Pietro Germi e il suo “cinema ritrovato”
di Alberto Pellegrino
22 Lug 2024 - Approfondimenti cinema
Pietro Germi e la riscoperta della sua filmografia in un approfondimento di Alberto Pellegrino, in occasione della rassegna dedicata al regista dal “Cinema ritrovato” di Bologna.
A centodieci anni dalla nascita e a cinquant’anni dalla morte il Festival del Cinema Ritrovato di Bologna ha dedicato una rassegna ai film di Pietro Germi, un regista e uno sceneggiatore che ha lasciato un segno profondamente radicato nella realtà sociale italiana, vista con una lucida visione critica a volte unita a una corrosiva ironia.
Questo autore ha affrontato nelle sue opere problemi socialmente rilevanti come la mafia, l’emigrazione, la criminalità urbana, il brigantaggio del meridione, il delitto d’onore, il divorzio, la violenza sessuale, la mancanza di diritti delle donne, la crisi della famiglia borghese e operaia.
Germi non è stato un genio cinematografico, ma non è stato nemmeno un artigiano della pellicola come qualcuno l’ha definito. È stato un grande intellettuale dal carattere difficile e un solitario che non ha inseguito il successo e non ha mai amato la mondanità, per cui è rimasto lontano dai tradizionali circuiti culturali del cinema.
Valori e contenuti nei film di Pietro Germi
Germi ha voluto realizzare un cinema nazional-popolare, ma profondo, analitico e non conformista; ha analizzato la nostra società con i suoi vizi e debolezze, con i suoi valori e principi fondanti; è stato capace di cogliere lo storico passaggio dell’Italia del dopoguerra da una condizione rurale a una condizione urbana e industriale, mettendo sempre al centro l’individuo in rapporto alla comunità in cui vive. Ha evidenziato l’inadeguatezza esistenziale dell’individuo, la sua solitudine nell’affrontare l’amaro e difficile mestiere di vivere, i suoi problemi più intimi e profondi e la sua dignità morale. Nelle sue opere più mature si è affidato a moduli narrativi e stilistici ben strutturati, a sceneggiature dall’impianto lucido e funzionale, nel rispetto dei codici propri dei vari generi filmici con opere a volte non esenti da difetti, ma con riferimenti alla lezione formale del cinema francese e statunitense, mostrando una notevole padronanza delle tecnica cinematografica appresa frequentando, tra il 1943 e il 1945, i corsi di regia del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Germi si è sempre dichiarato orgogliosamente un socialdemocratico, un antifascista, un anticomunista e questo l’ha tenuto lontano dai circoli di quella cultura di sinistra allora dominante, ma non è il caso di farne una vittima di regime, perché ha sempre potuto realizzare in piena libertà decine di film che gli hanno provocato critiche e polemiche, ma sono stati considerati dei capolavori e dei grandi successi in Italia e all’estero. È stato oggetto di critiche anche dure e a volte immeritate, ma questo è successo anche ad altri personaggi di rilievo come Totò, Pasolini, Bellocchio e persino Fellini.
Nessuno gli ha impedito di frequentare quasi tutti i generi cinematografici come uno sceneggiatore e un regista dotato di una tecnica e di un linguaggio personali con opere che gli hanno fatto meritare numerosi e prestigiosi premi a livello nazionale e internazionale: sette Nastri d’argento, due David Donatello, il Premio per il miglior film italiano alla Mostra di Venezia del 1951 con il film La città si difende; il Gran Premio della giuria per il miglior film drammatico con Il cammino della speranza al Festival di Berlino 1951; il Premio per la miglior commedia con Divorzio all’italiana al Festival di Cannes1962; Premio Oscar 1963 per la migliore sceneggiatura originale con Divorzio all’italiana; il Gran Prix per il miglior film con Signore & Signori al Festival di Cannes 1966; il Gran Premio con Serafino al Festival Cinematografico Internazionale di Mosca 1969.
