Sferisterio Opera Festival
Alberto Pellegrino
5 Ago 2011 - Commenti classica
Fascino e seduzione in Così fan tutte
<b<MACERATA. Ogni manifestazione operistica ha la sua perla e nell'edizione di Sferisterio Opera festival 2011 il vertice si è raggiunto con la messa in scena di Così fan tutte di Mozart con la regia, le scene e i costumi di Pier Luigi Pizzi, che dopo essersi confrontato con successo con Don Giovanni, bissa quest'anno il successo di un'opera mozartiana che trova la sua perfetta collocazione nella cornice settecentesca del bibianesco Teatro Lauro Rossi di Macerata.
Così fan tutte non si avvale solo di una splendida partitura mozartiana, ma in essa si avverte ancora una volta la mano del librettista Lorenzo Da Ponte. Questa straordinaria coppia aveva esordito nel 1786, affrontando il tema dell'amore nelle Nozze di Figaro, che non era certamente l'amore-carità in senso cattolico, nè amore-gioia di vivere di amanti spensierati, ma amore-desiderio che anima tutti i personaggi da Figaro al Conte d'Almaviva a Rosina e che prende persino la matura Marcellina, la possibile Giocasta della commedia presa da insane voglie verso Figaro, figlio segreto e ignorato. Nel 1787 i due riprendono nel Don Giovanni il tema dell'amore inteso come seduzione in un tragicomico intreccio dominato dalla voracità sessuale del protagonista in un contorno di inganni, violenze, corteggiamenti, disprezzo della morale corrente che contraddistinguono questo capolavoro assoluto . Da ultimo nel 1790 arriva la terza opera dei due autori, quella che ha goduto fino al Novecento di minore popolarità , che è stata disprezzata da personaggi illustri (Beethoven, Stendhal, Wagner), che è stata giudicata scandalosa e immorale dai Romantici che, presi dal mito dell'amore eterno e passionale, non potevano certo apprezzare il gioco erotico e crudele dei quattro amanti, il cinismo di Don Alfonso, l'astuzia popolaresca e un po' perfida della servetta Despina. Certamente mancano in quest'opera personaggi assoluti come il carismatico Figaro o il monumentale Don Giovanni, in quanto essa punta sulla coralità del gioco condotto da sei personaggi collocati tutti sullo stesso paino di coinvolgimento e di spessore psicologico.
Ci si dimentica spesso che il titolo completo dell'opera è Così fan tutte o sia La scuola degli amanti, quindi un tema che riecheggia quello della Scuola delle mogli di Molière, un autore che Da Ponte conosceva alla perfezione, ma che egli stravolge in chiave erotico-giocosa, scrivendo un testo del tutto originale, dove apparentemente si rispettano i personaggi chiave dell'opera buffa all'italiana (Ferrando l'innamorato patetico, Guglielmo il conquistatore di femmine, Fiordiligi orgogliosa e sentimentale, Dorabella saggia ma volubile, Despina furba e intrigante, Alfonso cinicamente saggio), mentre se ne sconvolge la natura e la personalità . Il risultato del lavoro di Da Ponte appare alla fine decisamente diverso: per prima cosa siamo di fronte a un gioco di società inteso in senso decisamente antiborghese ed anche inquinato da una certa dose di misoginia, basato su una struttura che ha una precisione matematica che conferisce a questa vicenda un aspetto scarno, ridotto a geometrie essenziali e a ritmi serratissimi, una struttura legata alle tre unità aristoteliche funzionali a questa architettura teatrale che non nasconde volutamente i suoi scopi didascalici. Emerge infatti da questa opera, come accade spesso in Mozart, una componente massonica evidenziata da alcune simbologie legate ad antichi riti iniziatici, oppure dall'esperimento di guarigione dei due finti malati da parte del finto medico Despina, facendo ricorso a tecniche di tipo mesmerico.
Appare poi ancora più evidente l'ispirazione illuministica che introduce una forma di pedagogia erotica (Mozart sembra provare quasi simpatia per le due sorelle animate da sani appetiti sessuali), per cui spetta a Don Alfonso educare gli essere umani a non farsi illusioni sulle virtù umane, a rendersi conto delle loro debolezze, ma nello stesso tempo a provare indulgenza per le loro debolezze, facendo affidamento sulla Ragione per non essere dei semplici giocattoli nelle mani di Eros ( Fortunato l'uom che prende/Ogni cosa pel buon verso,/E tra i casi e le vicende/Da ragion si fa guidar ) e per affrontare la vita con olimpico distacco ( Quel che suole altrui far piangere/Fia per lui cagion di riso;/E del mondo in mezzo ai turbini/Bella calma troverà ). Del resto sia il librettista che il compositore sono due convinti illuministi che accettano di rappresentare la realtà per quella che è, senza apprezzamenti ideologici o moralistici nei confronti dei sei personaggi.
