Al Teatro Massimo di Palermo “Elisabetta, Regina d’Inghilterra” di Rossini
di Alma Torretta
4 Nov 2024 - Commenti classica
“La Regina Elisabetta” è tornata al Teatro Massimo di Palermo. Ottime voci, delude l’allestimento di Livermore, sul podio il maestro Antonino Fogliani.
(Foto di Rosellina Garbo)
Era il 9 dicembre 1971 quando andò in scena al Teatro Massimo di Palermo una memorabile “Elisabetta, Regina d’Inghilterra” di Gioachino Rossini con la regia di Mauro Bolognini, sul podio Gianandrea Gavazzeni, straordinaria protagonista il soprano turco Leyla Gencer che aggiunse un altro personaggio del belcanto al suo repertorio infondendovi tutto il suo forte temperamento drammatico. Erano gli albori della Rossini Renaissance e il Teatro Massimo vi contribuì, quindi, riproponendo al pubblico palermitano la prima opera scritta da Rossini per il San Carlo di Napoli, andata in scena nel 1815 con protagonista Isabella Colbran.
Dopo 53 anni da quello storico allestimento, “Elisabetta, Regina d’Inghilterra” è tornata a Palermo per chiudere la stagione lirica 23/24 con la messa in scena di Davide Livermore che si è già fatta apprezzare nel 2021 al Rossini Opera Festival di Pesaro ed un cast tutto nuovo molto interessante. Ad interpretare stavolta Elisabetta è stata chiamata il soprano georgiano Nino Machaidze, che ha debuttato il ruolo con grande successo, in alternanza nel secondo cast con il mezzosoprano giapponese Aya Wakizono. Noi abbiamo sentito il primo cast e tutti gli interpreti sono di ottimo livello: il tenore siciliano Enea Scala, dopo avere interpretato in passato il cattivo Norfolc, ha fatto qui il suo debutto come l’eroe Leicester, in alternanza con il giovane tenore turco Mert Süngü. A interpretare Norfolc invece sono stati il tenore russo Ruzil Gatin, la cui prestazione è stata sempre più convincente nel corso della serata, e il giovane tenore australiano Alasdair Kent. Ha dato spessore al ruolo di Matilde, figlia di Maria Stuarda e sposa segreta di Leicester, un altro famoso soprano georgiano, la bravissima Salome Jicia, nel secondo cast c’era Veronica Marini, giovane interprete anche lei al debutto nel ruolo. Infine, nei panni en travesti di Enrico, il paggio in realtà fratello di Matilde, c’era il mezzosoprano salernitano Rosa Bove, brava nel canto meno centrata visivamente come personaggio nella messa in scena glamour di Livermore; e, infine, il tenore Francesco Lucii era Guglielmo, il capitano delle guardie. Buono anche il Coro del Teatro Massimo preparato dal Maestro Salvatore Punturo.
Proprio le voci e la brillante e scorrevole direzione del maestro Antonino Fogliani dell’Orchestra del Teatro Massimo sono state, secondo noi, la parte più apprezzabile dello spettacolo, malgrado l’innegabile eleganza e bella confezione della messa in scena firmata da Davide Livermore e dal suo usuale staff creativo.
Il regista torinese ha spostato l’azione dall’Inghilterra del Seicento agli anni Cinquanta del Novecento, nel regno di Elisabetta II e i costumi, di Gianluca Falaschi coadiuvato da Anna Verde, citano esplicitamente film come The Queen o fiction come The Crown. Le scenografie di Giò Forma abbinate alle proiezioni dei videodesign di D-Wok, con le suggestive luci di Nicolas Bovey, mescolano interni ed esterni, umori intimi e condizioni atmosferiche con un effetto affascinante di parallelismo tra sentimenti espressi e manifestazioni della natura. Le scene sono dominate dal bianco, anche il trono e i simboli della regalità sono tutti bianchi, e complessivamente risultano fredde anche quando, nel secondo atto, saranno proiettati dei rossi. Vecchia oramai l’idea di dare movimento all’ambiente con mobili storti e in parte incassati nel pavimento, oltretutto qui in nulla funzionali alla storia; deliziose le cameriere ballerine con le loro belle gonne ampie svolazzanti, ma invece un po’ ridicoli i cantanti quando si parlano al telefono e anche un po’ la regina sempre in abito da sera. I personaggi sembrano tutti delle caricature leggere di loro stessi, da operetta, più in sintonia con la vivacità della musica che con la drammaticità del libretto, non è stato trovato il necessario equilibrio tra i due elementi dell’opera. Insomma, dopo qualche anno dalla sua creazione, l’allestimento di Livermore non va oltre l’effetto sorpresa che aveva contribuito a farlo apprezzare a Pesaro e appare carino, nulla più, certo non memorabile come quello del ‘71.