterebbe anche bene, ma la voce non è ferma e non ha peso sufficiente. I due cavalieri sono il tenore Saverio Bambi e il basso Alexey Yakimov.
Il Coro del Comunale, che rimane quasi sempre nascosto o fuori campo, riempie il teatro di belle sonorità piene, l’alternanza di cori femminili celestiali e di cori maschili più terreni ci riportano in mente il Mefistofele di Boito. Maestro del Coro Andrea Faidutti.