“Interwoven” di Marco Stefanucci e Kristina Milakovic alla Von Buren Contemporary di Roma


di Flavia Orsati

3 Mar 2025 - Arti Visive

A Roma, fino al 20 marzo, è possibile visitare la doppia mostra di Marco Stefanucci e Kristina Milakovic “Interwoven”, presso la galleria Von Buren Contemporary.

L’eternità è innamorata
delle opere del tempo.
I proverbi dell’Inferno, William Blake

A Roma, presso la galleria Von Buren Contemporary, è possibile visitare, fino al 20 marzo, la bipersonale Interwoven, di Marco Stefanucci e Kristina Milakovic.

Il titolo della mostra, tradotto in italiano, significa “intreccio”, intreccio di una memoria artistica che si muove tra passato e presente, tra rovine archeologiche e mentali e tra richiami mitologici e simbolici criptati in vecchie tele di gusto sei-settecentesco, emblema della storia dell’arte europea.

Roma è, da sempre, il luogo della memoria per eccellenza. Una città dove, storicamente, le energie del tempo si sono addensate, predestinando l’Urbe a un futuro di splendore e decadenza, di saggezza e guerra, di odio e amore. Tracce di questo passato sono, ancora oggi, testimoniate dalle architetture erette e stratificate nel corso dei secoli, epitome del trascorrere degli anni e dello svanire delle tracce psichiche lasciate da intellettuali e artisti che vi hanno dimorato o lavorato, concorrendo a renderla grande.

È estremamente difficoltoso condensare una simile stratificazione di memorie in uno spazio espositivo, rendendo il trascolorare delle epoche e del tempo che ci ha preceduto qualcosa di visibile e, soprattutto, di intuibile. A tale ardua prova si sono sottoposti i protagonisti di questa mostra, Stefanucci e Milakovic, intessendo un dialogo armonico con i tre aspetti della durata, ognuno non rinunciando alla propria, personale, cifra stilistica. Si parte da Chronos, il più giovane dei Titani, che mutila il padre e che fa crollare gli immensi palazzi dei grandi re e imperatori riducendoli a rovine, passando per Kairos, lato qualitativo della manifestazione, che scuote la polvere dalle tele dei tempi andati, giungendo infine ad Aiòn, all’assoluto in contrapposizione alla vita umana.

Ho visto, per la prima volta, le opere di Marco Stefanucci a casa di Anthony Molino, un caro amico e critico. Ciò che mi ha colpito subito è stato l’alone di mistero e di indefinitezza di cui sono ammantate le sue figure, come se stessero uscendo, nel momento in cui le si guarda, dalle nebbie del tempo, o, a volte, stessero lottando per non esservi inghiottite.

In Stefanucci, infatti, il tempo è Chronos, che passa e muta le spoglie mortali delle “cose” che ci circondano, ma senza intaccarne l’essenza. È prevedibile, allora, che le sue figure predilette siano quelle atemporali del mito e della religione, declinate diversamente a seconda del gusto e dell’inclinazione delle varie epoche, ma di per sé immortali, filtrate da un nostalgico gusto barocco che, per certi versi, le rende ancora più inattingibili.

La sua è quasi una meta-pittura, una riflessione ecfrastica sul medium stesso, e le sue immagini enigmatiche e sibilline, partendo sempre da un dato figurativo, tendono a virare verso un’entropica astrazione formale, sfumando i contorni delle figure e coprendole di materia, come un ricordo che si allontana e che si fa, via via, sempre più vago. Non si pensi, tuttavia, a nessun sentimento nostalgicamente retorico: la tecnica dell’artista si avvale con perizia degli strumenti del nostro tempo, sfruttandone il potenziale di liricità e magia. È il caso, ad esempio, del negativo fotografico, che apre la porta verso molteplici interpretazioni figurali delle scene riprodotte, la cui intensità ricorda l’uso delle foto da parte di Gerhard Richter, nelle fotografie sovradipinte e, in particolare, nei suoi Fotobilden; ma si potrebbe citare anche l’attenzione alla resa materica del materiale pittorico, attuata con l’impiego di bitume e di plastica e la sua conseguente bruciatura, che fa eco all’operato, corpo a corpo con la materia, di Alberto Burri, al dolore e alla salvezza del suo cauterio. Per affrontare un lavoro del genere occorre una forte consapevolezza storiografica, una solida conoscenza dei Maestri, conosciuti e non, ma, al contempo, la capacità di travalicarli, senza rinunciare alla perizia tecnica.

