“Il mercante di luce” apre la stagione TAU 2022 nell’Anfiteatro Romano di Urbisaglia


di Alberto Pellegrino

23 Lug 2022 - Commenti teatro

Il 20 luglio, nella cornice dell’Anfiteatro Romano, Il mercante di luce di Roberto Vecchioni, adattato da Ivana Ferri, ha aperto la stagione del TAU (Teatri Antichi Uniti) ad Urbisaglia (MC). Splendido spettacolo interpretato da Ettore Bassi.

(Le foto dello spettacolo sono di Charlie Stive Dagna)

Ettore Bassi

La stagione TAU Amat si è aperta il 20 luglio quando la splendido cornice dell’Anfiteatro Romano ha accolto un affascinante spettacolo tratto il romanzo “Il mercante di luce” (2014) di Roberto Vecchioni adattato per il teatro da Ivana Ferri che ha curato anche la regia e ha affidato l’interpretazione a un ottimo Ettore Bassi che ha fornito una convincente prova d’attore, dominando la scena per circa due ore ed entrando nel vivo della vicenda e nell’anima dei vari personaggi, accompagnato dalle musiche composte ed eseguite dal vivo da Massimo Germini, uno dei maggiori chitarristi italiani e fedele compagno d’arte di Roberto Vecchioni.

La poesia mi porta fuori da me; se io morissi domani con l’Antigone sul petto, non chiederei altro, avrei sentito, avrei avuto tutto. – Sì, papà, ma io voglio cose, non letteratura. – Hai ragione. Ma io non sono capace, non sono in grado di darti tutte quelle meravigliose cose che vorresti avere. Sto provando a darti la letteratura come cosa: là dove non puoi avere, cerco di farti sognare. La poesia è un sapore, un odore, una visione… Io, di corsa, nel tempo che ho e che abbiamo, ti voglio passare non quel che vedi o credi di vedere, non quel che ami o credi di amare, ma la bellezza di vedere, di amare: non avrò modo, e lo sappiamo, di dirtelo esempio dopo esempio nella tua vita; non ci è concesso, non è possibile. Devo farlo subito, ammassando tutti i languori e i deliri di anni e anni in un attimo che li concentri e te li renda vivi, come vissuti».

Queste parole sono la principale chiave di lettura dello spettacolo basato sul serrato ed emozionante dialogo tra un padre, il professore di letteratura greca Stefano Quondam, e il figlio Marco intelligentissimo e assetato di conoscenza. L’altro tema di fondo è lo scorrere del tempo (rappresentato in scena da un grande orologio meccanico le cui lancette vanno spostate a mano), ma di tempo ce n’è sempre meno, perché il ragazzo è afflitto da una rara e incurabile malattia, la sindrome di Hutchinson Gilford Tangram, una malformazione genetica che colpisce un bambino su 4-8 milioni e provoca un invecchiamento precoce con una rapida fine della vita con una durata media di circa 20 anni. Marco ha ora 17 anni e ne mostra settanta, vuole viere intensamente quel poco di tempo che gli rimane per dare un significato alla propria breve esistenza. È questo che cerca di fare il padre attraverso l’affascinante e poetico linguaggio di Roberto Vecchioni che non ha certo bisogno di presentazioni essendo una delle grandi personalità del panorama culturale e artistico italiano.

Questo coltissimo professore di greco “bastonato” ed emarginato dalla vita, per trasmettere al figlio il senso più profondo dell’esistenza, si affida a quello che conosce meglio: la bellezza della poesia con versi suoi ma anche di Omero, Saffo, Archiloco; il fascino del teatro inventato dai Greci che ancora prima della religione ha acceso la luce dell’intelligenza nel buio della mondo e della ragione, perché il teatro è stato il più alto momento creativo dell’uomo, per cui nel testo i versi dei grandi tragici greci, i grandi personaggi di Antigone, Edipo. Oreste e Medea.