“Il testimone” e “Gioventù perduta”
Germi fa il suo esordio come regista nel 1946 con Il testimone, un poliziesco psicologico, dove s’intrecciano delitto e senso di colpa, un giallo giudiziario dai toni melodrammatici, che si richiama a Delitto e castigo di Dostoevskij e al cinema espressionista di Fritz Lang per la presenza opprimente di un destino che pesa sulla coscienza del protagonista. Alquanto evidenti sono anche i riferimenti al cinema noir americano con l’uso frequente dei dettagli e dei primi piani, le ombre proiettate sui muri come oscuri rimorsi, le simboliche immagini di prigioni che aprono e chiudono il film. Il registra rivela una grande padronanza della macchina da presa, ma commette diversi errori di grammatica e sintassi linguistica, usa dialoghi ridondanti e a volte falsi, si avvale di una recitazione abbastanza stereotipata. Il film si apre in una aula di tribunale dove il protagonista è accusato di omicidio e sta per essere condannato a morte, quando viene improvvisamente assolto per la improvvisa ritrattazione del principale testimone d’accusa, ma l’ombra del rimorso tormenta l’uomo per tutto il film, fino a quando oppresso dai rimorsi finirà per costituirsi e a riconoscersi colpevole.
Scarsa l’accoglienza del pubblico e contraria la critica, per cui Germi decide di giocare la carta del poliziesco d’azione con Gioventù perduta (1947) con l’inserimento di aspetti sociologici sulla realtà italiana e sulla crisi esistenziale di una gioventù appena uscita dal trauma della guerra. Ancora notevole appare la perizia tecnica e stilistica della regia che conferisce spessore drammatico alle immagini, un equilibrio interno alle inquadrature e una compattezza alle sequenze, ma con errori e incongruenze nella sceneggiatura. Un professore universitario (padre del giovane criminale) definisce la crisi giovanile con toni moralistici: “La vostra generazione a volte ispira una certa pietà. Siete stati squassati dai più grandi flagelli che possano colpire gli uomini: la dittatura e la guerra. E ciò che è più terribile nella guerra non è la perdita di vite umane o di beni, ma la perdita del senso morale il crollo di tutti i valori, l’indifferenza, il cinismo che essa genera”. Bisognerebbe però tradurre queste parole in immagini, ma il film si basa sulle scene d’azione di una rapina e gli omicidi di un giovane deviato della società bene e tutto si riduce a uno scontro tra il Male (il criminale) e il Bene (il poliziotto). Nonostante l’influenza di Steinbeck e Dos Passos, il crimine non appare un fenomeno sociale ma l’iniziativa individuale di una mente malata contro l’ordine costituito e la legge che viene fatta rispettare a colpi di pistola.
“In nome della legge”, “Il cammino della speranza” e “Il brigante di Tacca di Lupo”
In quegli anni la Sicilia ha richiamato l’attenzione d’importanti registi come Visconti (La terra trema) e Luigi Zampa (Gli anni difficili), per cui Germi e i suoi sceneggiatori decidono di fare un film tratto dal libro Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo. Nasce così In nome della legge (1948) con la sceneggiatura di Tullio Pinelli e Federico Fellini, con Leonida Barboni affermato direttore della fotografia. Germi, che era partito per fare un film western ambientato sotto il sole e le terre bruciate della Sicilia, si ritrova a realizzare una della sue opere migliori dalle forti tinte epiche e simboliche: un giovane e integerrimo pretore Guido Schiavi, inviato nel piccolo paese di Capodarso, decide di lottare contro i soprusi dei poteri forti rappresentati dai proprietari terrieri, difendere i diritti dei minatori e dei contadini, di entrare in collisione con la mafia capeggiata dalla mitica figura del massaro Turi Passalacqua. Non siamo di fronte al primo film contro la mafia, ma ad un film sulla mafia che susciterà molte polemiche, perché in esso appare ancora la divisione tra mafia “cattiva” e mafia “buona” rappresentata da “uomini d’onore e all’antica” che applicano le loro leggi come il pretore applica le leggi dello Stato. Alla fine sarà il massaro a consegnare al magistrato l’omicida di un ragazzo ucciso per gelosia, ricordandogli che “la legge la facciamo noi secondo le antiche usanze…Siamo in un’isola e il governo è molto lontano…Non siamo delinquenti, noi siamo uomini d’onore, liberi e indipendenti come gli uccelli dell’aria”. Dopo queste parole il massaro Turi e i suoi uomini si allontanano a cavallo verso l’orizzonte come gli scomodi eroi dell’avventura, come gli antichi cavalieri della giustizia e della vendetta. Germi dichiarerà nel 1963 che allora conosceva poco la mafia e che, in ogni caso, lui intendeva parlare di una mafia che ormai apparteneva al passato: “A me interessava prima l’ambiente, poi la mafia. La mafia in quanto aspetto di un ambiente, cioè in quanto fenomeno di una società in certe forme primitiva, in cui sussistono ancora questi curiosi e anacronistici costumi. La mafia era forse l’occasione per un racconto di tipo avventuroso, ma non era la ragione principale del film…Non esiste una mafia, ma ne esistono molte. Esiste innanzitutto una psicologia, c’è un costume che si può definire mafioso e che la sua radice in una radicale diffidenza e sfiducia del cittadino nei riguardi dello Stato”. Si è trattato comunque di un film importante e Guido Aristarco l’ha definito “una delle opere più significative del nostro cinema, da porre accanto a Ladri di biciclette” (Sipario, 1949).
