Stefano Fresi: mattatore sublime
di Elena Bartolucci
8 Gen 2025 - Commenti teatro
Tre registri per tre quadri in un’indiscutibile prova di bravura di metateatro da parte di Stefano Fresi in “Dioggene”.
(Foto di Chiara Calabrò)
Porto San Giorgio – Martedì 7 gennaio, al Teatro Comunale di Porto San Giorgio (FM), è stato portato in scena da Stefano Fresi lo spettacolo intitolato Dioggene, il primo appuntamento dell’anno con la prosa proposto dal Comune insieme all’AMAT con il contributo di MiC e Regione Marche.
Dioggene è un’opera che passa dal Medioevo all’attualità, servendosi di strumenti semplici come la variazione linguistica, indagando l’animo umano di ieri e oggi. Giacomo Battiato, che ne ha curato la scrittura e la regia, ha infatti dichiarato: “Tre lingue italiane diverse per ciascuno dei monologhi (volgare toscano, lingua corrente del 21° secolo, romanesco), tre atmosfere, tre toni, tre stili. Epica e commedia, sberleffi e crudeltà. In ognuno dei tre quadri, apparentemente così diversi tra loro, ci sono gli stessi temi che ruotano: la violenza dei maschi, l’umana stupidità, la guerra, il bisogno di bellezza e di amore.”
Uno spettacolo denso e complesso nella sua costruzione, ma che non stanca anzi affascina per la strabiliante capacità di Fresi di modularsi a seconda del registro nonché dell’aspetto antropologico. Fresi si dimostra un attore eccezionale che riesce a tenere il palcoscenico per quasi due ore senza alcun intervallo, cavalcando con grande audacia la diversità dei tre monologhi che compongono lo spettacolo. Tre monologhi, infatti, per un unico protagonista, Nemesio Rea. Un attore che nel primo “atto” recita in volgare duecentesco la storia di un contadino/fabbro toscano che soffre costantemente per esser stato abbandonato dal padre e che racconta la sua partecipazione alla famosa battaglia di Montaperti, in cui ghibellini senesi e guelfi fiorentini si scontrarono duramente.
Interessante la seconda parte, in cui l’attore rompe la quarta parete e racconta del suo vissuto personale, sfogandosi con il pubblico e ripercorrendo l’accesa discussione avuta con Isabella, la sua ormai futura ex-moglie, che ha deciso di lasciarlo proprio poco prima che metta in scena il suo nuovo spettacolo (“Il diavolo e il buon Dio” di Jean-Paul Sartre). La donna lo ha apostrofato come un alessitimico di tipo 2 ovvero una persona che manifesta una estrema difficoltà nel riconoscere, esprimere e distinguere le diverse emozioni. La descrizione che ne viene fuori inizialmente lo perplime, perché ammette di non essere un uomo perfetto e tanto meno un marito fedele, ma è ancora molto innamorato della moglie.
Piano piano, però, ripercorrendo tutte la fase del litigio capisce che un fondo di verità nelle invettive della sua consorte c’era eccome e, aprendo finalmente gli occhi, capisce di essere davvero uno spregevole narcisista egocentrico.
Nella terza e ultima parte, invece, Nemesio emerge per quel che è. Lo spettatore scopre infatti che l’uomo ha deciso di vivere in un cassonetto dei rifiuti in una strada del quartiere della Magliana.
Ha abbandonato la sua carriera di attore per diventare una sorta di barbone-filosofo ispirandosi alla figura di Diogene, il quale decise di spogliarsi di ogni bene materiale e abbracciare una vita semplice abitando in una botte.
Davvero strabiliante il crescendo nel monologo finale in romanesco che, quasi a mo’ di catarsi, non è altro che un’invettiva urlata a squarciagola contro la società odierna e al tempo stesso un invito alla ricerca della verità e in particolare della felicità.
E se la vita è una tragedia, l’importante è scegliere come recitare meglio la propria parte per provare a cambiare qualcosa.
In ogni quadro l’attore si è inserito in una scenografia essenziale vestendo abiti semplici e non calzando quasi mai le scarpe, in cui la vera potenza è stata lasciata alle parole del testo e a una scultura, diversa per ogni atto, posizionata in maniera intelligente ai lati del palcoscenico.
Lo spettacolo è scritto e diretto da Giacomo Battiato. Le sculture in scena sono di Oscar Aciar, le decorazioni sono firmate da Bartolomeo Gobbo, i costumi di Valentina Monticelli, l’ottimo disegno luci di Marco Palmieri, le foto di scena di Chiara Calabrò e le musiche di Germano Mazzocchetti. La produzione è firmata da Teatro Stabile d’Abruzzo, Stefano Francioni Produzioni e Argot Produzioni.