La “Medea” di Euripide per i TAU
di Flavia Orsati
22 Lug 2019 - Commenti teatro
Bella e intensa messa in scena della “Medea” di Euripide per i TAU (Teatri Antichi Uniti) al Teatro Romano di Ascoli Piceno; regia e adattamento di Tonino Simonetti.
Contestualmente alla rassegna TAU (Teatri Antichi Uniti) al Teatro Romano di Ascoli Piceno, lo scorso 19 luglio, è stata messa in scena la Medea di Euripide, con traduzione, regia e adattamento di Tonino Simonetti e produzione di Laboratorio Progettoteatro.
Il mito di Medea è uno dei miti psicologicamente più cupi dell’antica Grecia, dal quale emerge una visone dell’animo umano – maschile e femminile – a tinte fosche, che non lascia spazio alla pietà, nel senso latino di pietas, e sacrifica tutto in nome del rancore e della vendetta. La prima rappresentazione della tragedia risale al 431 aC e, nonostante il tentativo di attualizzazione tramite alcuni espedienti da parte della compagnia, come musica azzardatamente metal nelle scene clou o improbabile vestiario per Giasone ed Egeo, si rischia di togliere pathos ad un’opera che resta contemporanea senza alcuno sforzo quasi 2500 anni dopo, ennesima riprova del fatto che non vi sia niente di nuovo sotto il sole, e che le passioni umane siano state sempre le stesse dall’alba dei tempi, così come gli scorni e le contraddizioni, anche bestiali, tra pulsioni e ragione.
Medea è un personaggio complesso, poco rassicurante, controverso. Infrange i tabù sui quali la civiltà greca era fondata e si fonda ancora la nostra: tradisce la patria, uccide il fratello; ignora a tal punto cosa sia il sentimento di pietà che riesce ad uccidere i figli da lei stessa generati per pura sete di vendetta, non in raptus ma premeditando lucidamente l’omicidio e le sue conseguenze. Forse proprio per questo attrae.
La tragica vicenda è strettamente collegata al mito degli Argonauti. Medea, maga imparentata con Circe, perciò familiare con il mondo occulto, originaria della Colchide, dopo aver aiutato Giasone a conquistare il Vello d’Oro compiendo ogni genere di efferatezza, come tradimento della patria e fratricidio, segue il suo amato, condannandosi per sempre ad un destino di apolide. Questo aspetto e tormento viene ben messo in risalto: Medea si sente una barbara, straniera nella rigida compostezza greca della polis di Corinto, dove regnava Creonte, la cui figlia, giovane e bella, aveva nome Glauce. Giasone, spergiuro, decide di tradire sua moglie, che per lui aveva rinunciato a tutto, pur di aumentare il suo status sociale e garantire prosperità ai due figli avuti con lei, legandosi alla corona nel modo più saldo possibile: tramite nuovo matrimonio con la figlia del re. Dal canto suo, Creonte, temendo che la maga possa rappresentare un pericolo per la propria incolumità e per quella della figlia, decide di esiliare Medea, la quale, astutamente, riesce a temporeggiare e a guadagnare un giorno prima della sua dipartita da quella terra. Giorno che risulterà essere fatale.
Nel frattempo, a Corinto giunge Egeo, re di Atene, che Medea riesce ad ingraziarsi, ottenendo così una promessa di asilo per il futuro. La maga chiama Giasone e, fingendosi pentita, gli consegna due doni di nozze per Glauce: un peplo leggero, di fine fattura, e un diadema intrisi di veleno che fanno morire tra strazi atroci la donna che il padre che cerca, invano, di salvarla. La vendetta, tuttavia, non è ancora compiuta: vuole provocare a Giasone il sommo male, ovvero vuole strappare la vita agli esseri da lui generati, sangue del suo sangue. Quella che vediamo in scena è una donna barbara che diventa carnefice e vittima di sé e della sua mancanza di autocontrollo.
All’inizio, una luce rossa su un palco nero, vuoto. Luci che illuminano lo scenario del teatro del I secolo aC. Musica tragica, esce una donna vestita di rosso, colore delle passioni e del sangue. Non si tratta della protagonista (come accade, ad esempio, nella rivisitazione della tragedia di Seneca, dove a dominare la scena dall’inizio è proprio Medea) ma della sua nutrice, che descrive in medias res come il cuore della sua padrona sia totalmente sconvolto dall’amore per Giasone. E lei sa che l’offesa subita scatenerà la più terribile delle vendette, così come lo sanno le donne del coro vestite di nero.
E poi, ecco Medea: ferocità, gemiti, lamenti, urla a squarciagola contro Giasone, sposo spergiuro e traditore. Al dolore del talamo nuziale tradito, si mesce il peso dell’essere lontana dalla propria casa: “barbara selvatica ultima tra gli ultimi”. E in patria, Medea era la prima. Era la regina.
Giasone vuole dimostrare che ha fatto quello che ha fatto per i figli, per garantire loro ricchezza e prosperità. Ma la moglie tradita non si convincerà mai di ciò. Affiora qualche ripensamento e qualche barlume di umanità prima dell’atto fatale: maledice il suo orgoglio, la sopportazione inutile dei dolori del parto; ma lei si rende conto della sua condizione: “la passione dell’anima è in me più forte della ragione”. E non fa niente per domarla. Anzi, chiede con lucida freddezza allo sposo, a fatto compiuto: “Cerchi i cadaveri o cerchi me?”. Le uccisioni avvengono fuori scena, senza essere mostrate. Solo Seneca oserà tanto.
L’unico epilogo possibile: “La vita umana è come ombra […] Non esiste al mondo essere felice”, che sembra ricalcare i versi di un’altra delle tragedie più grandi mai state scritte: “Life is but a walking shadows” del Macbeth del Bardo dell’Avon, niente meno che Shakespeare.
MEDEA di Euripide
- traduzione, adattamento e regia Tonino Simonetti
- con Gilda Luzzi, Simone Carlini, Felicita Angelini, Danila D’Agostino, Pino Presciutti, Vittorio Poltronieri, Manola Antonelli, Erika De Felice, Giovanna Cannella
- tecnico audio video Alfonso Morelli
- luci Giorgio Morgese
- produzione Laboratorio Progettoteatro