Nel 1950 Germi gira Il cammino della speranza, un film in chiave epico-narrativa, sociale e melodrammatico, un racconto corale dell’odissea di un gruppo di poveri zolfatari siciliani rimasti senza lavoro, i quali cercano con le loro famiglie di emigrare in Franca per trovare un lavoro dignitoso. Si tratta di una ballata popolare, una corale Odissea dei poveri dal Sud al Nord per attraversare clandestinamente il confine italiano, seguendo come modello il romanzo Furore di Steinbeck e l’omonimo film di John Ford per sottolineare che i poveri sono tutti uguali, sono la stessa gente costretta a lasciare la propria terra, affrontando condizioni di vita bestiali con rassegnazione e a volte con rabbia, nutrendo la speranza che sia ancora possibile costruire un futuro migliore.
Germi ritorna nel Mezzogiorno per girare il “western sudista” Il brigante di Tacca del Lupo (1952), dove affronta il tema del brigantaggio meridionale con un soggetto liberamente tratto dall’omonimo racconto di Riccardo Bacchelli. Il film è la storia di una guerra civile che vede impegnato un reparto di bersaglieri comandati dall’inflessibile capitano Giordani (Amedeo Nazzari) che definisce i briganti “un’accozzaglia di ladri, assassini, stupratori” e che ha il compito di sgominare una banda di briganti capeggiata da Raffa Raffa. È un film storico moderno, agile e affascinante come un western, dove gli scontri non hanno nulla di epico ma sono mischie furibonde, dove non si parla dell’appoggio dato al brigantaggio dal papato e dal governo borbonico in esilio, ci sono però tutti gli aspetti più brutali e cruenti di una guerra civile raccontati con apprezzabile realismo.
Il realismo romantico. “Il ferroviere” e “L’uomo di paglia”
Nei primi anni Cinquanta Germi realizza alcuni film di artigianato cinematografico come il poliziesco La città si difende (1951); la commedia La presidentessa (1952), un divertente adattamento dell’omonimo vaudeville di Maurice Hennequin e Pierre Veber; Gelosia (1953) tratto dal romanzo Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana, un film dagli esasperati toni melodrammatici.
Successivamente decide di percorrere la strada del “realismo romantico” con Il ferroviere (1956), dove Germi interpreta anche il ruolo del protagonista. Nel film si traccia il destino amaro di un uomo che vede sconvolti nella famiglia e nel lavoro tutti i valori in cui crede e su cui si basa la sua semplice vita. È una delle sue opere più riuscite e intense, che ottiene un notevole successo di pubblico per la sua profonda carica di umanità, un piccolo capolavoro che rappresenta un “unicum” nella filmografia del regista genovese. Definito dalla critica di sinistra un’opera che “appartiene a un populismo storicamente sorpassato”, il film viene difeso da Antonello Trombadori, direttore de Il Contemporaneo, che definisce Germi un uomo importante per il movimento antifascista e afferma di “aver visto un film italiano assai bello e commovente, certamente popolare…È un’opera di un socialdemocratico militante, eppure è un film pervaso da ogni parte di sincero spirito socialista”.
Germi pensa di poter ripetere il successo con L’uomo di paglia (1958), storia di un tradimento coniugale, di un innamoramento che provoca sofferenza e la morte di una giovane donna, che scardina il “normale” e delicato equilibrio di una famiglia. Accolto con favore dal pubblico viene giudicato come un eccesso di sentimentalismo, di emotività, di moralismo, con il protagonista che si comporta senza coraggio, senza coscienza e senza solidarietà umana, spingendo una brava ragazza al suicidio per poi tornare a rifugiarsi tra le calde pareti della famiglia.
