“The Circus” e “Pagliacci” connubio perfetto allo Sferisterio di Macerata
di Alberto Pellegrino
12 Ago 2022 - Commenti cinema, Commenti classica
“Il Circo” di Chaplin e “Pagliacci” di Leoncavallo. Uno spettacolo originale e affascinante allo Sferisterio per il Macerata Opera Festival.
(Fotografie di Luna Simoncini)
Questa volta il connubio cinema-opera lirica, che costituisce la cifra distintiva di questa stagione maceratese funziona alla perfezione grazie alla felice accoppiata del film The Circus e Pagliacci in programma il 5/7/11 agosto. La serata si apre con la proiezione del film di Charlie Chaplin che nel 1928 ha firmato regia, soggetto, sceneggiatura e montaggio, realizzando una delle sue opere più ispirate e poetiche, dove la tristezza è mediata dall’ironia e dalla comicità. Si tratta di un capolavoro che precorre Luci della ribalta, perché in entrambi i film l’autobiografia risulta trasparente e la narrazione si chiude con una rinuncia che può apparire una sconfitta, ma dalla quale si può uscire paradossalmente vincitori.
Il film di Charlie Chaplin
Il circo è una delle più geniali metafore della vita umana mai viste al cinema ed è ancora oggi in grado di divertire e commuovere il pubblico, mescolando dramma, poesia e comicità con quella naturalezza che è una cifra fondamentale del mondo di Chaplin. Si tratta di un’opera modernissima per il ritmo perfetto, per la capacità di fondere umanità e comicità, per le sue gag irresistibili, per la sua coinvolgente poesia e non a caso, nella prima edizione del premio del 1929, le è stato assegnato l’Oscar alla carriera “per la versatilità ed il genio nella recitazione, sceneggiatura, regia e produzione”. La copia proiettata allo Sferisterio è stata restaurata dalla Cineteca Nazionale di Bologna, istituto leader per il restauro cinematografico che ha recuperato anche altri capolavori di Chaplin tra cui La febbre dell’oro, La donna di Parigi, Luci della città, Tempi moderni.
La partitura musicale è stata eseguita per la prima volta dal vivo dall’Orchestra Filarmonica Marchigiana diretta da Timothy Brock che l’ha anche restaurata, essendo uno dei massimi esperti mondiali nel campo della musica per film. Oltre a comporre sinfonie, concerti, due opere liriche, musiche per film e altri brani musicali, Brock ha restaurato oltre 20 colonne sonore di grandi film muti come Il generale di Buster Keaton, Il Gabinetto del dr. Caligari di Robert Wiene, Nosferatu di F. W. Murnau, Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier, Il ventaglio di Lady Windemere di Ernest Lubitsch, Entr’act di René Clair con musiche di Erik Satie, Ballet mécanique di Ferdinand Leger e Dubley Murphy con musiche di George Antheil, Cabiria di Pastrone con musiche di Manlio Mazza e la Sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti.
Del film Il circo esistono due partiture musicali: una composta da Chaplin nel 1967 e una originale (quella scelta per Macerata) costituita da un’antologia di 51 brani scelti dallo stesso Chaplin e dal compositore Arthur Kay, brani che si accordano perfettamente alla varie sequenze del film, mescolando musica colta e musica leggera, da Grieg a Scott Joplin, da Wagner a Irving Berlin, per arrivare a Leoncavallo con la celebre aria “Ridi pagliaccio” che sottolinea la delusione d’amore del povero Charlot, un brano che ha costituito una motivazione in più per mettere a confronto il mondo circense del film e del melodramma.
