“L’Arlesiana” al Teatro Pergolesi


Alberto Pellegrino

26 Ott 2013 - Commenti classica

L'Arlesiana: Golovnin-StranoJesi (AN). La Fondazione Pergolesi Spontini ha fatto un’ottima scelta culturale nel proporre per la prima volta nella Stagione Lirica di Jesi l’opera L’Arlesiana (1897) di Francesco Cilea che sempre più raramente entra nei cartelloni lirici. Questo va attribuito anche al fatto che Francesco Cilea (1866-1950) è forse il più trascurato fra i compositori della sua generazione anche per la presenza di autori come Puccini, Giordano e Mascagni. Forse in maniera troppo sbrigativa Cilea è stato relegato nel teatro borghese fin de siècle o come un epigono del verismo musicale, dove invece va collocato a pieno diritto soprattutto per le due opere L’Arlesiana (1897) e Adriana Lecouvreur (1902), nelle quali il sentimento del musicista si realizza in forme pienamente elaborate per la loro efficienza drammatica (si può parlare di “teatralità”) e per l’eleganza dello stile, la sapiente costruzione armonica all’interno della quale si colloca una nitida melodiosità e un pathos malinconico, a volte idilliaco, che imprimono al suo “verismo” il marchio di una propria originalità.
L’Arlesiana, composta su libretto di Leopoldo Marenco, è soprattutto un’opera di stati d’animo dove tutto si svolge in modo abbastanza semplice, conservando le atmosfere del omonimo dramma di Alphonse Daudet basato sulla contrapposizione tra la sana vita patriarcale della campagna e l’ossessione amorosa del giovane Federico ammaliato da un’affascinante arlesiana che vive in modo molto libero i propri sentimenti in un ambiente urbano come appunto la città di Arles. L’opera presenta dal punto di vista drammaturgico una particolare formula teatrale, in quanto la protagonista che costituisce “l’oggetto del desiderio” e il motore della vicenda non compare mai sulla scena nonostante dia il titolo all’opera, ma forse la sua presenza avrebbe creato effetti teatrali che forse l’ispirazione di Cilea non avrebbe saputo controllare.
La vicenda è priva di avvenimenti drammatici fino al tragico epilogo ed èL'Arlesiana: Vestri-Golovnin-Antonucci imperniata intorno alla figura del protagonista, tormentato da un’affannosa solitudine e da irrefrenabile passione, al quale fa da contraltare la figura di Rosa Mamai, una madre affettuosa ma anche oppressiva che cerca di salvare il figlio dalla sua ossessione amorosa. Al loro fianco vi sono il pastore Baldassarre, che rappresenta l’anima ingenua e sognatrice del mondo agreste, e L’Innocente, l’altro figlio che vive chiuso in suo mondo senza possibilità di comunicazione con nessuno. Quando compare il guardiano di cavalli Metifio che dice di essere stato l’amante dell’Arlesiana. Federico cade in uno stato di depressione e la madre implora Vivetta, segretamente innamorata del giovane, di salvare il figlio dal suo amore ossessivo, facendo qualche avance anche un po’ audace per attrarre la sua attenzione. I tentativi di Vivetta sono destinate a fallire, perché Federico le dice che non può dimenticare l’Arlesiana. La madre allora dà il suo consenso al figlio di sposare la giovane di Arles ma Federico, pensando di essere guarito dalla sua passione, decide di sposare Vivetta. Mentre nella fattoria si fanno i preparativi per le nozze, ecco ritornare Metifio per annunciare che sta sul punto di rapire L’Arlesiana che non vuole più vivere con lui. Dilaniato dalla gelosia, Federico si scagli contro di lui per ucciderlo ma è allontanato dalla madre e da Baldassarre che lo accompagnano nella sua stanza. L’Innocente sembra acquistare improvvisamente l’intelligenza e la parola, rendendo felice la madre, ma a quel punto si ode un tonfo: ossessionato dall’idea dell’Arlesiana rapita da Metifio, Federico si è gettato dalla finestra del granaio.