In questo difficile e complesso viaggio, con il quale il padre accompagna il figlio verso l’inevitabile fine, ci sono momenti di dolore, ma anche di passione intellettuale e di gioia, fino a quando Marco, proco prima di morire, potrà dire al padre “Non ho più paura papà. Adesso non ho più paura di vivere”.

Con un pathos degno della grande tragedia classica, i personaggi emergono nella loro profondità e fragilità: il giovane Marco è costretto dal destino a costruirsi una realtà parallela fatta di momenti felici e piccole vittorie; Stefano, prigioniero di un sogno mai realizzato e che ha sempre tormentato la sua vita, è una specie di Don Chisciotte in lotta contro la stupidità e l’omologazione, ma alla fine scoprirà di poter lasciare al figlio un solo dono, “il più grande possibile, oltre la felicità o l’infelicità, l’amore e il disamore, il destino e Dio, la casualità inspiegabile di nascere e morire. E il dono è l’orgoglio di essere uomini e di vivere con questa rivelazione: perché non importa quanto si vive, ma con quanta luce dentro.”

Intorno a quell’orologio che inesorabile segna lo scorrere del tempo, il dialogo tra padre e figlio s’intreccia con l’intricata, appassionata e dolorosa vicenda amorosa che ha legato Stefano a sua moglie Miranda, una donna bellissima, vivace, appassionata fino a quando viene dolorosamente colpita dalla malattia del figlio e scopre che questo marito così grande e intelligente è solo innamorato di se stesso. Stefano rimane folgorato dalla fine di questo rapporto amoroso e ne cerca le cause dalla sua psicanalista che porta il nome fatidico di “Cassandra”, la quale conferma tutte le sue colpe.

In questo labirinto esistenziale l’inserisce la vicenda professionale di Stefano Quondam, professore universitario cresciuto all’ombra del grande grecista Achille De Dominici, il quale l’ha eletto suo erede sulla cattedra di letteratura greca, ma quando il luminare va in pensione scopre di odiare tutto quel mondo classico a cui ha dato la vita e sparisce nel nulla. Stefano si rende conto di essere odiato dai colleghi che invidiano il suo sapere e lo considerano uno sprezzante superbo. L’ambita cattedra sarà pertanto assegnata dal Senato accademico all’astuto prof. Ulisse Ruiz, noto intrallazzatore, “leccaculo” dei potenti, bugiardo e esperto falsificatore di titoli accademici. A Quondam sarà riservato l’incarico minore di “lettore omerico”. Quondam paragona la sua vicenda a quella di Aiace il grande eroe omerico esaltato da Sofocle nella sua tragedia, il quale viene privato con l’inganno delle armi di Achille e, preso dalla follia, vorrebbe uccidere tutti i capi degli Achei, ma stermina solo una mandria di buoi e un gregge di pecore. Riconquistata la luce della ragione, Aiace sceglie il suicidio per difendere il suo onore e la propria dignità. Stefano non sceglierà il suicidio, ma l’eroe greco rimarrà per lui un esempio di rigore e coerenza morale, un incitamento a rifiutare la meschinità umana. Del resto il giovane Vecchioni aveva dedicato ad Aiace una delle sue prime canzoni, nella quale, tra l’altro, diceva:

…Il mare è grande quando vien la sera
e Dio è lontano per la tua preghiera
qui c'è chi parla troppo e c'è chi tace
tu sei ti questi, e al popolo non piace.
Chi ha vinto è là che vomita il suo vino
e quel che conta in fondo è l'intestino.
È il coro degli achei che si diletta
hai perso e questo è il meno che ti aspetta
ti stanno canzonando mica male
va' un po' a spiegare quando un uomo vale.
…E tu fai fuori mezzo accampamento
ne volano di teste cento e cento
salvo far l'inventario e veder poi
che non sono i tuoi giudici, son buoi.
Allora per un mondo che è un porcile
ti val bene la pena di morire;
dimmi cosa si prova in quel momento
con la spada sul cuore e intorno il vento?
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