Il migliore poliziesco all’italiana
Germi cambia completamente genere con Un maledetto imbroglio (1959), un film ispirato molto liberamente a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, un romanzo di Carlo Emilio Gadda molto particolare e difficile per contenuti e linguaggio, ma Germi e i suoi sceneggiatori ne traggono gli avvenimenti essenziali e ne fanno un racconto poliziesco con un intreccio asciutto e realistico Il film, che rimane il migliore esempio di poliziesco all’italiana, è caratterizzato da atmosfere noir, momenti di pathos e suspense, colpi di scena che culminano con l’agnizione finale del colpevole di un delitto commesso in un appartamento della Roma bene. Le principali sequenze si svolgono però nei quartieri popolari e nelle periferie della capitale, una spaccato sociale all’interno del quale si muovono personaggi ben delineati e incisivi, tra i quali spicca la figura di un burbero poliziotto, il commissario Ingravallo, interpretato dal migliore Germi attore.
La scoperta della commedia. La trilogia siculo-veneta
Nel 1961 Germi spiazza il pubblico e la critica con una scelta imprevedibile vista la sua precedente carriera e la sua personalità di “orso buono”, perché decide di entrare nel mondo della commedia con uno stile satirico, grottesco e fortemente critico verso la società italiana, girando in successione tre film che risultarono fra i migliori della cinematografia italiana degli anni Sessanta.
Il primo è Divorzio all’italiana (1961), che affronta con umorismo corrosivo costumi e stereotipi della società siciliana con particolare attenzione per il “delitto d’onore” progettato dal barone Fefè Cefalù di Agramonte (uno straordinario Marcello Mastroianni), il quale vuole liberarsi della moglie che non ama e quindi sposare la giovanissima cugina Angela (una memorabile Stefania Sandrelli). Il quarantenne Fefè, ultimo residuo di un’aristocrazia in declino, vive chiuso in casa tormentato dalla noia e dalla passione per questa ragazza sedicenne che l’ha stregato con la sua ingenua sensualità. Il barone ha escogitato un piano per uccidere la moglie e il suo presunto amante colpevoli di adulterio, per cui fa in modo che la donna fugga con un timido e complessato adoratore. Fefè immagina i modi più disparati per uccidere la moglie, ma alla fine porta a termine il suo progetto, ispirandosi a un fatto di cronaca a ispirarlo. Condannato a una lieve pena prevista dal codice penale per i “delitti d’onore”, il barone ritorna in città accolto trionfalmente e può finalmente sposare la seducente cugina, ma durante il viaggio di nozze sullo yacht (con un colpo di genio della regia) la ragazza lancia un segnale a un marinaio e si prepara a tradire il non più giovane marito.
Film straordinario per ritmo narrativo, Divorzio all’Italiana riesce a mescolare dramma e commedia per mettere a nudo un vergognoso aspetto della realtà italiana, l’usanza secolare di una società incapace di procedere a un radicale rinnovamento culturale. Pensata agli inizi come un’opera drammatica, questa commedia risulta valida per uno stile libero da ogni ambiguità moralistica, per la straordinaria miscela di umorismo e invettiva sociale, per il ritmo serrato, le pungenti annotazioni ambientali, psicologiche e di costume, facendo emergere un quadro sociale assolutamente amaro, dal quale nessuno esce innocente e degno di pietà.
Nel 1964 Germi gira Sedotta e abbandonata un’altra storia siciliana dai toni ancora più grotteschi e con una marcata critica al mancato rinnovamento culturale del meridione, affrontando i temi della violenza sessuale, del rapporto “onore siciliano-matrimonio riparatore”, del perbenismo di facciata. Peppino è un giovane mafioso che violenta Agnese, la sorella della fidanzata Matilde. Per riparare il danno, è necessario far sposare la ragazza con il seduttore e trovare un nuovo fidanzato per la sorella. Ma Peppino rifiuta il matrimonio riparatore e rischia di finire in galera, ma alla fine accetta e, per mettere le cose a posto di fronte all’opinione pubblica, si organizza un finto rapimento a cui seguono le nozze riparatrici malgrado nello stesso giorno il padre della sposa sia morto per infarto. I due sono infelicemente marito e moglie, Matilde si chiude in convento e il suo nuovo fidanzato tenta il suicidio senza riuscirci.