Siamo a Kairos: tutto si gioca sul tentativo di rammemorare, di attraversare i ricordi e renderli vivi senza idealizzazioni, riconoscendo la loro aderenza al passato. Come spesso accade, la parte più intima dell’opera è quella che si nutre di sentimenti e di emozioni connaturate all’animo umano. Nella sacralità di queste immagini, un elemento spicca nelle composizioni: il volto delle figure che le popolano è quasi sempre riconoscibile, quale cartina di tornasole dell’interiorità umana e specchio dei tormenti che la percorrono.

Oltre al tempo, l’altra grande protagonista delle tele di Stefanucci è la bellezza, nel suo lato decadente, terrifico, distante dall’ideale classico del Bello quale elemento totalizzante di unione e armonia. Un’estetica negativa, dato che l’opera è fruibile non in termini di compostezza e rigore, ma in termini di spaesamento, non di rassicuranti canoni ma di sacrificio e destrutturazione dell’immagine. L’esperienza che lo spettatore si trova a fare, osservando le opere è “estetica” nel senso più puro ed assoluto, filosofico, del termine, come tutto ciò che, nella sua irriducibile individualità e singolarità, tende a sottrarsi a ogni possibilità di spiegazione e di definizione in termini logico-concettuali, essendo il bello, secondo l’Immanuel Kant della Critica del Giudizio, “ciò che piace universalmente senza concetto”. Siamo di fronte ad opere d’arte ineloquenti, “esistenziali”, si era arrischiato a scrivere il critico Bernard Berenson, nel suo Piero della Francesca o dell’arte non eloquente, poiché derivano da quelle pietre miliari “alle quali torniamo, dopo non importa quante diserzioni e quante rivolte, come alla nostra patria”, la cui potenza, reinterpretata in chiave moderna, arriva diretta, senza ragionamenti o sforzi intellettuali. Aiuta, in questo, la “vaghezza” leopardiana, quel senso di indefinito che, secondo il poeta di Recanati, concorre alla creazione di un sentimento lirico, specie se applicata ad una pittura atemporale che si rinnova con la memoria rivolta ai Padri.

Allora è vero che il tempo lacera, muta, ma non distrugge. Il modus pingendi di Stefanucci sembra quasi un Opus alchemico che, passato per le tre fasi di dissolvimento, sublimazione e ricomposizione, diviene consapevole di come la vera arte nasca dall’unione di ispirazione e memoria: non a caso, nel mito, le Muse sono figlie, appunto, di Apollo e Mnemosyne. Tutto questo è Aiòn, inizio e fine insieme, solare fanciullo divino che ricompone lato quantitativo e qualitativo di ciò che è manifesto.

Lungo la stessa direttrice si muove la ricerca di Kristina Milakovic, con lo sguardo verso l’Europa dei pittori Romantici, di William Turner in particolare, e dell’Italia del Grand Tour, quando artisti ed intellettuali venivano da tutta Europa a visitare le rovine del Bel Paese, dipingendo, quasi estasiati, quanto si stagliava di fronte a loro. Non dissimile è la ricerca della Milakovic, come ricostruzione intima e mentale delle rovine romane e dei loro engrammi mnestici, frutto di una personale ed introspettiva rammemorazione. Si parte dal dato visivo, ma lo si travalica: nelle campiture di colore, che sfumano elegantemente dal marrone della terra al verde delle piante, dal celeste del cielo all’ocra dei ruderi, ci si aspetterebbe di vedere, osservando bene, un fauno o una ninfa intenti a rincorrersi, in una raffigurazione sospesa tra il mito e il sogno.

Carl Gustav Jung parla di “enantiodromia”, termine mutuato dal filosofo greco Eraclito che, letteralmente, significa “corsa degli opposti”: questa, a mio avviso, è la corsa – e la missione – dell’arte odierna: una funzione regolatrice dei contrari che, tramite l’opposizione, regala al proprio tempo ciò di cui è manchevole, proiettando il presente e il passato verso un futuro che sembrerebbe lontano, incerto. Oggi si sta chiedendo all’arte un sacrificio inconsapevole, a cui lei stessa, corpo sacrificale e sacrificato, non partecipa. Da questa realtà crudele sapranno sfuggire gli artisti che riusciranno a discernere, ponendo la tradizione dinanzi a sé, attraversandola, vincendola, facendola propria. Ecco che si torna circolarmente a Mnemosyne, la madre delle Muse, in una terra dove, secondo Holderlin, dopo la fuga degli Dei, “[…] dove è il pericolo, cresce / anche ciò che salva”, ma soprattutto dove “[…] ciò che resta è un dono dei poeti”.

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