La trama del film
Uno Charlot affamato si aggira in un luna park, quando un borsaiolo, scoperto dal derubato, infila il portafoglio nella tasca dell’ignaro vagabondo che approfitta di quel denaro inaspettato per poter finalmente mangiare, ma viene scambiato per il ladro ed è costretto a fuggire dai poliziotti. Si rifugia prima in un labirinto degli specchi; poi imita alla perfezione i movimenti meccanici di un automa; quindi, sempre inseguito dalla polizia, irrompe nella pista di un circo durante l’esibizione di alcuni pagliacci e di un maldestro illusionista, provocando con la sua goffaggine le fragorose risate di un pubblico annoiato. La crisi economica del circo suggerisce al proprietario di assumere il nuovo clown che viene però scacciato per la sua imperizia. A causa di uno sciopero degli inservienti Charlot è di nuovo assunto come attrezzista e fa divertire il pubblico con l’inconsapevole comicità della sua goffaggine. Il principale decide allora di sfruttare le sue doti di clown involontario senza aumentargli la paga, ma Charlot ha stretto amicizia con la trapezista Myrna, la bella figlia del padrone che deve subire le angherie paterne; sarà proprio la ragazza a digli che il suo lavoro è sottopagato e che deve difendere la sua dignità di lavoratore. Charlot è innamorato della giovane, ma i suoi sogni s’infrangono per l’arrivo del bell’equilibrista Rex, che affascina la ragazza. Roso dalla gelosia, Charlot prova di nascosto a emulare il rivale, ma viene sorpreso dal principale che lo spedisce a fare il clown, ma la delusione amorosa ha inaridito la sua vena comica e il suo numero non è più divertente. La momentanea scomparsa dell’equilibrista diventa l’occasione di rivincita e Charlot si offre per eseguire l’esercizio alla corda con la complicità di un inserviente che durante le evoluzioni acrobatiche lo dovrà sostenere con un cavo d’acciaio legato intorno ai fianchi. La sfortuna, l’imperizia e l’accanimento di alcune scimmiette dispettose fanno fallire il numero e Il vagabondo viene licenziato. La figlia del principale, stanca delle violenze paterne, decide di fuggire e vorrebbe unirsi a Charlot che, consapevole dei sentimenti della ragazza per l’equilibrista Rex, predispone un piano affinché i due giovani possano sposarsi e riprendere il loro posto nel circo, dove non si può fare a meno delle loro esibizioni. Essi impongono la riassunzione di Charlot, il quale declina però l’offerta e assiste alla partenza dei carrozzoni circensi che scompaiono all’orizzonte, mentre lui mestamente si avvia verso una nuova avventura.
I “Pagliacci” di Leoncavallo
Lo spettacolo è stato completato con i Pagliacci, il capolavoro di Ruggero Leoncavallo, autore anche del libretto ispirato da un vero fatto di sangue al quale il musicista avrebbe assistito da bambino. Il delitto viene compiuto nella notte del 5 marzo 1865 a Montalto Uffugo, piccolo centro della Calabria, dai fratelli Luigi e Giovanni D’Alessandro che uccidono per gelosia Gaetano Scavello, domestico in casa Leoncavallo. I due omicidi vengono poi condannati dal padre del compositore che è il magistrato del luogo. Leoncavallo ha ambientato la vicenda nel mondo del teatro di strada, traendo alcuni elementi da La femme de tabaren di Catulle Mendès e da Un drama nuevo di Estébanez. L’opera, dopo il debutto al Teatro Dal Verme di Milano il 21 maggio 1892, con la direzione di un giovane Arturo Toscanini, ottiene un immediato successo e va spesso messa in scena con Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni (1890), perché le due opere sono considerate le più rappresentative del Verismo. Il melodramma di Leoncavallo presenta tutti i caratteri del Verismo teorizzato da Verga/Capuana: una ambientazione popolare nel Mezzogiorno d’Italia; una narrazione che procede in modo rapido e chiaro; un dramma passionale scatenato dalla gelosia e dalla vendetta, destinato a sfociare in un omicidio.
Il prologo è un vero e proprio Manifesto del Verismo lirico quando si annuncia che “l’autore ha cercato di pingervi uno squarcio di vita, “al vero ispiravasi” e “con vere lacrime scrisse” questa storia in cui “vedrete amar siccome s’amano gli esseri umani”, i cui personaggi sono “uomini di carne e d’ossa”, non finzioni letterarie, oppure pallidi e nobili eroi da melodramma romantico.
Originale è anche la presenza del teatro nel teatro, lo scambio tra uomo e attore, la commistione tra scena e vita, tra finzione scenica e sentimenti autentici, con il bilanciamento di effetti patetici, grotteschi e tragici, con l’anticipazione di tematiche (abiezione morale, delitto passionale, deformazione fisica come segno di perversione interiore, mondo dei poveri teatranti a cominciare dalle maschere della Commedia dell’arte) che saranno proprie dell’espressionismo dal Wozzeck di Buchner/Berg all’ Opera da tre soldi di Brecht/Weil.