Pier Luigi Pizzi ha collocato l'opera in una struttura che esalta la sua predilezione per le geometrie architettoniche sempre funzionali alla vicenda; in questo caso sapientemente inserite negli elementi naturale della sabbia e degli scogli di una spiaggia, su cui si affaccia una bianchissima villa con due terrazze e tre porte-finestra destinate a svolgere un serrato gioco di apparizioni e fughe, ma anche a convegni d'amore, quando le due giovani cederanno alle lusinghe dei loro finti corteggiatori. L'intera scena (che all'improvviso emerge da un enorme velo bianco destinato a scomparire con un autentico coup de thèatre) appare avvolta da una accecante luce mediterranea o dai toni azzurro-pastello della sera. Al pari risultano impeccabili i costumi tutti perfettamente graduati e assemblati sotto il profilo cromatico con il gioco festoso dei bianchi per le due amanti felici e dei neri per le stesse giovani addolorate per la finta partenza degli innamorati; con lo scambio degli abiti dei due militari che ricompaiono in un corretto costume albanese, secondo le indicazioni del libretto.
Pizzi costruisce un perfetto meccanismo a orologeria , andando più a fondo di una semplice rappresentazione dei fatti, in modo da sottolineare l'ambiguità e la fragilità dei sentimenti umani, il cinismo di Don Alfonso (magistralmente interpretato da Andrea Concetti), per riportare in superficie quei fremiti di sensualità repressa che circolano sottotraccia nella partitura e nel libretto, per cui la componente erotica appare inarrestabile nel travolgere sia i due innamorati presi dal gioco perverso di Don Alfonso, sia le due giovani amanti, disposte dopo esitazioni e resistenze più o meno
prolungate a cedere ad un attimo di piacere rubato al fidanzato della propria sorella in uno stato di totale abbandono ( il core vi dono dice Dorabella, mentre la più disponibile Fiordiligi dice addirittura Fa di me quel che ti par ). Pizzi gioca su un insieme di ammiccamenti e toccamenti che coinvolgono i quattro amanti e che continua anche nel momento della riappacificazione finale ad indicare che l'equivoco gioco erotico delle due coppie è destinato a continuare.
Il Maestro Riccardo Frizza ha diretto l'Orchestra Regionale delle Marche con impeto giocoso, sottolineando con acume anche i passaggi più interiori e sentimentali dell'opera, guidando con piglio sicuro coro e interpreti tutti all'altezza del loro ruolo, a cominciare dal già citato Andrea Concetti, per proseguire con la raffinata e già matura Daniela Remigio (Fiordiligi), il mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze (Dorabella) dai potenti mezzi vocali e ottima attrice, il giovane soprano Giacinta Nicotra vivace e disinvolta Despina, il tenore argentino Juan Francisco Gatell (Ferrando) e basso-baritono tedesco Andreas Wolf (Guglielmo), le due giovani voci mozartiane di sicuro avvenire.
Un ballo in maschera in stile kennedyano
La ristrettezza di mezzi impone sicuramente delle scelte nella messa in scena di un'opera complessa come il Ballo in maschera di Verdi e solo a fatica la magistrale creatività di Pier Luigi Pizzi è riuscita a fornire soluzioni accettabili ed efficaci, mantenendo in parte quell'affascinante commistione di amore, passione, tragedia e ironia che fanno di quest'opera uno dei lavori più profondi e innovativi del Verdi compositore e drammaturgo. In particolare non va sottovalutato l'aspetto di Verdi drammaturgo che con il suo innato talento teatrale riesce a superare i limiti di un libretto nel suo insieme mediocre per comporre quello che lui stesso teneva a definire un dramma musicale .
Quando nel 1856 Antonio Somma propone a Verdi un libretto tratto dal dramma Gustave III, ou bal masquè di Eugène Scribe, questo era già stato portato sulla scena da altri tre autori: Gustave III, au bal masquè di Daniel Auber (1833), su libretto dello stesso Scribe; Clemenza di Valois di Vincenzo Gabussi, su testo di Gaetano Rossi; Il Reggente di Saverio Mercadante (1843), su libretto di Salvatore Cammarano. Verdi, che ha rinunciato all'idea di portare sulla scena il suo amato Re Lear, deve indirettamente confrontarsi con il lavoro di altri colleghi, che tuttavia surclassa perchè nessuno ha ottenuto quel clima passionale e romantico (un connubio shakespeariano fatto di amori infelici e ironia) che conferisce spessore all'universo espressivo di questo melodramma arrivato sula scena nel 1859.
