La splendida “MEDEA” di Laura Morante
di Flavia Orsati
17 Ago 2021 - Commenti teatro
L’11 e il 12 agosto è andata in scena la Medea di Euripide al Teatro Romano di Ascoli Piceno, interpretata da Laura Morante, contestualmente alla rassegna TAU.
In tutti gli altri eventi, piena è la donna di paure, e vile contro la forza, e quando vede un ferro; ma quando, invece, offesa è nel suo talamo, cuore non c'è del suo più sanguinario. (Medea)
Grazie a una voce – quella di Laura Morante -, a un violino (Lorenzo Fuoco) e a un pianoforte (Salvatore Monzo), Medea è tornata a vivere ancora una volta dopo decine di secoli.
La vicenda è nota: dopo aver aiutato Giasone con le sue arti magiche a conquistare il Vello d’Oro, la maga lascia la Colchide e si trasferisce in Grecia con l’eroe, di cui è perdutamente innamorata, sposandolo e dando alla luce due figli. In passato ha tramato, organizzato e compiuto efferatezze per raggiungere i suoi scopi e per amore di Giasone; la sua vita, tuttavia, sembra scorrere felice accanto al suo amato, fino a un fatale giorno: Creonte, re della città di Corinto, dove Medea vive con Giasone, vuole dare in sposa sua figlia Glauce all’eroe. Giasone è attratto dalla proposta, dato che in tal modo avrebbe la possibilità di succedere al re: accetta così il matrimonio, non per amore ma per brama di potere e per volontà di rivalsa sociale, cercando di convincere Medea che, a seguito dell’unione con la famiglia reale, anche la vita dei loro figli cambierebbe in meglio. La donna, non convinta delle ragioni che Giasone adduce, essendo portatrice di valori totalmente opposti, quali la passionalità e l’oscurità dionisiaca, contrapposti alla razionalità, alla politica e all’ordine del vivere consociato della polis greca, sentendosi abbandonata e tradita, medita vendetta. Medea è ferita perché aveva aiutato Giasone a conquistare il vello d’oro, facendo sì che la ragione cedette il passo alla passione: per il suo amato uccise, abbandonò la sua patria, suo padre, tutto quanto avesse di caro al mondo. Finita la fedeltà di Giasone la fattucchiera ha perso tutto, si trova in un vicolo morto che le rende impossibile il tornare sui suoi passi o rimediare al tragico errore. In una situazione così dolorosa e disperata, a Medea resta solo una possibilità: la vendetta.
Creonte, che teme per l’incolumità di Glauce, esilia la maga, famosa per le sue arti magiche, dalla città. Nonostante la situazione sia disperata e alla donna sembri che ormai ogni felicità sia fuggita lontano, ella non vuole arrendersi, anzi, arde di vendetta contro i novelli sposi e le famiglie di entrambi, giurando sugli dei che in quel giorno i suoi nemici periranno, decidendo di ucciderli con veleno, “arte fatale” in cui Medea è maestra indiscussa, protetta dalla sua dea tutelare Ecate. La maga, del resto, incarna l’animo umano e in particolar modo quello femminile: “indifferente al bene ed esperta di inganni e malefici”, come ogni donna. Lei, dal canto suo, chiede una sola grazia a Creonte, che sarà fatale: desidera restare un giorno in più prima di essere esiliata, al fine di sistemare le sue cose e scegliere un luogo degno dove trascorrere, mesta, il resto dei suoi giorni. Un solo giorno, tuttavia, sarà sufficiente per meditare e attuare la terribile vendetta: Medea invia alla sua rivale, come dono di nozze, un peplo e una corona incantate, che prendono fuoco non appena si avvicinano al corpo della figlia del re, portandola alla morte insieme al padre, che tenta invano di liberarla.
A questo punto, il pathos della tragedia è al culmine: dopo aver punito Glauce, arriverà il gesto estremo, quello di distruggere quanto di caro ha Giasone: la loro casa, i loro figli. “Maledetto il mio orgoglio”, esclama Medea dilaniata da un modernissimo conflitto interiore: memore degli aspri dolori del parto, dell’amore che nutre verso la sua prole, della gioia nell’averla vista crescere, sa che anche questo ultimo barlume sta per svanire, perché la vendetta, l’orgoglio ferito avranno la meglio. La donna sente che non c’è più alcuna speranza per lei, tutto è svanito, nemmeno lo sguardo carezzevole si poserà ma più sulle fattezze dei suoi amati bambini che, ignari, continuano a sorriderle. Per un istante, per un istante solo, il coraggio sembra abbandonarla: la sventurata fine delle creature strazierà il padre, ma a che prezzo? Il momento si avvicina, ineluttabile. L’ora dei suoi figli sta per scoccare, ormai Medea non è più donna ma incarnazione della nemesi stessa e, nonostante i momenti di esitazione, è risoluta a compiere l’efferato gesto, come un ineluttabile compito, atroce ma necessario, unica via verso la nuova vita di dolore, ormai totalmente vittima dell’oscurità e delle forze ctonie e dionisiache al servizio del caos. Nella tragedia, Glauce e i due figli di Medea e Giasone vengono nominati a malapena, sono essenzialmente oggetti attraverso i quali si perpetra la vendetta di Medea: la donna aveva fissato tutta la sua energia esistenziale nell’amore per Giasone, fino a travolgere ogni morale od ogni altro affetto o valore, totalmente al di là del bene e del male. Quello di Medea è certamente un mito distruttore, portato in scena per la prima volta nel 431 a.C. ad Atene, nel quale l’eros è una forza distruttrice e accecante, che si esprime attraverso la maschera tormentata di Medea, mossa da puro istinto e accesissimo furor, come a dirci che la mancanza di equilibrio nelle passioni condanna inevitabilmente all’autodistruzione. Il reading musicale della Morante ben si attiene al testo originale, evidenziando i momenti di maggiore pathos grazie alla musica, ma anche ben calibrando i silenzi, condensandoli in momenti in cui regnano l’indicibilità e l’irrappresentabilità del cuore umano, delle sue pieghe – e piaghe – più nascoste e profonde, dove istinto e passione hanno la meglio su intelletto e ragione e una forza oscura fa diventare lo smarrimento estrema lucidità.