La trama dell’opera
Una piccola compagnia teatrale itinerante, composta dal capocomico Canio, dalla moglie Nedda e dai due commedianti Tonio e Beppe, arriva in un piccolo paese per inscenare una commedia. Canio ama la moglie, che è molto più giovane e che ha raccolto orfanella strappandola alla miseria; non sospetta che lei lo tradisce con Silvio, un contadino del luogo, ma Tonio, che ama Nedda e ne è respinto, lo avverte della tresca amorosa. Canio scopre i due amanti, ma Silvio riesce a fuggire senza essere visto in volto. L’uomo vorrebbe scagliarsi contro la moglie, ma arriva Beppe che lo convince a dare inizio alla commedia. Diviso tra rabbia e disperazione, Canio deve prepararsi per lo spettacolo, una farsa nella quale impersona Pagliaccio, un marito tradito da Colombina e da Arlecchino. Ben presto la realtà prende il sopravvento sulla finzione e Canio rinfaccia a Nedda la sua ingratitudine e le grida che il suo amore si è mutato in odio. La donna cerca di attenersi alla commedia, ma reagisce con coraggio quando il marito vuole sapere il nome dell’amante e accetta di essere accoltellata a morte. La stessa sorte tocca a Silvio, presente tra il pubblico e accorso per soccorrerla. Gli spettatori, dapprima attratti dalla trasformazione della farsa in dramma, comprendono troppo tardi che quanto stanno vedendo non è più finzione ma realtà, mentre Tonio, rivolgendosi al pubblico, esclama beffardo e compiaciuto “La commedia è finita!”.
Gli interpreti
Tutti gli interpreti hanno reso al meglio i vari passaggi dell’opera con espressività, realismo e pathos: dai momenti più sentimentali come la ballatella d’intonazione popolare “Stridon Lassù” di Nedda (Rebeca Lokar) al duetto d’amore con Silvio “E allor perché tu m’hai stregato” (il bravo baritono-basso Tommaso Barea); dalla deliziosa “Serenata di Arlecchino” (David Astorga) al dolore, alla violenza, all’ira e alla paura, sentimenti a volte gridati a volte avvolti nella tensione del silenzio. Su tutti il Canio di Fabio Sartori, che ha saputo trasformare il suo amore in violenza dopo avere espresso la sua disperata umanità nella celebre aria “Vesti la giubba”. Altrettanto efficace il baritono Fabio Velox sia come interprete del Prologo, sia come amante respinto e piccolo Jago di provincia.
La regia di Alessandro Talevi
Questo affermato regista ha dichiarato con onestà di non essere stato soddisfatto della regia di Pagliacci realizzata del 2015, perché non ha mai amato l’opera verista. Ha poi cambiato idea e ha accettato questo nuovo incarico stimolato dall’originale rapporto dialettico tra cinema e opera lirica scelto come cifra distintiva dal MOF 2022. Quindi è nato un nuovo progetto registico che ha salvato del vecchio progetto solo il “Carro dei Pagliacci”, il quale viene trascinato al centro della scena da un piccolo Ape. Intorno si distende per tutto la superfice del palcoscenico (secondo un progetto scenografico dello stesso Talevi e Maddalena Boyd) un piccolo paese senza alcun riferimento geografico, i cui edifici sono privi di pareti e sono delimitati da linee perimetrali bianche che ricordano Dogville, il film-capolavoro di Lars von Trier. È da questi luoghi metaforici che entrano ed escono gli abitanti del villaggio per assistere allo spettacolo, portandosi le sedie da casa. Il tutto è stato ideato sulle varie tonalità del grigio, compresi gli abiti di contadini e benestanti anni Quaranta/Cinquanta, disegnati da Anna Bonomelli che, anche per gli attori in scena, rinuncia agli altisonanti costumi della tradizione per procedere per simboli significativi. Il pubblico svolge un ruolo importante prima come spettatore del film proiettato sul grande schermo centrale (forse i brani sono tratti dal film I pagliacci di Giuseppe Fatigati e Leopold Hainisch del 1943), poi come spettatore prima annoiato della povera commedia rappresentata; infine drammaticamente coinvolto quando la finzione si trasforma il tragica realtà. Unica libertà che si è presa il regista rispetto al libretto è il finale dove Tonio impugna la pistola e uccide anche Canio e Beppe (un richiamo al cinema della violenza?) per sottolineare che, con lo sterminio dell’intera compagnia, lo spettacolo è veramente finito. Manifesti e spezzoni filmici hanno commentato sia le fasi sentimentali, sia le fasi drammatiche della rappresentazione a sottolineare il ancora più il legame tra cinema/melodramma.