Gli ultimi appuntamenti di Macerata Jazz
Manuel Caprari
14 Lug 2004 - Commenti live!
Francesco Cafiso nasce nel 1989. Nel 2001 vince il premio Massimo Urbani, alla tenera età di undici anni. Nel 2002 apre il festival jazz di Pescara e viene sentito dal trombettista Wynton Marsalis che lo vuole con sè nel tour europeo del 2003, e quest'anno ha vinto, a New York, l'international jazz award. A Macerata l'abbiamo già potuto ascoltare nel 2001, accompagnato da Franco d'Andrea e Renato Sellani; l'abbiamo riascoltato ora accompagnato dal trio del pianista Riccardo Arrighini (Arrighini al piano, Amedeo Ronga al basso, Stefano Rapicavoli alla batteria, tre ottimi musicisti), in una serata dedicata alla musica di Michel Petrucciani, il pianista francese di origini italiane morto il 6 giugno 1999, all'età di trentasei anni; un pianista considerato, a torto o a ragione, un Bill Evans più energico e con influenze dalla musica classica contemporanea. Una delle voci più originali del jazz degli ultimi vent'anni, e il connubio tra questa musica e il sax sospeso tra il be bop e l'hard bop, tra Charlie Parker e il John Coltrane di Soultrane, per intenderci, di Cafiso, è piuttosto interessante. Tanto più che Cafiso, e questo sottolinea ulteriormente il suo talento, questa musica non l'aveva praticamente studiata, prima del giorno del concerto.
Ma abbiamo un sassolino nella scarpa: non vogliamo addentrarci troppo sul problema di cosa aspettarsi e cosa no da un ragazzino di quindici anni che se ha talento e voglia di coltivarlo è giusto che lo coltivi; quello che ci dà fastidio è che tanti nel pubblico cadono in deliquio di fronte a lui, chiedendosi come fa un ragazzino così giovane a suonare così bene. Forse passando la maggior parte del suo tempo a studiare e suonare musica, cioè impegnandosi con passione magari anche esagerata per la sua età ? O dobbiamo sempre cadere dalle nuvole, pensare che dietro la musica non ci siano sudore e fatica ma solo ispirazione piovuta dal cielo di fronte alla quale compiacersi della propria meraviglia? A noi Cafiso piace, e molto, ma ci sarebbe piaciuto lo stesso se fosse arrivato a suonare a questi livelli a vent'anni piuttosto che a quindici, anche perchè se a quindici anni si suona a questi livelli, non si ha forse la maturità necessaria per non restare invischiati nella palude del puerile purismo alla Wynton Marsalis, trombettista tanto bravo quanto sterile che non è stato ancora informato che dagli ani '60 in su il jazz si è trasformato in maniera vertiginosa; o per non restare incastrati nel noioso giochetto di suonare all'infinito i soliti standards. Ben venga, allora, e come una ventata d'aria fresca, l'approccio ad una musica come quella di Petrucciani, che se non era un avanguardista dei più duri, era certamente un jazzista calato nella realtà musicale dei suoi tempi. Così come speriamo sarà Cafiso, e sempre di più, e gli auguriamo una carriera lunga, bella e intensa. Uno che a quindici anni può permettersi di uscire dall'ovvio e dal conformismo perchè ha già le basi per farlo, se non si perde per strada può diventare una colonna portante del mondo del jazz contemporaneo.
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Xavier Girotto e Daniele di Bonaventura hanno dedicato due dischi al tango argentino. Uno alle musiche di Astor Piazzolla, l'altro alle musiche di Carlos Gardel. Hanno scelto musiche non necessariamente tra le più conosciute. Soprattutto per quanto riguarda Piazzolla (solo nal bis arrivera la celeberrima, struggente <i<Oblivion). Tra le altre eseguono anche El Penultimo, brano che doveva fare da colonna sonora a Ultimo Tango a Parigi, e che poi fu sostituita da quella di Gato Barbieri (da qui il titolo del brano stesso); ma c'è tempo di infilare anche un paio di brani di composizione propria.
Di Bonaventura è al bandoneòn, e arrangia anche i brani. Girotto al sax, con la sua solita veemenza, che, a dire il vero, altre volte che lo avevamo ascoltato ci aveva anche un po' disturbato. Invece stavolta ci ha piacevolmente sorpresi: perchè dava un tocco vigoroso e un piglio nervoso ad un concerto che, a causa soprattutto dell'accompagnamento fin troppo languido degli archi, rischiava di filar via liscio ed indolore come un bicchier d'acqua.
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Stefano Bollani è un pianista stupefacente. Accoppia virtuosismo e capacità di creare atmosfere ed emozioni con una apparente naturalezza che ha dell'incredibile. Petra Magoni (che poi è sua moglie) ha una bella voce, soul con qualche inflessione vagamente pop che può dar fastidio a tratti, ma è solo l'altra faccia della medaglia di una accentuata versatilità . E visto che il tema della serata è “canzoni da tutto il mondo”, di versatilità ce n'è bisogno eccome.
Il duo passa senza soluzione di continuità , spesso all'interno di uno stesso medley, da luoghi classicamente frequentati dal jazz come la bossanova di Chico Buarque o i classici americani (Bacharach, Bernstein) al pop-rock inglese (Roxanne dei Police, Blackbird dei Beatles), alla musica leggera o cantautoriale italiana (Guarda che Luna, Bocca di Rosa); passando per una versione quasi brechtiana di Mamma Mia Dammi Cento Lire, e per accenni di madrigali del '600. Un calderone impressionante, tenuto insieme dalla smaliziata bravura e dalla simpatica disinvoltura, anche nel modo di rapportarsi al pubblico, dei due musicisti. Alla fine quello che resta è la testimonianza-,una delle tante possibili, e chissà fino a che punto consapevole-del tipo di cultura che la nostra società , dominata dai massmedia e dall'eccesso di informazioni, ma anche, almeno apparentemente, sgombra (per quanto ancora?) dagli schematismi di pensiero delle ideologie, ci permetta di avere, se solo abbiamo la voglia e la capacità di muoverci nel mare magnum della (mancanza di) comunicazione di massa: una cultura frastagliata, estemporanea, forse addirittura zoppa ed arbitraria, ma ricca, variegata, libera e vitale, libera da ogni preconcetto e da ogni pre-giudizio. Alla fine si esce dal teatro piacevolmente frastornati, allo stesso modo cui si usciva dal cinema dopo aver visto un film come Moulin Rouge.
Una chiusura davvero in bellezza, per una stagione jazzistica davvero di tutto rispetto.
(Manuel Caprari)