Una “Carmen” non Carmen allo Sferisterio


di Alberto Pellegrino e Roberta Rocchetti

11 Ago 2019 - Commenti classica, Musica classica

Una “Carmen” deludente, malamente decontestualizzata; molto meglio voci e orchestra. Commento a quattro mani tra Alberto Pellegrino per la messa in scena e regia e Roberta Rocchetti per la parte musicale.

Alberto Pellegrino

Partiamo dai fondamentali. La città di Siviglia riunisce in sé tre personaggi straordinari: Don Giovanni Tenorio, il seduttore, l’ingannatore, il libertario immoralista; Figaro, il primo eroe borghese del teatro moderno; Carmen, la gitana affascinante e selvaggia, gelosa dei propri amori e della propria libertà. Tutti hanno alle spalle un fior fiore di autori (Tirso de Molina e Molière, Beaumarchais e Prosper Mérimée), con altrettanti straordinari musicisti (Mozart, Rossini e Bizet) e librettisti (Lorenzo Da Ponte, Cerare Sterbini, Henri Meilhac e Ludovic Halévy). Ci troviamo dentro il Ghota del teatro e dell’opera lirica. 

Ma torniamo a Carmen.  Per Mérimée è una bella e giovane gitana, esperta in filtri d’amore, capace di far perdere la testa agli uomini fino a trasformarli in assassini e contrabbandieri, decisa a rivendicare la libertà di forgiare il proprio destino (“Non ti amo più. Tu mi ami ancora e per questo che vuoi uccidermi”). José è un brutale bandito che uccide il compagno di Carmen, mentre Lucas è un giovane e modesto picador. È stato per merito di Bizet e dei suoi autori del libretto che questa storia è stata trasformata, facendo di Don José un brigadiere dei dragoni, dando spessore al personaggio di Escamillo promosso a matador, introducendo la candida Micaela per creare il classico contrasto tra amore sacro e amore profano. Ma è soprattutto merito di Bizet aver fatto di Carmen uno dei miti dell’immaginario collettivo tra Ottocento e Novecento, tanto che il mito è strabordato dai palcoscenici operistici nel cinema: le Carmen di Cecil B. De Mille e Raoul Walsh (1915), Gipsy Blood di Ernest Lubitsch (1918), Carmen di Lotte Reiniger (1933), Carmen di Christian-Jacques (1944), Gli amori di Carmen di Charles Vidor (1948), Carmen Jones di Otto Preminger (1954), Carmen Story di Carlos Saura e Antonio Gades (1983), Prènom Carmen di Jean-Luc Godard (1983), Carmen di Francesco Rosi (1984).

Su tutto domina sempre il personaggio di Carmen, a un tempo splendente e tenebroso, pieno di vitalismo e di oscuri presagi di morte, bruciante di passione e sprezzate fino alla crudeltà, geloso della propria libertà fino a sfidare a viso aperto la morte. Di fronte abbiamo Don José che diventa vittima di una infuocata passionalità, per cui al tenore-eroe soccombente al destino tipico del melodramma romantico si sostituisce l’uomo sconfitto nel confronto carnale uomo/femmina, nello scontro drammatico dei due sessi che finisce per travolgere il protagonista maschile e conduce alla morte quello femminile. Scrittori, musicologi, filosofi concordano nel vedere Carmen come la protagonista assoluta dell’opera e come un personaggio nato sotto il sole infuocato del Mediterraneo e pura espressione della passionalità gitana.

Poi arriva allo Sferisterio di Macerata un discepolo di Graham Vick, il regista fiorentino Jacopo Spirei, il quale decide che, poiché Bizet ha ideato l’opera in Francia, bisogna trasferire l’azione da Siviglia a Parigi e precisamente al Crazy Horse, trasformando il melodramma in un cabaret, partendo dall’assunto che la Carmen è una opéra-comique.