Verdi, che ha appena composto la sue celebre trilogia e si accinge a creare tre capolavori come La forza del destino, Aida e Don Carlo, si permette di ignorare gran parte delle convenzioni del melodramma italiano, gettando uno sguardo all'opera francese, da cui deriva sia la brillantezza della corte del governatore (si pensi al galop che chiude il primo atto), sia l'ultima scena del ballo quando l'addio fra i due innamorati assume il ritmo di una brillante e tragica mazurka. Il compositore affida inoltre a un soprano leggero la parte maschile del paggio Oscar; ritarda l'ingresso in scena della protagonista Amelia che nel primo atto ha solo un breve anche se intenso terzetto, mentre impone alla stessa il peso maggiore del secondo atto; ma il vero colpo di genio di Verdi è quello di trasferire l'intera vicenda dalla originaria Svezia di Gustavo III (personaggio storico veramente assassinato durante un ballo di corte nel 1792) nelle colonie americane del XVII secolo e precisamente a Boston nel Massachussets, dove il potere centrale è affidato al governatore Conte Riccardo. Tutto il resto diventa quindi più credibile come la presenza di Amelia (bellezza anglosassone) al fianco del creolo Renato, l'amico più fidato del governato; l'antro dell'indovina che diventa una veggente di pelle nera figlia di schivi africani; lo stesso gruppo dei congiurati formato da ufficiali, dignitari di corte e esponenti locali nemici del conte. L'intera vicenda ha i suoi momenti forti nel confronto di Riccardo con la maga e il successivo incontro con Amelio nel Campo della Morte; nella scoperta da parte di Renato che la donna velata a lui affidata dal governatore è sua moglie Amelia, per cui il dramma della gelosia si mescola al dileggio e allo scherno dei congiurati condotti su un ritmo di danza; la novità della scena in cui si estrae a sorte, alla presenza di Amelia, il nome di chi dovrà assassinare il governatore durante il ballo; il supremo addio all'amore e alla vita di Riccardo che partecipa alla festa in maschera consapevole di andare incontro alla morte. Gli aspetti politici fanno quindi da sfondo alla passione infelice e alla gelosia che costruiscono l'ossatura di quello che D'Annunzio considerava il più melodrammatico dei melodrammi.
Pier Luigi Pizzi fa ricorso anche per questa messa in scena al suo senso delle geometrie (il coro diviso ai lati sopra due grandi gradinate, una pedana centrale sopraelevata) che appaiono come abbandonate sulla scena spoglia, poi all'inizio dell'azione tutto si anima sotto il magico gioco delle luci di Sergio Rossi. La scelta dell'attualizzazione cade in epoca post-kennedyana anni Sessanta con l'apparizione di eleganti ufficiali, di borghesi col panama bianco, di eleganti signore che sfoggiano grandi cappelli e abiti a colori sontuosamente armonizzati. Lo studio del governatore si riempie di bianchi divani e poltrone Frau, tra le quali si muove un Oscar trasformato in una solerte segretaria fasciata da uno squillante abito rosso; quindi Riccardo fa il suo ingresso in scena su una squillante auto rossa; quindi l'antro dell'indovina viene trasformato in un asettico talk show televisivo, dove Ulrica predice il futuro dinanzi a un plaudente pubblico femminile. La scena più suggestiva, dove meglio si muove la creatività del regista, è quella dell' orrido campo ove s'accoppia/ al delitto la morte! , che fa da contorno alla disperazione di Amalia (avvolta in un lungo abito nero e con il capo fasciato da un virginale velo bianco) e al suo incontro con Riccardo: intorno ai due innamorati tra una colonnina di benzina e cumuli di vecchi copertoni si muovono in un velo di nebbia prostitute, tristi figuri e tossicodipendenti. Altrettanto efficace è il gioco spietato delle torce elettriche impugnate dai congiurati che concentrano i loro raggi sulla disperata Amalia. Si ritorna quindi in un interno borghese per la resa dei conti fra Amalia e Renato, per l'incontro fra i congiurati e il disperato atto di dolore di Renato ( Eri tu che macchiavi quell'anima ), per concludersi nel clima mondano ma alquanto congelato di una festa danzante.
Tutta la scena è sovrastata da tre grandi schermi su cui sono inizialmente proiettate tre bandiere statunitensi, quindi vengono raddoppiate in diretta le azioni che avvengono sul palcoscenico. Ci è sembrata questa l'idea più suggestiva dello spettacolo con le immagini rigorosamente in bianco e nero a richiamare il cinema realista statunitense degli anni Cinquanta-Sessanta (soprattutto Elia Kazan e John Huston) ed è merito della regia video di Vittorio Ricci e Luca Longarini e le capacità tecniche dei cameraman, continuamente in scena, l'aver sottolineato la bravura degli interpreti impegnati in una recitazione così ravvicinata e segnata da primi e primissimi piani, piani medi e americani, riprese di profilo ed espressivi controluce. Tutto molto accattivante e suggestivo anche se a farne le spese è stata quell'aura romantico-ironico-passionale propria di un'opera che rimane nella sostanza un melodramma del secondo Ottocento.
Daniele Callegari ha guidato con professionalità l'Orchestra Regionale delle Marche, mentre tra gli interpreti si è distinto per impegno e capacità recitative il tenore Stefano Secco, mentre il soprano Teresa Romano, pur essendo nel ruolo per aspetto fisico e forza interpretativa, ha mostrato mezzi vocali alquanto limitati; abbastanza sottotono, rispetto a precedenti prestazioni, è apparso il baritono Marco De Felice; mentre hanno fornito una buona prova il mezzosoprano Elisabetta Fiorillo e il giovane soprano Gladys Rossi, rispettivamente nelle vesti di Ulrica e del paggio Oscar.
(Alberto Pellegrino)