L’opera presenta delle pagine interessanti che ne fanno uno dei momenti più originali e nuovi del Novecento italiano:  i due brani del pastore Baldassarre come la favola Come due occhi accesi (ricavata da un’altra novella di Daudet) e Vieni con me sui monti, lirica evocazione di uno spazio dello spirito; la fresca romanza di Vivetta Dalle fresche pendici; tutta la parte Mamai, la vera rivale della ragazza di Arles resa infelice dallo smarrimento del figlio a cui è legata da un rapporto quasi edipico (“Da quel giorno ha donato il suo cuore/a lei sola, e non pensa più a me”), una presenza che culmina con il grande Monologo del III atto Essere madre è un inferno; infine il celebre Lamento di Federico (“E’ la solita storia del pastore”), una romanza che è stato il cavalo di battaglia di celebri tenori come Beniamino Gigli, Tito Schipa, Ferruccio Tagliavini, Giuseppe Di Stefano e Luciano Pavarotti, il punto di arrivo di un  dramma psicologico basato sul rapporto nevrotico tra la figura materna amata e rifiutata a causa della passione di una donna libera ed emancipata e che si concluderà con quel suicidio che Cilea non se l’è sentita di portare sulla scena e che avrebbe costituito un finale di straordinaria forza drammatica al posto della ripesa finale del tema del “Lamento di Federico”.
L’edizione dell’Arlesiana, andata in scena al Teatro Pergolesi il 27 e 29 settembre 2013, si è avvalsa dell’allestimento curato dal Wexford Festival Opera con la direzione del M° Francesco Cilluffo a capo dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana. Di ottimo livello il cast degli interpreti a cominciare dal mezzosoprano Annunziata Vesti che ha interpretato con intensità e padronanza vocale il personaggio di Rosa Mamai; il soprano Mariangela Sicilia è stata una convincente Vivetta, al pari dei baritoni Stefano Antonucci, nei panni del pastore Baldassarre, e Valeriu Caradja (Metifio); una menzione a parte merita il tenore russo Dmitry Golovnin che ha affrontato il ruolo del protagonista con forza espressiva ed estesa vocalità, superando anche la difficile prova del “Lamento di Federico” che sempre induce a illustri confronti con il passato.
Alla pianista pesarese Rosetta Cucchi, che ha debuttato nella regia nel 2003, è stata affidata la messa in scena di quest’opera curata per il Wexford Festival Opera d’Irlanda. Ben coadiuvata dalla bella scena ideata da Sarah Bacon e dall’ottimo progetto luci di Martin Mclachlan, la Cucchi ha scelto la strada di una fusione tra realismo e simbolismo onirico all’interno della quale si colloca la lucida follia di Federico sconvolto da un amore che si trasforma nell’insana passione per una donna desiderata, sognata e mai posseduta. Dice la Cucchi: “E’ come se l’immagine della persona amata, perennemente sospesa nello stato cosciente, eserciti un’attrazione verso la quale Federico non può difendersi. L’amate ossessionato ascolta il canto della sua sirena e follemente ne segue l’ombra che si muove via via via, diventando una proiezione delle sue follie”. La regia contrappone con un certo coraggio al realismo dell’ambiente e degli altri personaggi questo simbolico viaggio di Federico al di fuori della realtà calcando la mano sulla chiave interpretativa psichiatrica (il secondo atto vi svolge in una specie di lager manicomiale abitato da larve di malati), dove avviene anche il goffo tentativo di seduzione di Vivetta che arriva a improvvisare una sorta d’imbarazzato “spogliarello”. La Cucchi contravviene a due regole-guida che avevano segnato le indicazioni del libretto e le precedenti messe in scena di questa opera: riportare sulla scena il fantasma di seducenti Arlesiane dai fiammeggianti capelli che si moltiplicano, lo circondano, lo ammaliano, lo ossessionano aggirandosi intorno a lui come tante proiezioni della sua mente, come ombre incombenti da baciare, da stringere, da strappare dalle braccia del suo rivale; mettere in scena il tabù del suicidio di Federico, quando nel terzo atto l’azione ritorna nell’ambiente claustrofobico del manicomio con uno sdoppiamento della personalità di un Federico che si confronta con gli altri personaggi e un Federico che si agita ormai folla all’interno di una gabbia metallica, dove nel finale la doppia figura si ricompone del duplice suicidio eseguito con il pugnale (con cui Federico aveva assalito Metifio) e il cappio dell’impiccagione, in una specie di auto-esecuzione finalmente liberatoria.

L'Arlesiana: coro-antonucci-Golovnin

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