“Eichmann. Dove inizia la notte”. Un dialogo tra Hannah Arendt e Adolf Eichmann scritto da Stefano Massini
di Alberto Pellegrino
8 Apr 2022 - Commenti teatro
Nel buio assoluto del palcoscenico forti rumori di guerra fanno da prologo allo spettacolo Eichmann. Dove inizia la notte, un atto unico di Stefano Massini, prodotto dai Teatri Stabili di Bolzano e del Veneto, che è andato in scena il 5 e 6 aprile 2022 nel Teatro Lauro Rossi di Macerata, come unica rappresentazione regionale. Grande prova di Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon.
(Fotografie di scena di Tommaso La Pera)
Stefano Massini è in questo momento il più importante commediografo italiano per una serie di testi rappresentati in Italia e all’estero, tra i quali si possono citare Memorie di un boia, Processo a Dio, L’odore assordante del bianco, Trittico delle Gabbie, Lehman Trilogy, La commedia di Candido, Il Vangelo secondo Judah.
Nell’ampia e cruda scenografia, progettata da Marco Rossi e segnata da un drammatico grigio-nero, vi sono alcuni luoghi deputati (una scrivania, delle sedie, dei gradini, un banco da imputato) che indicano le zone dell’azione, mentre sullo sfondo passano sopra uno schermo le immagini di personaggi e momenti dell’Olocausto. Spazi e personaggi sono sapientemente messi in risalto dalle luci di Michelangelo Vitullo e dai costumi disegnati da Giovanna Buzi.
In queste atmosfere, efficacemente create dalla rigorosa regia di Mauro Avogrado, inizia un serrato duello verbale tra due straordinari personaggi: da un lato il gerarca nazista Adolf Eichmann che indossa la divisa delle SS ed è colpevole per aver pianificato, organizzato e reso possibile lo sterminio di sei milioni di ebrei; dall’altro, nel ruolo dell’inquisitore-intervistatore, si contrappone la grande pensatrice ebrea Hannah Arendt, massima esponente delle filosofia politica nel campo del totalitarismo, dell’antisemitismo e dell’identità ebraica, del rapporto tra politica, libertà e democrazia, la quale indossa a volte un anonimo tailleur grigio, una toga da giudice, un pastrano con la stella gialla di David.
Massini ha magistralmente scritto questo atto unico basandosi sui verbali degli interrogatori, gli atti del processo, la storiografia tedesca ed ebraica, i testi della stessa Arendt, ma questo feroce dialogo acquista forza e credibilità anche per la straordinaria interpretazione di Ottavia Piccolo e di Paolo Pierobon.
I due attori hanno conferito spessore umano, energia drammatica e capacità di coinvolgimento ai due protagonisti che, per tutti gli ottanti minuti della rappresentazione, si sono confrontati e scontrati senza un attimo di pietà e di reciproca comprensione per arrivare all’unica conclusione possibile dopo un così serrato ed estenuante colloquio: la scoperta della “banalità del Male” come ha sostenuto la stessa Arendt in un suo celebre saggio.
Nella realtà storica Eichmann, grazie alle sue capacità mimetiche, riesce a sfuggire alla cattura e al processo di Norimberga; rimane cinque anni nascosto in Germania; poi si rifugia in Argentina, dove nel 1960 è scoperto e catturato dal servizio segreto israeliano (Mossad), portato in Israele e sottoposto a Gerusalemme a un processo seguito in tutto il mondo. Al termine del dibattimento, il tribunale emette una condanna a morte per impiccagione; dopo l’esecuzione il suo corpo viene cremato e, per espressa indicazione della giuria, le sue ceneri sono disperse in alto mare.
Nella pièce di Massini il gerarca nazista è ormai un prigioniero in attesa di giudizio ed ha modo di ricostruire tutti i passaggi della sua travolgente carriera, da piccolo borghese amico di molti ebrei e con un’amante ebrea fino alla conquista del potere affascinato dalla figura carismatica di Adolf Hitler. Protetto da Himmler e da Goering, da semplice tenente delle SS nel 1939 arriva a essere il responsabile dell’Ufficio centrale del Reich per l’emigrazione ebraica di Berlino come massimo esperto della questione ebraica. Gli viene pertanto affidata la direzione del traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei e per l’organizzazione dei vari campi di concentramento, nei quali si passa dallo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche allo sterminio nelle camere a gas nel quadro di quella che è definita in modo abbastanza neutro come la “Soluzione finale”.