Il terzo film Signore & Signori (1966) è ambientato nel profondo della provincia veneta ed è considerato un piccolo capolavoro, uno straordinario affresco sull’ipocrisia borghese di una società che vive di chiacchiere, tradimenti, maldicenze, perbenismo e comportamenti immorali nel ricco Veneto ormai entrato a pieno nella società dei consumi, ma dove permangono le primitive pulsioni di una borghesia che nasconde dietro un rigido moralismo una serie di ipocriti comportamenti tribali. Il film, suddiviso in tre episodi, mette in mostra vizi e comportamenti ancora presenti nella società italiana come le minorenni indotte alla prostituzione, la stampa supina nei confronti dei potenti, le polemiche e gli scontri che intaccano la piramide gerarchica del potere, la tenacia con cui si persegue il buon nome dei vari gruppi sociali.
Nel primo episodio si parla di unaserata tra amici che si trasforma in un crogiolo di inganni reciproci, di tradimenti più o meno espliciti, di raffinate menzogne, perché ognuno dei presenti mira a possedere la moglie dell’altro, con tutta una serie di accoppiamenti a catena. Non si tradisce per amore o per vendetta, ma per noia e per pura competizione, in un gruppo dove tutti sono consapevoli del gioco che si sta facendo e si accetta ogni tipo di tradimenti senza abbandonare il tetto coniugale.
Nel secondo episodio un impiegato di banca s’innamora di un’avvenente cassiera e tenta una impossibile convivenza che la comunità ostacola e condanna per invidia e perbenismo fino al punto di costringere l’uomo a ritornare dalla moglie che non ama. In questo caso la religione svolge un ruolo cruciale come contraltare alla libido che viene tollerata solo come un peccato da eliminare con un rapido pentimento e la conseguente penitenza.
Il terzo episodio si basa sullo sfruttamento sessuale da parte di maschi adulti nei confronti di una contadina minorenne e analfabeta che viene trasformata in una prostituta al loro servizio. È il cinico sfruttamento un’appartenente a quel sottoproletariato che arriva in città per migliorare la propria condizione sociale e finisce al servizio di una depravazione collettiva. Una volta scoppiato lo scandalo, la comunità difende i maschi con l’intervento di un avvocato e di un sacerdote, arrivando, per mettere tutto in silenzio, a concordare una particolare forma di risarcimento: far “sacrificare” la moglie di uno dei colpevoli che dovrà concedersi sessualmente al padre della ragazza sfruttata.
Tre film scarsamente riusciti e l’ultimo successo
Dopo l’indiscutibile valore e successo di questa trilogia, le opere successive mostrano un autore privo d’ispirazione con risultati nettamente inferiori al suo normale standard. L’immorale (1967) è la storia di un uomo che non sa scegliere fra le tre donne della sua vita e le tre famiglie che si è creato con ciascuna di loro.
Sembra che Germi non riesca più a cogliere le dinamiche interne alla società e a confrontarsi con una realtà mutata dopo il Sessantotto, per cui si rifugia nella fiaba ecologica di Serafino (1968), la storia poco credibile di un pastore abruzzese che rifiuta la modernità per rifugiarsi sui monti dopo avere scelto come compagna una prostituta. Il film, apprezzabile per l’ambientazione e per una certa ironia, viene stroncato dalla critica ma ottiene strepitoso successo di pubblico anche per la popolarità del protagonista interpretato da Adriano Celentano.
Il successivo Le castagne sono buone (1970) è forse il peggiore film di Germi con un poco credibile Gianni Morandi posto al centro di una vicenda amorosa che elogia i buoni sentimenti, ma che scivola nel sentimentalismo. Nel 1972 il regista sembra ritrovare la sua vena creativa e una carica ironica con l’ultimo film Alfredo, Alfredo, che si segnala per la vivacità del ritmo, per le annotazioni satiriche, per una caustica amarezza legata al racconto della vita di un timido giovane che precipita in un “inferno coniugale” ambientato in una città della profonda provincia italiana (Ascoli Piceno) con le sue ipocrisie e i suoi moralismi che condizionano la vita di tutti i personaggi.