Questo genere operistico nasce in Francia agli inizi del Settecento e si distingue come un prodotto “leggero” rispetto all’opera “seria” per alcuni contenuti moderatamente comici della trama, per il lieto fine e per non essere totalmente in musica, poiché vengono cantate solo le parti principali dell’azione che hanno contenuti più poetici e sentimentali, mentre i dialoghi necessari allo sviluppo della vicenda, ma non determinanti sotto il profilo poetico, sono recitati in prosa. Forse Spirei non si è reso conto che è stato Bizet a stravolgere in modo spregiudicato e coraggioso questo genere musicale proprio con Carmen che conserva solo il nome di opéra-comique, per diventare un’opera drammatica che mette a nudo gli aspetti più aspri e violenti dell’umanità e trasforma i contenuti leggeri e brillanti del genere di partenza in una storia musicale di violenza e di sangue. Agli inizi, infatti, il pubblico parigino non accoglie con favore questo esperimento che porta sulla scena personaggi di dubbia reputazione, sigaraie e contrabbandieri, per giunta con un finale tragicamente sanguinoso da cronaca nera. Toccherà a Halévy attenuare la drammaticità della vicenda, convincendo Bizet a comporre danze ispirate alla tradizione musicale popolare spagnola e a inserire il personaggio di Micaela che, con la sua dolcezza e purezza, dovrà fare da contraltare allo “scandaloso” comportamento della protagonista.

Da quel momento l’opera diviene un successo mondiale e fa della bella sivigliana un mito attraversato dal demone della musica (come ha detto Nietzsche), di volta in volta morbido e tenebroso, splendente e perverso, sempre segnato da un bruciante vitalismo con quattro fondamentali momenti musicali e poetici: l’Habanera, il manifesto programmatico dei sentimenti amorosi di Carmen (“l’amour est un oiseau rebelle / Que nulle ne peut apprivoiser”); la Seguedilla con cui si completa l’opera di seduzione di Don José (“Mon coeur est libre comme l’air! / Qui veut m’aimer? Jel’amerai! / Qui veut mon ame? elle est a’ prendre!”); il Trio delle Carte quando ben tre volte le carte predicono per Carmen un destino di morte, forse il momento più drammatico e affascinante dell’intera opera; il finale nel quale Carmen non rinuncia alla sua libertà e non retrocede dinanzi alla morte (“Jamais Carmen ne cédera! / Libre elle est née et libre elle mourra!”).

Ora la regia nel primo atto trasporta la vicenda in un cabaret tipo Crazy Horse (ma sembra più un locale di Las Vegas) e trasforma l’”Habanera” in uno spogliarello seducente come un ghiacciolo; trasforma la taverna di Lillas Pastia in una balera dove si pratica la pole dance, costringendo la povera Carmen a eseguire la “Seguedilla” abbarbicata a un palo, suonando delle anacronistiche nacchere; colloca il drammatico “Trio delle Carte” in una squallida banlieue parigina; nel finale trasporta il trionfo di un torero a Parigi (dove ogni domenica i parigini invece di andare a una partita di calcio vanno a vedere la corrida), facendo morire la povera Carmen senza un briciolo di dignità tra i flash dei paparazzi e le telecamere, mentre Don José gli spacca delicatamente la testa con una macchina fotografica. A forza di ammodernare, attualizzare, decontestualizzare, defolclorizzare ecco che cosa rimane di una grande opera lirica: una specie di cabaret senza sesso, senza passione, senza violenza e senza amore, sepolto sotto una coltre di irresistibile noia.