Eichmann, pur mantenendo la sua mentalità di burocrate, che conosce in modo superficiale la stessa ideologia nazista (per sua ammissione non ha mai letto il Mein Kampf), ha tuttavia il potere di decidere della vita e della morte di centinaia di migliaia di persone senza mai diventare un membro dell’élite nazista, senza avere alcun peso nelle più importanti decisioni della politica o della guerra. Questa sua condizione di squallido esecutore di ordini non riduce le sue responsabilità anche perché le testimonianze di molti ebrei, che lo hanno conosciuto, hanno rivelato il suo violento disprezzo nei confronti della razza ebraica, tanto che Eichmann è arrivato a dichiarare: «Salterò nella mia tomba ridendo, perché la sensazione di avere sulla coscienza cinque milioni di esseri umani è per me fonte di straordinaria soddisfazione».
Sotto il pressante interrogatorio della Arendt, emergono alcuni drammatici aspetti riguardanti il funzionamento della macchina organizzativa dello sterminio, gli esperimenti che hanno portato alla produzione di quei gas usati poi per il genocidio, le modalità con cui è stato concretamente gestito l’orrore di Auschwitz. Ecco allora prendere progressivamente forma un quadro psicologico e umano a prima vista imprevedibile: Eichmann non è un “mostro”, ma una persona terribilmente normale, priva di talento se non quello di sapersi districare tra le maglie del potere.
Siamo così posti di fronte allo squallido ritratto di un uomo votato all’arrivismo, abile nella finzione, capace di perseguire i più bassi interessi personali, primo fra tutti il denaro e il lusso. Ci si può allora chiedere come un uomo mediocre, contraddittorio, superficiale, perfino goffo abbia potuto incutere terrore a milioni di deportati, abbia potuto decidere della loro vita e della loro morte e si finisce per scoprire che il “Male assoluto” può annidarsi e assumere anche la forma del più comune, gretto e insospettabile essere umano.
Di fronte ad Eichmann che si giustifica addossando ad altri la colpa del massacro degli ebrei, la Arendt afferma che è troppo facile rifiutare le proprie responsabilità, nascondendosi dietro il motto di Himmler “l’unico onore è non tradire mai”.
Gli ricorda “l’esperimento sociale” del trasferimento forzato in Siberia di famiglie di contadini e di prigionieri comuni organizzato nel 1933 dal capo della GPU Genrih Grigor’eic Jagoda e dal responsabile dei Gulag Matvei Berman con il consenso di Stalin. Esalta la figura di Sophie Scholl che ha fatto parte del movimento clandestino della “Rosa Bianca” e che, insieme ad altri, si è impegnata a preparare e distribuire volantini per propagandare la resistenza passiva al nazismo, spedendoli a indirizzi scelti casualmente, lasciandoli alle fermate dei mezzi pubblici o nelle cabine telefoniche. Nel febbraio 1943 la Scholl viene arrestata, processata per alto tradimento e condannata a morte insieme al fratello Hans e a Christoph Probst. Malgrado le torture, i tre giovani non rivelano i nomi dei loro compagni e sono ghigliottinati nel cortile della prigione di Monaco.
Prima di salire sul patibolo Sophie Scholl ha detto: «Come possiamo aspettarci che la giustizia prevalga quando non c’è quasi nessuno disposto a dare se stesso individualmente per una giusta causa? È una giornata di sole così bella, e devo andare, ma che importa la mia morte, se attraverso di noi migliaia di persone sono risvegliate e suscitate all’azione?» Lo spettacolo si conclude con Hannah Arendt che ricorda le parole di suo padre quando, da bambina, gli ha domandato quale fosse il punto del cielo nel quale ha inizio la notte. La risposta è stata: “Non esiste un punto preciso. Quando fa buio il cielo cambia colore tutto quanto, i tuoi occhi non possono fermarlo, non potranno mai”.