Roberta Rocchetti

Carmen, il caliente capolavoro di Bizet, è una delle opere più duttili per quello che riguarda l’adattabilità a trasposizioni spazio/temporali o addirittura a variazioni della trama, negli anni abbiamo visto Carmen morire nelle maniere più disparate e abbiamo visto anche morire Don José al posto suo. Quindi non ci ha sorpreso né infastidito vederla ambientata, secondo la scelta di Jacopo Spirei il regista e Mauro Tinti che si è occupato di scene e costumi, in un ambiente parigino tra trash e burlesque, pieno di prostitute, spogliarelliste, transgender, ballerine di lap dance, papponi, paparazzi e uomini abbigliati come nella migliore o peggiore tradizione del neomelodico nostrano, i quali si muovono davanti ad una scenografia da nightclub. Quello che ha un po’ lasciato perplessi è stato che nonostante la scelta porno soft dell’ambientazione la carica erotico seduttiva di quest’opera sia andata persa, o forse proprio a causa di quella. Non si è recepito il potenziale seduttivo di Carmen pur interpretata da Irene Roberts, mezzosoprano statunitense con un fisico assolutamente indicato ed attraente, non si è recepito quello di Escamillo, il personaggio più centrato è stato sicuramente Micaela, forse perché non doveva sedurre nessuno, perlomeno non esplicitamente e non con le modalità di prammatica. Si è un po’ avuta quindi l’impressione che tutti agissero a caso e non perché traviati da dinamiche passionali, l’unico impeto passionale seppur in negativo lo si è visto durante la morte di Carmen, il quarto atto è risultato infatti a nostro avviso il migliore, il più riuscito, sia dal punto di vista registico che musicale.

Della parte che riguarda regia e parte visiva ne ha parlato in questa recensione ampiamente ed esaurientemente Alberto Pellegrino, non mi dilungo quindi oltre. Dal punto di vista musicale si è avuta una rappresentazione apprezzabile, la direzione di Francesco Lanzillotta è stata come sempre elegante e al servizio delle voci, forse inizialmente poco incisiva ma ha preso corpo via via che la messa in scena procedeva fino ad arrivare ad un quarto atto coinvolgente grazie anche al Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” guidato da Martino Faggiani che ha fornito una prova di professionalità impeccabile,  l’Orchestra Filarmonica Marchigiana è apparsa coesa sotto il controllo di Lanzillotta il quale ha riaperto dei tagli e omesso alcuni recitativi dando all’opera una prospettiva di lettura abbastanza inedita ma che a volte andava a discapito della coerenza della vicenda narrata.

La Carmen di Irene Roberts come dicevamo possiede il physique du role e anche la voce, pur perdendo un po’ corpo nel registro più grave rimettendoci di conseguenza in parte in drammaticità, il suo personaggio è risultato nell’insieme vocalmente credibile e corretto. Il Don José di Mattew Ryan Vickers si è lo stesso mantenuto nei termini di correttezza formale senza pecche e senza picchi, nel solco di una messa in scena alla quale è difficile trovare dei difetti singoli e ben evidenziabili ma che nel suo complesso non decolla. Così potremmo dire dell’Escamillo di David Bizic, voce potente e ampia ma poco messa al servizio dell’espressività. La Micaela di Valentina Mastrangelo è stata sicuramente quella più addentro al proprio ruolo, fresca, pulita, giovane, il timbro cristallino e celeste, fraseggio gestito magistralmente senza fatica, buona compenetrazione emotiva del personaggio reso realisticamente senza ingenuità eccessive.
Chiudevano il cast le buone Francesca Benitez (Frasquita), Adriana di Paola (Mercédes), l’ottimo Gaetano Triscari (Zuniga), Saverio Pugliese (Remendado), Tommaso Barreira (Le Dancaire), Stefano Marchisio (Moralès) Andrea Pistolesi (Bohémien) e Olga Salati (Marchande). Una menzione va ai bravi ballerini verticali guidati dalla coreografia di Johnny Autin.

E un’altra menzione particolare, molto particolare, va a chi nella serata del 10 agosto ci ha regalato nel cielo aperto sopra lo Sferisterio lo spettacolo delle stelle cadenti, perfettamente visibili, così come udibili sono stati i sospiri di meraviglia del pubblico per questo spettacolo nello spettacolo, pubblico che non ha mancato anche di elargire il suo apprezzamento alla fine della rappresentazione, con particolare trasporto verso le due protagoniste femminili.

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